I nuovi privilegiati [di Matthew Stewart]
https://www.internazionale.it14 agosto 2020. Da bambino, per una settimana all’anno, facevo parte dell’aristocrazia statunitense. Nel periodo di Natale, o più spesso il 4 luglio (giorno dell’indipendenza degli Stati Uniti), la mia famiglia si trasferiva in uno dei circoli sportivi dei miei nonni a Chicago, a Palm Beach (in Florida) o ad Asheville (in North Carolina). I buffet della colazione erano magnifici e mio nonno era un padrone di casa gioviale, sempre pronto a raccontare storie di famiglia e a darci bonarie istruzioni su come comportarsi nel circolo. Quando avevo undici o dodici anni, sentendolo parlare tra nuvole di fumo di sigaro, capii che per le nostre settimane nel lusso dovevamo ringraziare il mio bisnonno, il colonnello Robert W. Stewart. Il colonnello aveva combattuto per Theodore Roosevelt nella guerra ispano-americana e aveva fatto fortuna negli anni venti come presidente della compagnia petrolifera Standard Oil in Indiana. Mi fu anche fatto capire che, per motivi riconducibili a qualche antica e incomprensibile disputa, i Rockefeller erano i nostri nemici giurati. Solo anni dopo avrei scoperto che le storie sul colonnello e sulle sue lotte contro Crescendo, lo sfarzo dei rinfreschi patriottici e delle partite di bridge durante le feste cominciò a sembrarmi vagamente ridicolo e persino offensivo, come un compleanno infinito per gente il cui massimo traguardo nella vita era mettersi in mostra. Facevo parte di una nuova generazione che credeva nella meritocrazia e che definiva il merito in modo molto lineare: sostenere esami, prendere ottimi voti, avere un buon curriculum, essere bravi nei giochi da tavolo, vincere le partitelle a basket e, naturalmente, lavorare per pagarsi gli studi. Nel mio caso significava fare lavoretti per i vicini di casa, timbrare il cartellino in un fast food e vincere borse di studio per finire il college e la specializzazione. Avevo ricevuto molti vantaggi alla nascita, ma tra questi non c’era il denaro. Oggi faccio parte di una nuova aristocrazia, che però si considera ancora un prodotto della meritocrazia. Per tanti versi il mio gruppo – che chiamerò il 9,9 per cento – è da ammirare. Ha rinunciato ai vecchi codici di abbigliamento, crede fermamente nei fatti ed è diventato un po’ più vario dal punto di vista del colore della pelle e dell’appartenenza etnica. Quelli come me, che hanno vaghi ricordi di un’antica casta dominante, sono l’eccezione, non la regola. Dal punto di vista sociologico ed economico far parte del mio gruppo è una fortuna. E lo è ancora di più per i nostri figli. In termini di salute, relazioni sociali e livello d’istruzione – per non parlare del reddito – ce la passiamo molto meglio di altri gruppi. Ma quando ci guardiamo allo specchio non ci accorgiamo di quanto siamo cambiati e di cosa siamo diventati. Noi della classe meritocratica abbiamo imparato un vecchio trucco: consolidare la ricchezza e trasmettere i privilegi per via ereditaria ai nostri figli a spese dei figli degli altri. Non siamo semplici spettatori innocenti della concentrazione della ricchezza della nostra epoca. Siamo i principali complici di un processo che sta lentamente soffocando l’economia, destabilizzando la politica statunitense ed erodendo la democrazia. Le nostre illusioni sul merito ci impediscono di riconoscere il problema causato dalla nostra ascesa. Tendiamo a pensare che le vittime del nostro successo siano solo le persone escluse dalla nostra cerchia. Ma la storia dimostra chiaramente che in questa partita è l’intera società a uscire sconfitta. Fascino discreto. Cominciamo dai soldi, anche se sono solo una parte di ciò che rende speciali i nuovi aristocratici. La storia dell’aumento della disuguaglianza negli Stati Uniti è stata raccontata molte volte, e i suoi protagonisti principali sono noti. I cattivi sono i petrolieri, i pezzi grossi di Wall street, gli imprenditori spietati della Silicon valley e il resto del cosiddetto 1 per cento. Poi ci sono i buoni, il 99 per cento, presentati anche come “il popolo” o “la classe media”. La storia è semplice: una volta eravamo uguali, oggi siamo divisi. In questo racconto c’è una parte di verità, ma sono i personaggi e la trama a essere fondamentalmente sbagliati. In realtà è stato lo 0,1 per cento della popolazione a beneficiare di più della crescente concentrazione della ricchezza degli ultimi cinquant’anni. Secondo Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, economisti dell’Università della California a Berkeley, nel 2012 le 160mila famiglie che facevano parte di questo gruppo controllavano il 22 per cento della ricchezza statunitense (nel 1963 la loro fetta di torta era del 10 per cento). Quando si parla di gente in grado di comprare le elezioni, si parla dello 0,1 per cento. Lo 0,1 per cento si è arricchito a spese di quelli che stanno sotto, ma non di tutti. A perdere è stato il 90 per cento più povero: a metà degli anni ottanta questo gruppo aveva in mano il 35 per cento della ricchezza del paese; trent’anni dopo la percentuale è scesa di 12 punti, esattamente la quota di crescita registrata dallo 0,1 per cento. Tra lo 0,1 per cento più ricco e il 90 per cento più povero c’è un gruppo che se la passa piuttosto bene. Ha conservato la sua fetta di torta (una torta sempre più grande) nel corso dei decenni. E, nel complesso, possiede molta più ricchezza degli altri due gruppi messi insieme. È la nuova aristocrazia. Siamo noi: il 9,9 per cento. Che tipo di persone siamo, noi del 9,9 per cento? Nella maggioranza dei casi non somigliamo agli esuberanti manipolatori politici dello 0,1 per cento. Siamo ben educati e ben vestiti. Siamo avvocati, medici, dentisti, piccoli banchieri d’affari e professionisti di ogni tipo. Insomma, siamo quelli che la gente invita a cena. Siamo talmente schivi che neghiamo perfino di esistere. Continuiamo a ripetere che apparteniamo alla “classe media”. Secondo i dati del 2016, per entrare a far parte del 9,9 per cento serve un patrimonio netto di 1,2 milioni di dollari, mentre ci vogliono 2,4 milioni per stare nella mediana del gruppo e dieci milioni per stare nello 0,9 per cento più ricco. Siamo anche quasi tutti (ma non tutti) bianchi. Secondo un’analisi del Pew research center, i neri rappresentano l’1,9 per cento del decimo superiore delle famiglie in ordine di reddito; gli ispanici sono il 2,4 per cento; tutte le altre minoranze, compresi gli asiatici, compongono l’8,8 per cento. Presi tutti insieme, questi gruppi rappresentano il 35 per cento della popolazione statunitense totale. Uno degli svantaggi di appartenere al 9,9 per cento è che si sta sempre con il naso all’insù. Guardiamo lo 0,1 per cento sopra di noi con un misto di ammirazione, invidia e riverenza. E così non ci accorgiamo dell’altro grande fenomeno della nostra Immaginate di partire esattamente dalla metà della scala della distribuzione della ricchezza. Che salto dovreste fare per entrare nel 9,9 per cento? Dal punto di vista economico, la misurazione è semplice e la tendenza è inequivocabile. Nel 1963 avreste dovuto moltiplicare la vostra ricchezza per sei per entrare nel gruppo, nel 2016 per 12, e ce l’avreste fatta per il rotto della cuffia. Se un posto in ultima fila non vi bastava e aspiravate al centro del gruppo, dovevate moltiplicarla per 25. Da questo punto di vista, gli anni dieci del nostro secolo somigliano molto agli anni venti del novecento. Per chi non è bianco è ancora più difficile. L’Institute for policy studies ha calcolato che, mettendo da parte i soldi investiti in “beni durevoli” come i mobili e l’automobile, nel 2013 il patrimonio netto mediano di una famiglia afroamericana era di 1.700 dollari, e di duemila dollari per una famiglia ispanica, contro i 116.800 dollari di una famiglia bianca. Secondo uno studio del 2015, a Boston la ricchezza mediana della famiglia bianca era di 247.500 dollari, contro gli otto dollari di una famiglia nera. Non è un refuso: otto dollari, come due cappuccini da Starbucks. Aggiungete altre 300mila tazze di caffè ed ecco che siete nel 9,9 per cento. Tutto questo non importa, dirà qualcuno, perché negli Stati Uniti tutti hanno l’opportunità di fare il salto verso la classe più alta: la mobilità sociale giustifica la disuguaglianza. È un ragionamento che non è vero in linea di principio, e che negli Stati Uniti non è vero neanche a livello fattuale. Contrariamente a quello che si pensa, la mobilità economica nella terra delle opportunità è bassa ed è in calo. Immaginate di trovarvi su una scala socioeconomica con l’estremità di un elastico legata alla caviglia e l’altra al gradino dove sono i vostri genitori. Più l’elastico è resi- stente, più sarà difficile per voi spostarvi dal piolo di partenza. Se i vostri genitori sono in alto sulla scala, l’elastico vi tirerà su in caso di caduta; se sono in basso, vi trascinerà giù quando cominciate a salire. Gli economisti rappresentano questo concetto con un indicatore che chiamano elasticità intergenerazionale del reddito (intergenerational earnings elasticity, Ige), che misura quanto lo scostamento del reddito di un figlio dalla media può essere attribuito al reddito dei genitori. Un Ige pari a zero significa che non c’è nessuna relazione tra il reddito dei genitori e quello del figlio. Un Ige pari a uno indica che il figlio è destinato a rimanere esattamente dove si trovava alla nascita. Secondo Miles Corak, professore di economia alla City university of New York, mezzo secolo fa l’Ige negli Stati Uniti era sotto lo 0,3 per cento. Oggi è vicino allo 0,5 per cento, il più alto di quasi tutti i paesi avanzati. Dal punto di vista della mobilità sociale, gli Stati Uniti sono più vicini al Cile e all’Argentina che al Giappone o alla Germania. Una volta scelti i genitori, insomma, il più è fatto. Quest’analisi dà solo un’idea della società classista che si sta sviluppando negli Stati Uniti. Le persone passano in continuazione da una categoria di reddito all’altra senza necessariamente cambiare classe sociale, e spesso sentono di appartenere a una classe mentre agli occhi degli altri rientrano in un’altra. Ma anche se le statistiche sulla ricchezza offrono un quadro imperfetto di un processo più profondo, riescono a illustrare almeno in parte la straordinaria trasformazione che sta avvenendo nella società statunitense. Qualche anno fa Alan Krueger, economista ed ex presidente del Council of economic advisers, l’ente che consiglia il presidente degli Stati Uniti sulla politica economica, notò alcuni segnali del processo in corso. La riduzione della mobilità sociale e l’aumento della disuguaglianza, osservò Krueger, sono strettamente collegati. In tutti i paesi l’Ige cresce quando il reddito è 0 distribuito in modo disuguale. È come se le società avessero la tendenza naturale a dividersi in classi sociali e poi a cristallizzarsi. Krueger chiamò questa tendenza la curva del Grande Gatsby, dal titolo del romanzo di Francis Scott Fitzgerald sulla fine del sogno americano. Il libro è ambientato nel 1922, più o meno negli stessi anni in cui il mio bisnonno stava segretamente sottraendo soldi alla Standard Oil depositandoli presso una società di comodo in Canada. E fu pubblicato nel 1925, proprio mentre venivano fuori le prove che alcuni titoli emessi da quella società erano finiti nelle mani del ministro dell’interno. Mentre Scott Fitzgerald se ne andava in giro a bere nei caffè diParigi, il colonnello Robert W. Stewart sfuggiva al mandato per testimoniare al senato sul suo ruolo in uno scandalo di corruzione legato alle concessioni petrolifere. Oggi ci stiamo avvicinando al picco di disuguaglianza raggiunto dalla generazione del mio bisnonno. Sono sicuro che loro pensavano che sarebbe durato per sempre. I soldi non comprano il rango sociale, diceva mia nonna. Ma possono servire per assumere un investigatore privato. Mia nonna veniva da una buona famiglia del Kentucky e, come Daisy Buchanan del Grande Gatsby, aveva fatto qualche sfilata da modella. Perciò, quando il suo primogenito annunciò di voler sposare una donna spagnola, non si fece trovare impreparata. Un investigatore la informò che la famiglia della promessa sposa si guadagnava da vivere vendendo giornali per le strade di Barcellona. Nonna ordinò una sospensione totale e immediata delle comunicazioni. La famiglia di mia madre era proprietaria di una cartiera. Quando la coppia ebbe dei figli mia nonna dovette cedere. Decisa a fare la cosa giusta, si attivò affinché la nuova famiglia, all’epoca in missione militare alle Hawaii, fosse iscritta nel social register di New York, il registro pubblico delle famiglie di alto rango. L’origine di una specie. I sociologi, nel loro linguaggio asciutto, direbbero che mia nonna era un’attenta amministratrice del capitale sociale di famiglia, e non avrebbe mai permesso a una stracciona spagnola di impossessarsene. Anche se questo non sarebbe mai successo, non aveva tutti i torti. Il denaro può essere la misura della ricchezza, ma non è l’unica forma di ricchezza. Famiglia, amici, reti sociali, salute, cultura, istruzione e perfino il posto in cui si vive sono tutte forme di ricchezza. Queste manifestazioni non economiche della ricchezza non sono semplici benefici accessori dell’appartenenza alla nostra aristocrazia. Definiscono chi siamo. Siamo gente di buona famiglia, godiamo di buona salute, abbiamo frequentato buone scuole, viviamo in ottimi quartieri e abbiamo un buon lavoro. Siamo così distanti da chi se la passa meno bene di noi – sotto tutti i punti di vista – che cominciamo a somigliare a una nuova specie. Come ai tempi di mia nonna, la nascita della nuova specie comincia con una storia d’amore. O, se preferite, con la selezione sessuale. Il termine tecnico è “accoppiamento assortativo”. A volte l’espressione è usata lasciando intendere che ci troviamo di fronte a un’altra delle meraviglie dell’era di internet. In realtà, la frenesia dell’accoppiamento assortativo deriva da una realtà che era nota già alle eroine dei romanzi di Jane Austen: l’aumento della disuguaglianza riduce il numero dei buoni partiti disponibili, premiando sempre di più chi riesce a fare un buon matrimonio a spese di chi non ci riesce. Secondo uno studio dell’American academy of political and social science, oggi il titolo di studio influisce sulla scelta del partner in percentuali che non si vedevano dagli anni venti del novecento. È fuorviante pensare che l’accoppiamento assortativo sia simmetrico, cioè che il topo di città sposa il topo di città e il topo di campagna sposa il topo di campagna. La metafora più appropriata sarebbe questa: il topo ricco trova l’amore, mentre il topo povero rimane fregato. A quanto pare chi fatica ad arrivare a fine mese ha meno probabilità di rimanere insieme al proprio partner. Secondo Robert Putnam, politologo di Harvard, sessant’anni fa solo il 20 per cento dei figli di genitori con al massimo un diploma di scuola superiore viveva in famiglie monoparentali; oggi la percentuale sfiora il 70 per cento. Nelle famiglie dove i genitori hanno frequentato il college, invece, il tasso di monoparentalità è sotto al 10 per cento. Dagli anni settanta la percentuale dei divorzi è scesa notevolmente tra le coppie con un’istruzione universitaria, mentre è aumentata drasticamente tra le coppie con un livello d’istruzione medio-superiore, nonostante il calo dei matrimoni. Secondo uno studio di Raj Chetty, economista a Stanford, il tasso di monoparentalità è l’indicatore più significativo dell’assenza di mobilità sociale in tutte le contee statunitensi. Questo non vuol dire che le persone sbaglino a cercare un partner adatto con cui formare una bella famiglia. La nostra specie ha sempre cercato la felicità in questo modo e presumibilmente continuerà a farlo. Il problema è che noi del 9,9 per cento ci illudiamo che se le nostre azioni sono singolarmente ineccepibili, allora la somma di quelle azioni farà il bene della società. Anche se prima di iscriverci a giurisprudenza abbiamo studiato Shakespeare, ci sfugge il senso delle possibilità tragiche dell’esistenza. In modo silenzioso e collettivo abbiamo scelto la disuguaglianza, e la disuguaglianza produce esattamente questo: trasforma il matrimonio in un bene di lusso e una famiglia stabile in un privilegio che le élite ricche possono lasciare in eredità ai loro figli. Questo divario di classe tra famiglie è solo un elemento di un processo che sta creando due forme di vita distinte nella società statunitense. Se osservate la gente in un centro yoga o in una palestra noterete che lo stesso processo sta prendendo forma nei nostri corpi. Nell’Inghilterra dell’ottocento i ricchi erano visibilmente diversi: erano più alti, molto più alti. Secondo lo studio “Pigmei e giganti d’Inghilterra”, i sedicenni maschi delle classi ricche svettavano mediamente di 21,8 centimetri sui loro denutriti compatrioti delle classi inferiori. Oggi negli Stati Uniti si sta creando la stessa situazione in ambiti diversi. Obesità, diabete, cardiopatie, malattie renali e malattie del fegato sono da due a tre volte più diffuse tra chi ha un reddito familiare sotto i 35mila dollari rispetto a chi ha un reddito sopra i centomila dollari. Nei primi quindici anni del ventunesimo seco- lo – caso unico nel mondo sviluppato – negli Stati Uniti il tasso di mortalità dei bianchi di mezza età e meno istruiti è aumentato. Ad alimentare questa tendenza è stata la crescita di quelle che gli economisti di Princeton Anne Case e Angus Deaton chiamano le “morti della disperazione”, cioè i suicidi e i decessi legati a problemi di alcol e droga. I dati sociologici confermano questo divario crescente. Noi fortunati appartenenti al club del 9,9 per cento viviamo in quartieri più sicuri, frequentiamo scuole migliori, facciamo meno chilometri per andare al lavoro, abbiamo un’assistenza sanitaria di qualità e, se le circostanze lo impongono, scontiamo le pene in carceri migliori. E abbiamo anche più amici, il tipo di amici che ci presentano nuovi clienti o mettono a disposizione preziose borse di studio per i nostri rampolli. Ma soprattutto, abbiamo imparato come lasciare tutti questi vantaggi ai nostri eredi. Negli Stati Uniti di oggi per sapere se un individuo si sposerà, eviterà il divorzio, s’iscriverà all’università, vivrà in un buon quartiere, avrà una rete sociale estesa e godrà di buona salute, basta andare a vedere cosa hanno fatto i suoi genitori. Stiamo lasciando quelli del 90 per cento con una montagna di debiti e cattive scelte di vita che in qualche modo si ritrovano costretti a fare e che ricadranno sui loro figli. Tendiamo a sottovalutare che negli Stati Uniti essere genitore è più costoso e che diventare madre è più rischioso rispetto a qualsiasi altro paese sviluppato, che le campagne contro la pianificazione familiare e i diritti riproduttivi sono un attacco alle famiglie del 90 per cento più povero, e che le politiche di sicurezza e ordine pubblico alimentano ulteriormente questo divario. Preferiamo interpretare la relativa povertà di queste persone come un vizio: perché non si danno una mossa? Oggi guardiamo il 90 per cento dall’alto delle nostre superiori virtù come i ricchi inglesi guardavano i poveri dall’alto dei loro centimetri, come se quel divario fosse un prodotto della natura. È così che si comportano gli aristocratici. Il privilegio dell’istruzione. Mia figlia di 16 anni è seduta su un divano e sta parlando con una sconosciuta dei suoi sogni per il futuro. Siamo qui perché, dice, “tutti i miei amici lo fanno”. Per un momento mi chiedo se, senza volerlo, non abbiamo firmato per una terapia psicanalitica. La donna dall’aria professionale e in abito casual elegante mi lancia uno sguardo appuntito e dice: “È normale essere ansiosi in un momento come questo”. Si sente davvero come una psicoterapeuta. Evidentemente non ha capito che il motivo della mia ansia è l’idea di spendere dodicimila dollari per un “pacchetto base” di servizi di consulenza universitaria che dovrebbero servire proprio a non farmi stare in ansia. Deciso a ricavare qualcosa da questa seduta di prova, chiedo suggerimenti sulle attività estive. Ce ne andiamo con una dritta su un “tour culturale” di dieci giorni in Francia per studenti del liceo. Sui moduli per le domande d’iscrizione al college è catalogata come “esperienza di arricchimento”. Quando torniamo a casa do un’occhiata. Prezzo dell’arricchimento: undicimila dollari per dieci giorni. Mi preparo il discorso da fare a mia figlia. Le dirò che si può vivere benissimo anche senza frequentare un’università prestigiosa. “Ti vogliamo bene così come sei. Non siamo come quei genitori chiassosi e ipercompetitivi che attaccano gli adesivi sul lunotto posteriore della macchina per far vedere quando sono bravi. E poi perché dovresti andare a lavorare in una banca d’investimento o fare l’avvocata di una multinazionale?”. Alla fine rinuncio al discorsetto, sapendo benissimo che farebbe immediatamente scattare il rivelatore di cazzate di mamma e papà. Oggi il colore della pelle dell’élite studentesca degli Stati Uniti è più vario, così come il genere, ma negli ultimi trent’anni l’ossatura economica di questa élite si è calcificata. Nel 1985 il 54 per cento degli studenti dei 250 college più selettivi proveniva da famiglie appartenenti ai tre quarti più bassi della scala di distribuzione della ricchezza. Nel 2010 la percentuale è scesa al 33 per cento. Secondo uno studio del 2017, 38 college d’élite hanno più iscritti provenienti dall’1 per cento più ricco che dal 60 per cento più povero. William Deresiewicz, ex professore di inglese a Yale, sintetizza efficacemente il quadro nel suo libro Excellent sheep, pubblicato nel 2014: “La nostra nuova meritocrazia, multirazziale e neutra dal punto di vista del genere, ha trovato il modo di diventare ereditaria”. A questo si aggiunge il fatto che ci sono molti programmi riservati ai ricchi. Come osserva Daniel Golden in The price of admission, il sistema della legacy-admission (la “corsia preferenziale” per i figli di ex alunni, soprattutto se finanziatori degli atenei) premia i candidati che hanno genitori ricchi. Anche la selezione per meriti sportivi – contrariamente a quello che si tende a credere – favorisce i ricchi, i cui figli praticano il lacrosse, lo squash, la scherma e altri sport costosi in cui le scuole private e le scuole pubbliche di élite eccellono. La fonte principale di tutti gli aiuti per i ricchi, naturalmente, rimane la scuola privata. Solo il 2,2 per cento degli studenti statunitensi si diploma in licei privati laici, ma questo 2,2 per cento forma il 26 per cento degli studenti dell’università di Harvard e il 28 per cento di quelli di Princeton. I pro- grammi pensati per diversificare la composizione del corpo studentesco sono senz’altro animati da buone intenzioni. Ma in una certa misura sono solo un’estensione di questo sistema di conservazione della ricchezza. Servono, almeno in parte, a far credere ai ricchi che il loro ateneo è aperto a tutti sulla base del merito. A dire il vero il crollo dei tassi di ammissione nelle università di élite coinvolge an- che parecchi figli del 9,9 per cento. Ma non preoccupatevi, giovani del 9,9 per cento: abbiamo creato una nuova schiera di college di élite tutta per voi. Grazie ad amministrazioni particolarmente ambiziose e alla possente macchina delle graduatorie dei migliori college stilata dallo U.S. News & World Report, oggi 50 college sono diventati selettivi come lo era Princeton nel 1980, quando mi iscrissi a quell’ateneo. A quanto pare le università sono convinte che accumulare domande respinte le renda speciali. In realtà significa solo che hanno scelto di usare le loro enormi risorse (che comprendono sovvenzioni statali) per perpetuare il privilegio invece di assolvere alla loro funzione di scolarizzare e istruire. L’unica cosa che cresce allo stesso ritmo della percentuale di domande respinte nei college più selettivi è il prezzo spropositato delle rette. In rapporto al salario mediano statunitense, dal 1963 al 2013 le rette e le tasse universitarie degli atenei più prestigiosi sono più che triplicate. Aggiungiamo i consulenti scolastici, le lezioni di violino, le scuole private e i soldi da mettere da parte per permettere ai nostri rampolli di salvare i villaggi della Micronesia, e il conto diventa ancora più salato. I sussidi alle famiglie contribuiscono a ridurre il divario e impediscono al costo medio dell’istruzione universitaria di crescere a ritmi ancora più alti. Ma resta una domanda: perché i ricchi sono così ansiosi di pagare per queste università? La risposta è che ne vale la pena. Negli Stati Uniti il “premio” di cui beneficiano i giovani adulti laureati rispetto ai non laureati supera il 70 per cento. Rispetto al 1950, il rendimento dell’investimento nell’istruzione è cresciuto del 50 per cento, ed è molto più alto in confronto a tutti gli altri paesi avanzati. Il premio dell’istruzione universitaria in Norvegia e in Danimarca, per esempio, è meno del 20 per cento; in Giappone è sotto il 30 per cento; in Francia e in Germania è intorno al 40 per cento. Tutto questo senza considerare la differenza abissale tra le “buone” scuole e tutte le altre. Secondo i dati del ministero dell’istruzione statunitense, a distanza di dieci anni dall’iscrizione all’università il decile più alto dei laureati provenienti da tutti gli atenei percepisce un salario mediano di 68mila dollari. Il decile più alto dei laureati nei college d’élite si mette in tasca 220mila dollari (250mila per i laureati di Harvard, il college in cima alla lista) mentre il decile più alto dei trenta college che seguono ne guadagna 157mila. Come è facile intuire, il tasso di accettazione delle domande nelle dieci università più prestigiose è del 9 per cento, contro il 19 per cento delle trenta successive. Si può tranquillamente ricevere una buona istruzione in una delle numerose scuole che non sono considerate “buone” da un sistema ossessionato dai nomi e dai marchi come quello statunitense. Le scuole “cattive”, però, sono cattive per davvero. A chi commette l’errore di nascere da genitori sbagliati la società statunitense offre una specie di sistema scolastico virtuale. Ci sono strutture che sembrano università ma in realtà non lo sono, e ci sono montagne di debiti che, invece, purtroppo, sono reali. Chi entra in questo ologramma di classe non riceve nessun premio dall’istruzione universitaria e si ritrova in una specie di servitù a contratto. Una delle storielle che ci raccontiamo è che il premio è il giusto corrispettivo per le conoscenze e le competenze che riceviamo dall’istruzione. Un’altra è che il premio è la giusta ricompensa per le superiori doti intellettive che già possedevamo prima di entrare nel campus. Siamo una “élite cognitiva”, secondo la definizione piena di tatto di alcuni sociologi. In realtà i laureati guadagnano molto di più di tutti gli altri non perché sono più bra- vi a fare il loro mestiere, ma perché possono scegliere diversi tipi di mestieri. Più della metà dei laureati delle università della Ivy league, il gruppo degli otto atenei più prestigiosi, segue uno dei quattro percorsi di carriera tipicamente riservati alle persone istruite: finanza, consulenza manageriale, medicina o legge. Per semplificare, possiamo dire che al mondo ci sono due tipi di mestieri: quelli dove i lavoratori possono influenzare collettivamente la loro retribuzione e quelli dove devono accettare le condizioni imposte. Essere un lavoratore del primo gruppo è meglio. Guarda caso, è il gruppo dei laureati. Declino sindacale. Perché i medici statunitensi guadagnano il doppio rispetto a quelli degli altri paesi ricchi? Gli Stati Uniti si sono classificati ultimi per cinque anni di seguito nella graduatoria del Commonwealth fund, che misura l’efficienza dei sistemi sanitari nei paesi ad alto reddito, quindi è difficile sostenere che i medici americani siano i più bravi a salvare vite umane. Dean Baker, economista del Center for economic and policy research, ha una spiegazione più plausibile: “Quando noi economisti – di destra o di sinistra – guardiamo alla professione medica negli Stati Uniti, vediamo qualcosa che somiglia molto a un cartello”. Le organizzazioni dei medici hanno un’enorme influenza nelle decisioni che riguardano il numero dei posti nelle facoltà di medicina e dei tirocinanti negli ospedali, la concessione delle licenze ai medici laureati all’estero e il ruolo dei praticanti infermieri, quindi di fatto sono in grado di limitare la concorrenza che minaccia i loro iscritti. E ovviamente lo fanno. Gli avvocati (o almeno l’élite della categoria) hanno imparato a fare lo stesso. An- che se la cosiddetta bolla delle scuole di legge si è sgonfiata, gli avvocati statunitensi sono ancora al primo posto nelle graduatorie internazionali dei redditi e guadagnano il doppio dei loro colleghi britannici. Nel 2016 Todd Henderson, professore di diritto all’Università di Chicago, ha dichiarato in un’intervista a Forbes che “l’American bar association, l’associazione degli avvocati e degli studenti di legge, gestisce un cartello approvato dallo stato”. Per fortuna nessuno crede più alla favola dei pionieri del settore tecnologico che grazie al loro genio innovano e trasformano lo status quo. La realtà è che ci sono cinque aziende enormi – i nomi li sapete – che messe insieme valgono 3.500 miliardi di dollari e rappresentano più del 40 per cento dell’indice Nasdaq. Il resto del settore tecnologico è composto per lo più da entità virtuali che aspettano pazientemente di gettarsi in pasto a uno di questi mostri. Parliamoci chiaro: si tratta di monopoli con sopra le faccine. Quando si parla di so- stanze vischiose come il petrolio gli americani hanno imparato da tempo a fronteggiare le aziende che cercano di fagocitare il mercato. Ma purtroppo ancora non sanno cosa fare con i monopoli che nascono da internet e dalle economie di scala del mercato dell’informazione. Finché non lo capiremo, i profitti resteranno attaccati a chi riesce a stare più vicino al barattolo di miele. Potete stare certi che a questa gente saranno riconosciuti un sacco di meriti. Ma il principale dispensatore di doni del 9,9 per cento, naturalmente, è il settore dei servizi finanziari. Oggi gli statunitensi trasferiscono un dollaro di pil su dodici al settore finanziario; negli anni cinquanta i banchieri si accontentavano di un dollaro su quaranta. Il gioco è un po’ più sofisticato di un banale scippo, ma la sostanza è emersa chiaramente durante la crisi finanziaria del 2008. Il cittadino si accolla il rischio e i guru della finanza si siedono ai tavoli del casinò: se esce testa vincono loro, se esce croce perdiamo noi. Il sistema finanziario non è un prodotto della natura. È stato studiato nel corso degli anni da generazioni di potenti banchieri per avvantaggiare loro e i loro eredi. Chi è che non fa parte della partita? Gli operai del settore automobilistico. Le persone che si occupano dei malati. I lavoratori del commercio al dettaglio, i produttori di mobili e chi lavora nella ristorazione. I salari degli operai manifatturieri e dei lavoratori del terziario statunitensi sono nella media delle graduatorie internazionali. Evidentemente l’eccezionalità degli stipendi statunitensi non riguarda i mestieri che non richiedono la laurea. E cosa succede quando i lavoratori si organizzano? Se a farlo sono le persone istruite e ben referenziate è perché vogliono fare il bene di tutti, assicurare un’alta qualità dei servizi, garantire condizioni di lavoro eque e premiare il merito. Ecco perché noi del 9,9 per cento creiamo “associazioni” chiedendo l’aiuto di altri professionisti. Quando lo fanno i lavoratori – con i sindacati – è una violazione dei sacri princìpi del libero mercato, un comportamento antimoderno. Pensate se negli Stati Uniti i lavoratori si rivolgessero a consulenti e a “comitati di retribuzione” formati dai loro colleghi di altre aziende per stabilire quanto dovrebbero essere pagati, come fanno gli amministratori delegati. Non è un caso se la ricompensa dell’istruzione universitaria è aumentata negli stessi anni in cui sono crollate le iscrizioni ai sindacati. Nel 1954 il 28 per cento dei lavoratori statunitensi era iscritto a un sindacato; nel 2017 la percentuale è scesa all’11 per cento. Comunità dorate. Dal 1980 al 2016 il valore delle case a Boston è aumentato di 7,6 volte. Se teniamo conto dell’inflazione, il ritorno sull’investimento per i proprietari è stato del 157 per cento. Nello stesso periodo a San Francisco il ritorno sull’investimento è stato del 162 per cento. A New York del 115 per cento. A Los Angeles del 114 per cento. Se vivete in un quartiere come il mio, sarete circondati da vicini che pensano di essere dei geni del settore immobiliare. Se invece vivete a St. Louis (dove il ritorno è del 3 per cento) o a Detroit (meno 16 per cento) evidentemente non siete stati altrettanto intelligenti. Nel 1980 una casa a St. Louis valeva quanto un decoroso monolocale a New York. Oggi vale quanto un bagno di 7 metri quadri. Negli Stati Uniti l’aumento del valore delle case (quelle di un certo tipo) è stato così strabiliante che, secondo alcuni economisti, il settore immobiliare è responsabile da solo dell’aumento della concentrazione della ricchezza degli ultimi cinquant’anni. Non sorprende che i prezzi siano aumentati nelle città più grandi, le miniere d’oro della nuova economia. Ma c’è un paradosso. Gli affitti sono talmente alti che le persone – soprattutto della classe media – abbandonano la città piuttosto che lavorare in quelle miniere. Nonostante un livello salariale tra i più alti del paese, dal 2000 al 2009 l’area metropolitana di San Francisco ha visto migrare 350mila residenti verso zone a reddito più basso. Secondo le stime degli economisti Enrico Moretti e Chang-Tai Hsieh, nel periodo compreso tra il 1964 e il 2009 l’emigrazione dai centri produttivi di New York, San Francisco e San Jose è costata agli Stati Uniti 9,7 punti di crescita. È ormai risaputo che la causa immediata di questa follia sta nei piani regolatori locali, che impongono restrizioni eccessive allo sviluppo edilizio e fanno aumentare i prezzi. Quello che è meno noto è che questo processo di spopolamento del cuore economico del paese è strettamente legato all’aumento della disuguaglianza e al crollo della mobilità sociale. L’inflazione immobiliare fa aumentare in modo proporzionale la segregazione economica. Ogni collina e valle ormai ha un cancello immaginario che indica quanti soldi ci vogliono per passarci la notte. La segregazione scolastica è cresciuta ancora di più. Nel mio quartiere di Boston il 53 per cento degli adulti ha la laurea. Nel quartiere appena a sud la percentuale è del 9 per cento. Questa scelta del quartiere su base economica e scolastica viene spesso rappresentata in termini di preferenze individuali: ai rossi piace stare con i rossi, ai blu con i blu. In realtà è un fenomeno che riguarda il consolidamento della ricchezza in ogni sua forma. A cominciare, ovviamente, dai soldi. I quartieri del privilegio si trovano sempre in prossimità di gigantesche macchine da soldi: una banca troppo grande per fallire, un simpatico monopolio tecnologico e così via. Le amministrazioni locali, che nel 2016 hanno incassato dalle imposte sui beni immobili la cifra record di 523 miliardi di dollari, fanno in modo che gran parte di quei soldi rimanga nella zona. Ma la prossimità al potere economico non è solo uno strumento di accaparramento: è un agente di selezione naturale. Nelle zone dove vivono i privilegiati c’è un’aspettativa di vita più alta, reti sociali più utili e tassi di criminalità più bassi. Il pendolarismo, invece, provoca obesità, stress, insonnia, solitudine e divorzi, come ha scritto Annie Lowrey su Slate. Secondo una ricerca condotta in Svezia, se il luogo di lavoro dista 45 minuti o più da casa il rischio di divorzio aumenta del 40 per cento. I meccanismi di questo divario geografico dilagante emergono chiaramente dal sistema dell’istruzione primaria e secondaria. Le scuole pubbliche sono nate perché dovevano offrire un’opportunità a tutti, ma negli Stati Uniti sono state di fatto privatizzate per servire i bisogni delle classi più ricche. In California undici delle migliori scuole si trovano a Palo Alto, nella Silicon valley. Sono gratuite e aperte a tutti: per iscriversi basta trasferirsi in una città dove il valore mediano di una casa è di 3,2 milioni di dollari. In confronto Scarsdale, nello stato di New York, è un posto a buon mercato: i licei pubblici della zona mandano ogni anno decine di diplomati alle università della Ivy league, eppure il valore mediano di una casa è di appena 1,4 milioni di dollari. Bisogna dire che la segregazione razziale è diminuita con l’aumento della segregazione economica. Noi del 9,9 per cento ne siamo orgogliosi. Quale migliore dimostrazione che per noi conta solo il merito? Ma è meglio che l’integrazione non si spinga troppo oltre: quando la percentuale di persone appartenenti a una minoranza supera una certa soglia, i quartieri all’improvviso diventano completamente neri. È inquietante, ma non certo sorprendente, scoprire che la mobilità sociale è più bassa nelle zone dove c’è una maggiore segregazione razziale. La vera rivelazione, però, è che a essere danneggiati non sono solo quelli coinvolti direttamente. Secondo le ricerche dell’economista Raj Chetty, “i dati mostrano una correlazione tra maggiore segregazione razziale e minore mobilità sociale dei bianchi”. Naturalmente la relazione non vale per tutte le zone del paese, ed è sicuramente il riflesso statistico di una serie più complessa di meccanismi sociali. Ma sottende una realtà che era già nota agli schiavisti dell’ottocento: dividere per colore è ancora il modo più efficace per tenere a bada tutto il 90 per cento. Forse la dimostrazione più chiara del potere di un’aristocrazia è il livello di risentimento che provoca. Da questo punto di vista il 9,9 per cento non si sta facendo mancare nulla, come dimostra l’aumento delle divisioni e dell’instabilità politica negli Stati Uniti. Le elezioni presidenziali del 2016 hanno segnato un momento decisivo da questo punto di vista. Il risentimento è entrato alla Casa Bianca con Donald Trump, sostenuto da un’alleanza tra un minuscolo gruppo di ricchissimi appartenenti al club dello 0,1 per cento e quella fetta del 90 per cento che rappresenta tutto ciò che non è il 9,9 per cento. Secondo gli exit poll della Cnn e del Pew research center, Trump ha vinto con un vantaggio di più di 20 punti percentuali tra gli elettori bianchi. Non si tratta dei soliti vecchi bianchi (anche se effettivamente sono vecchi). La prima cosa da sapere sulla grande maggioranza di questi elettori è che non sono tra quelli che la nuova economia premia come vincitori. È vero, non sono nemmeno poveri. Ma hanno ragione a sentirsi giudicati – e scartati – dal mercato. Le contee che hanno votato per Hillary Clinton rappresentano il 64 per cento del pil, quelle che hanno sostenuto Trump il 36 per cento. Secondo le stime di Aaron Terrazas, economista dell’agenzia immobiliare Zillow, il valore mediano di una casa nelle “contee Clinton” è di 250mila dollari, nelle “contee Trump” è di 154mila. Calcolando l’inflazione, da gennaio del 2000 a ottobre del 2016 nelle contee dove ha vinto Clinton c’è stato un aumento del 27 per cento dei prezzi delle case; nelle contee dove ha vinto Trump l’aumento è stato del 6 per cento. Ma il tratto distintivo degli elettori di Trump non è il reddito: è l’istruzione, o meglio la sua mancanza. L’ultimo studio del Pew dice che Trump ha perso di 17 punti percentuali tra gli elettori bianchi laureati. Ma si è rifatto con gli interessi tra i bianchi non laureati, dove ha prevalso di 36 punti. Instabilità inevitabile. L’età dell’irragionevolezza ha trovato il suo eroe in Trump. L’uomo che si è fatto da solo è sempre stato l’idolo di chi non ce la fa. È l’incarnazione del sogno americano, l’uomo che non deve chiedere niente a nessuno, il ricco che anima le fantasie dei poveri. Sono gli ipocriti, gli istruiti, quelli che questo gruppo non sopporta. Con la sua totale mancanza di competenza politica e la sua ignoranza bellicosamente rivendicata, Trump è il rappresentate perfetto di un elettorato per il quale il buon governo equivale a una rivincita contro i cervelloni. Quando la ragione diventa nemica dell’uomo comune, l’uomo comune diventa nemico della ragione. La polarizzazione della vita politica statunitense non è solo il frutto della cattiva educazione o di una mancanza di comprensione reciproca. È lo strascico rumoroso di una disuguaglianza dilagante. L’ultimo anno ha confermato qual è la principale conseguenza di questo processo: l’instabilità. Le persone irragionevoli tendono a essere ingovernabili. È questo il problema della curva di Gatsby. Apparentemente congela e rende immutabili perdite e vantaggi, ma in realtà il processo di cristallizzazione rende tutto il sistema più fragile. Se guardiamo alla storia, possiamo avere un’idea di come finiscono questi processi. All’inizio del novecento la curva di Gatsby aveva messo alle corde la democrazia statunitense. Chi aveva i soldi comandava. I ricchi degli anni venti volevano quello che i ricchi vogliono da sempre. I loro servi erano pronti ad accontentarli. Nel 1926 l’amministrazione di Calvin Coolidge approvò un enorme taglio alle tasse in modo che tutti portassero a casa qualcosa. I ricchi pensavano di non avere nulla da temere, fino all’ottobre del 1929, quando la borsa crollò e cominciò la grande depressione. Dov’era il 90 per cento mentre i ricchi mettevano in atto quel saccheggio? Una buona parte era ai comizi del Ku klux klan. Per la parte più rumorosa (anche se non necessariamente la più larga) del 90 per cento, la colpa di tutti i problemi degli Stati Uniti era degli immigrati parassiti. Gli stessi immigrati da cui discendono quelli che oggi si sono convinti che la colpa di tutti i problemi degli Stati Uniti sia degli immi- grati parassiti. L’ondata tossica della concentrazione della ricchezza, cresciuta nell’età dell’oro e arrivata all’apice negli anni venti, andò a infrangersi sulle secche della depressione e della guerra. Oggi ci piace pensare che i programmi di welfare piantati dal new deal e fioriti nel dopoguerra siano stati i principali fattori propulsivi di una nuova uguaglianza. La verità è che questi sforzi appartengono più alla categoria degli effetti che delle cause. La morte e la distruzione furono i veri agenti del cambiamento. Il crollo finanziario fece scendere i ricchi di parecchi gradini, e la guerra diede forza alla classe lavoratrice, in particolare alle donne. Come cadono le aristocrazie. Non fu la prima ondata distruttiva della storia americana. Nella prima metà dell’ottocento la schiavitù rappresentava la più grande industria degli Stati Uniti. In quegli anni il settore era arrivato a una concentrazione tale che quattromila famiglie (più o meno lo 0,1 per cento della popolazione) possedevano circa un quarto di questo “capitale umano” e altre 390mila (circa il 9,9 per cento) avevano il resto. L’élite schiavista era molto più istruita, sana e ben educata della grande maggioranza della restante popolazione bianca, per non parlare di quella ridotta in schiavitù. Controllava non solo il governo ma anche i mezzi d’informazione, la cultura e la religione. Dai pulpiti e dalle colonne dei giornali i suoi portavoce erano così convincenti nel sostenere la santità e i benefici dello schiavismo che milioni di bianchi poveri senza schiavi consideravano un onore sacrificare la loro vita per difendere il sistema. Tutto questo finì con 620mila soldati morti ed enormi danni alle proprietà. Per un po’ nel sud degli Stati Uniti la ricchezza fu ridistribuita, ma presto il processo si sarebbe invertito un’altra volta. In The great leveler lo storico Walter Scheidel sostiene che la disuguaglianza finisce solo con la violenza e la devastazione: guerre, rivoluzioni, dissoluzione dello stato, pestilenze e altre calamità. È una teoria deprimente. Oggi, nel pieno di una nuova ondata di disuguaglianza, siamo disposti a scommettere che sia infondata? La sfida del nostro tempo è rinnovare la promessa della democrazia statunitense invertendo il processo di calcificazione della società creato dalla disuguaglianza. Fin quando la ricchezza e le opportunità saranno mal distribuite la ragione sarà assente dalla politica, e senza la ragione sarà impossibile risolvere qualsiasi altro problema. È una questione di portata storica e mondiale. Ma le soluzioni finora proposte, nella maggior parte dei casi, sono inefficaci. I sostenitori della meritocrazia hanno proposto test migliori e aggiornati per Nel frattempo i radicali da bar dicono di volere la rivoluzione. Evidentemente non sanno che le uniche soluzioni semplici sono quelle più violente e distruttive. Il modello statunitense è sempre stato una stella polare, non un programma politico e tantomeno una realtà. I diritti delle persone non sono mai stati né potranno mai essere sanciti in una manciata di frasi o vecchie dichiarazioni. Devono costantemente tenere il passo con il mondo in cui viviamo. Oggi gli statunitensi devono capire che l’accesso alla sanità, l’opportunità di attingere alla conoscenza e la possibilità di vivere in un quartiere dignitoso non sono privilegi per quei pochi che hanno imparato a manipolare il sistema. Sono diritti che sgorgano dalla stessa fonte da cui nascono cose che una generazione precedente ha chiamato “vita”, “libertà” e “ricerca della felicità”. Il cambiamento fondamentale dovrà arrivare da Washington. Chi crea il potere monopolistico può anche distruggerlo; chi permette al denaro di influenzare la politica può anche impedirlo; chi ha spostato il potere dal lavoro al capitale può restituirlo. Ma il cambiamento dovrà avvenire anche a livello statale e locale. È l’unico modo per aprire le comunità e riaffermare il carattere pubblico dell’istruzione. Ogni cittadino statunitense dovrà dare il suo contributo, soprattutto quelli che al momento appaiono come i vincitori di questa fase della partita. Dobbiamo toglierci dagli occhi il riflesso del nostro successo e pensare a cosa possiamo fare nel quotidiano per quelli che non sono i nostri vicini di casa. Dobbiamo batterci per le opportunità dei figli degli altri come se da questo dipendesse il futuro dei nostri. Perché probabilmente è così. *Traduzione di Bruna Tortorella) *+Questo articolo è stato pubblicato il 6 luglio 2018 sul numero 1263 di Internazionale. L’originale era uscito sull’Atlantic con il titolo The 9.9 percent is the new american aristocracy.
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