Dai giornali di partito ai “giornali-partito” (e oltre). Note a margine sul giornalismo di domani [di Pierfranco Pellizzetti]

futuro-giornalismo

http://temi.repubblica.it/micromega-online «La preghiera del mattino dell’uomo moderno è la lettura del giornale» Georg Wilhelm Friedrich Hegel.   «Pretendere di dire la verità e tutta la verità con un giornale, è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un’ocarina: lo strumento non è molto adatto» Norman Mailer.

Perché la crisi dei giornali è strettamente connessa a quella della democrazia. Riflessioni sul mondo dell’informazione post-covid (e non solo) a partire dal saggio di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito “Perché il giornalismo abbia un futuro”.

 Profilazione, la nuova frontiera. Stimolante l’articolo di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, apparso su MicroMega 5/2020; in particolare per un ultra settantenne inebriato, fin dalla più tenera età, dal profumo dell’inchiostro tipografico. E opportuni gli squarci sullo stato dell’arte globale della carta stampata et similia (a parte un poco comprensibile passaggio di critica all’idea di notizia come eccezione, ossia il cosiddetto scoop: informare vuol dire segnalare l’imprevisto come sintomo di uno statu nascenti, di una rottura in atto; mentre il contrario è solo il ben noto, l’inerte ripetitivo).

Sicché, volendo seguire le nostre guide sul terreno infido e spesso illusorio dei cambiamenti in atto nel caleidoscopico mondo della comunicazione, trarremo spunto dall’invito di cogliere aspetti propedeutici dalle politiche di target delle star Spotify e Netflix, per addentrarci nel territorio di frontiera della profilazione.

Dicono Nalbone e Puliafito: «Poniamo il caso di un sito di informazione che vive di pubblicità: basterebbe ‘profilare’ i propri lettori e dare loro, così, il giusto contenuto».
Di cosa tutto questo tratta e in che misura potrebbe rivelarsi utile per salvare quel caro compagno (fortunatamente non ancora “estinto”) che chiamiamo giornale?

Si tratta di prendere atto di un passaggio in corso, dalla futurologia alle concrete pratiche di successo, giocato sulla gestione spericolata dei Big Data. Ossia i nuovi paradigmi tecno-politici resi disponibili dalla rivoluzione “informazionalista”; praticati con successo, prima come mercificazione dei comportamenti di consumo, poi nelle campagne elettorali USA di Obama e Trump, nel referendum Brexit (il caso Facebook-Cambridge Analytica). Tanto da far scrivere a Paul Mason, brillante free-lance del giornalismo anglosassone, che «gli americani hanno creato algoritmi di controllo delle opinioni che consentono alla loro democrazia di essere manipolata da chiunque abbia i soldi per farlo»[1].

Attenzione! Quindi ci stiamo avvicinando alla zona tossica di quanto la sociologa della Harvard Business School Shoshana Zuboff ha definito “Capitalismo della sorveglianza”, trasformandolo in un best-seller mondiale.

«Larry Page [fondatore di Google, ndr.] aveva capito che l’esperienza umana poteva essere la materia prima di Google, estraibile gratuitamente online e a un prezzo molto basso nella vita reale. Una volta estratta, viene trasformata in dati comportamentali, producendo un surplus che forma la base di una nuova classe di beni da scambiare sul mercato. Il capitalismo della sorveglianza nasce da questo atto di esproprio digitale»[2].

That America that all right, come sillabava tanti anni fa un americano a Roma o l’annuncio dell’incubo prossimo venturo? Vedete voi.

Comunque, quanto fuoriesce dalla succitata alternativa è la crescente importanza, negli scambi comunicativi, che assumono i criteri di profilazione. Ossia l’individuazione dei punti sensibili – destinatario per destinatario – da mirare per i propri messaggi, al fine di raggiungere la completa sintonia tra emittente e soggetto ricevente. Al limite, l’identificazione.

Dunque, “profilare” significa mirare e modellizzare target specifici a cui inviare messaggi personalizzati. Operazione che, applicata alla nostra materia, ha un’inevitabile conseguenza: la fine del giornale generalista.

Che – in sequenza – impone un’altra questione: l’elaborazione dei contenuti funzionali a tale profilazione. La messa a fuoco delle griglie (interessi/valori) attraverso i quali filtrare la massa fangosa della realtà, per ricavarvi la pagliuzza aurea della notizia. Intesa come plausibile bandolo per operazioni costruttivistiche. Un’operazione intellettuale condivisa tanto dall’emittente come dal destinatario, da redattore e lettore, che in quanto tale rende apprezzato lo scambio. E remunerabile in ogni senso del termine.

Tenendo conto che «se nei giorni euforici della Primavera araba i social media erano visti come ‘tecnologie di liberazione’ e Facebook, Google e Twitter erano i segni dell’imminente futuro democratico del mondo, gli stessi media sono ora universalmente associati alla frammentazione sociale, alla polarizzazione politica post verità e alla fine imminente della democrazia»[3].

Sicché – riguardo al rapporto mirato all’orientamento attraverso processi coerenti ed espliciti di rappresentazione della realtà (stante che è nella mente collettiva che traggono avvio i processi di appropriazione della realtà) – può essere utile fare un balzo dal generale al particolare, dal mondo alla nostra piccola Italia.

Giornali di partito, giornali-partito. L’epoca “asse” del dopoguerra italiano coincide con la metà degli anni Settanta. Non solo per il giornalismo, ma anche per l’economia (inizio del declino industriale, evidenziato dalla serrata degli investimenti nel settore privato) e per la politica (assassinio di Aldo Moro il 16 marzo 1978, che pone fine al tentativo con il Compromesso Storico di trovare nuovi equilibri democratici post-Guerra Fredda).

Per quanto riguarda l’informazione, si può dire che gli influssi delle turbolenze di quegli anni sono riconoscibili e altissimi. La stampa cosiddetta “padronale” (Stampa, Corriere della Sera, Secolo XIX, La Nazione, il Messaggero ecc.) sconta la perdita di egemonia, poi la marginalizzazione, del suo referente sociale primario – la vecchia borghesia dell’industria e della rendita; mentre il quotidiano (il Giorno) punto di riferimento del ceto emergente – la cosiddetta “Razza Padrona” dei boiardi del settore pubblico – che avrebbe dovuto detronizzare quello declinante, iniziava a subire la crisi di identità delle PpSs; le grandi fabbriche partecipate dallo Stato.

Un declino ineluttabile, evidenziato proprio dal tentativo fallito di rivitalizzare la corazzata milanese del giornalismo novecentesco. Ossia l’avvento come direttore in via Solferino di Piero Ottone (1973-1977) – non un grande giornalista ma uomo scaltro e spregiudicato – con il suo tentativo di puntellare quel tipo di giornalismo con modernizzazioni camaleontesche e cavalcare le temporanee tendenze contestative di quegli anni ingaggiando collaboratori “corsari”, alla Pier Paolo Pasolini.

Il “giornale Hyde Park”, ovviamente cacofonico in quanto furbescamente acchiappa-tutto, come teorizzava lo stesso Ottone, e che non ebbe vita lunga. Poi iniziò la lunga agonia di quel tipo di testate, che prosegue fino alla loro riduzione al ruolo di esangui e screditati strumenti di mera pressione politica ricattatoria, culminata l’anno scorso nella conglomerazione EXOR-GEDI delle famiglie Fiat/FCA. Mentre si preannuncia un tardivo revival di stampa padronale con l’operazione che vede la nascita del quotidiano Domani, promossa e finanziata da un ultra-ottuagenario in cerca di rivincite; come Carlo De Benedetti. Fuori tempo massimo?

Ma mentre si consumava questo “lungo addio”, era la stampa di partito a collassare, a fronte del discredito crescente nei confronti – appunto – dei soggetti della rappresentanza istituzionale, della sua “forma” e della relativa militanza; mentre già si intravvedevano operazioni di sbaraccamento dell’ordine welfariano, ridotto a strumento di controllo della società.

Lo scrostamento della patinatura democratica che valorizzava una classe politica di Prima Repubblica, ancora in grado di eludere gli effetti del primo squarcio a vista sulle sue attitudini collusive-corruttive (lo “scandalo petroli” risale al 1978); che poi sarebbe crollata sotto il peso del secondo (Tangentopoli e l’inchiesta “Mani Pulite”). Una realtà già da tempo percepita con disprezzo dalla pubblica opinione, diventata generale discredito dei partiti.

Ma mentre l’intera compagine della stampa tradizionale anemizzava, avvenne qualcosa che – a mia conoscenza – non trovava/trovò mai altro riscontro a livello internazionale: nel giro di un biennio a metà dei Settanta, irruppero sulla scena due testate di tipo assolutamente originale, promosse da superstar della carta stampata: il Giornale di Indro Montanelli il 25 giugno 1974, la Repubblica di Eugenio Scalfari il 14 gennaio 1976.

Una novità che vedeva due affermati opinion leader/maker rivolgersi direttamente alle platee dei propri lettori – i possidenti legge&ordine il direttore Montanelli, il ceto medio riflessivo/progressista il direttore Scalfari – fornendo direttamente orientamenti politici strategici, non solo elettorali, e assumendo un ruolo da “eminenza grigia” nei confronti dello stesso personale di partito.

Per inciso, non sono sicuro che il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio possa essere ricondotto alla tipologia giornale-partito dei modelli Repubblica/Giornale, in quanto il rapporto della testata con il suo target captive non è mai stato diretto, autonomo; ma ha continuato a scorrere attraverso la mediazione di imprenditori politici, che svolgevano il ruolo di certificatori di condivisibilità: Antonio di Pietro dell’Italia dei Valori agli albori dell’avventura (l’uscita de il Fatto risale al 2009), tuttora la leadership pentastellata Grillo/Casaleggio.

Tornando al tema, un ruolo – quello dei giornali-partito – che nel suo protagonismo andava ad accentuare le dinamiche verticistiche e l’attitudine alla negoziazione occulta già presenti nelle classi dirigenti nazionali, a scapito della trasparenza del discorso pubblico, e nell’attitudine ad adottare sedi extra-istituzionali per i processi decisionali e la definizioni degli organigrammi: la mitologia dei salotti milanesi e delle terrazze romane, parzialmente sostituiti nel corso della Seconda Repubblica berlusconizzata dai talk-show.

Quella berlusconizzazione – come asservimento e strumentalizzazione – che ha sedimentato i suoi umori più mefitici e che attualmente continua a essere ignobilmente riscontrabile nella stampa di destra: il Giornale, Libero, La Verità e tutti gli altri cloni del giornale-mazziere. Dunque, non giornali-partito, semmai giornali-di-partito nella versione più becera e servile. Per decenni agli ordini di quel Silvio Berlusconi che Vittorio Feltri chiamava (in privato) “il riccone”.

Nell’ingombrante presenza ai talk show dei suoi polemisti a tassametro e a libro paga; più uomini di mano per campagne di disinformazione e killeraggio on demand, sempre pronti a servire gli obiettivi dei propri datori di lavoro: i Feltri Sr., gli Alessandro Sallusti, i Maurizio Belpietro; per arrivare ai late comers tipo il lunare Pietro Senaldi.

Una fenomenologia che – se allontanava ulteriormente i cittadini dalla democrazia rappresentativa – al tempo stesso screditava la funzione informativa dei giornali, le cui prese di posizione potevano venire ricondotte – con sempre maggiore evidenza – direttamente alle preferenze dei direttori-demiurgo e della loro corte di redattori, alle loro frequentazioni privilegiate nell’arena di partito.

Una evidente degenerazione del potere informativo dei media, sinergico alle derive post-democratiche che andavano affermandosi insieme alla riduzione del pluralismo a pura teatralizzazione. Mentre l’emergere di nuove identità collettive veniva vanificato dai processi di omologazione che riducevano i soggetti della politica a un’unica corporazione indifferenziata del potere.

La cosiddetta Casta. Quanto Alessandro Pizzorno prefigurava amaramente già nel 1981: «Ogni volta che il sistema si ristabilizza ci appaiono più insopportabili lo spreco e la perdita di ricchezza umana, quasi gli anelli del feed-back di riequilibrio operassero con maggiore durezza e, dissipando sempre più preziose energie, si allontanassero a spirale dal terreno di una democrazia accessibile a tutti. L’orgoglio dell’invenzione politica occidentale, il pluralismo, ci appare destinato ad accrescere il cinismo fra i potenti, la segretezza fra i governanti e l’indifferenza fra i membri della città»[4].

Citizen journalismEcco il punto: la crisi dei giornali è strettamente connessa a quella della democrazia. Sicché non è tanto o soltanto una questione tecnologica, o di mercato, organizzativa e della facitura, di supporti o chi più ne ha più ne metta. È lo smarrimento delle ragioni costitutive di una pratica che nasce in sinergia con il mondo disegnato dalle rivoluzioni della Modernità.

Delle sue esigenze di dare voce al nuovo soggetto centrale nella fase storica (il burger/citoyen: «la Rivoluzione francese ha inventato un tipo di borghese emancipato attraverso la politica»[5]) e per mettere sotto controllo il Leviatano dell’Assolutismo. Sotto forma di libelli nella fase aurorale secentesca, per poi strutturarsi nei primi fogli settecenteschi a scadenza periodica, sempre con lo stesso pensiero guida. La consapevolezza della propria funzione.

Quella che un personaggio pur ambiguo – quale Benjamin Franklin – sintetizzerà nella celebre metafora del “cane da guardia dei cittadini”. Per cui non credo di dire qualcosa molto diversa da Daniele Nalbone e Alberto Puliafito quando scrivono: «Il giornalismo è un pilastro della democrazia e mai come in questo momento c’è bisogno di grande giornalismo per aiutare i cittadini a districarsi».

Ma se questo è vero, allora la soluzione non può essere una sorta di “giornalismo à la carte” in cui la redazione ascolta e apparecchia secondo le indicazioni dei lettori.

Il modello da perseguire è ben altro, prestando giustamente attenzione alle esperienze più innovative avvenute o in corso al centro del sistema-Mondo. Ossia quei processi di ripensamento del modo di fare giornalismo che – a partire dal New Journalism fine anni Sessanta di Truman Capote, Norman Mailer e Tom Wolfe – si poneva il problema del coinvolgimento del lettore. Inizialmente come partecipazione emotiva, poi –via. via – come attivazione di comunità editoriali nel più recente fenomeno, innescato da internet e dalla rivoluzione informatico-comunicativa, del Citizen Journalism. Esperimento in corso, appassionante, bifronte, creativo e sempre a rischio di sbandate paternalistico-demagogiche, che il docente di Comunicazione Digitale e Multimediale all’Università di Pavia – Paolo Costa – così descrive: «È il riconoscimento di un nuovo modello di cittadinanza e di sfera pubblica, reso possibile dal decentramento dell’informazione a propria volta abilitato da Internet. In sintesi, i nuovi media rendono potenzialmente più democratica e trasparente la sfera pubblica. Al tempo stesso essi riscattano il giornalismo dall’involuzione che ha conosciuto rispetto alla funzione ideale di controllore del potere politico al servizio dell’opinione pubblica»[6].

A difesa dell’analisi di Costa va precisata la sua datazione a tre lustri fa, quando ancora non si erano completamente palesati i processi di colonizzazione del Web da parte delle multinazionali “del silicio” e dei media.

Solo quattro anni dopo il massmediologo di Stanford Evgeny Morozov faceva presente che «molte delle opportunità create dalla concezione di un Internet gratuita e anonima per tutti sono state sfruttate in modo creativo da persone e network che minano la democrazia»[7].

Resta comunque fermo – ai fini del nostro ragionamento – che ogni strategia di rinnovamento in senso democratico-partecipativo dell’informazione non può che partire dai contenuti e dai relativi approcci, in grado di creare quel coinvolgimento emozionale – sulla filiera tra l’indignato e il progettuale – che parte dalla presa di posizione (possiamo dirlo? “Politica”) sulle dinamiche reali.

La cosiddetta “autopsia sociale”.

Democrazia e giornalismo gemelli monozigoti. La politica moderna nasce al tempo delle rivoluzioni borghesi americana e francese come acquisita consapevolezza che la materia di cui è composto il consorzio umano è plastica, dunque trasformabile/modificabile in base a scelte condivise

Insomma, la stanchezza della democrazia diventa stanchezza del giornale, che non si rimetterà in forze grazie a palliativi e placebo. Magari accorciando il tempo tra lavorazione e fruizione della notizia.

Nati insieme, il discorso pubblico in una società dei grandi numeri e dei grandi spazi, il suo medium diretto come “agorà virtuale” di denuncia (il venerando j’accuse di Émile Zola) e di tribuna dei lettori, crescono e deperiscono assieme. Del resto, ragionando contro-fattualmente, l’improvvisa crescita – tra il 1 gennaio e il 31 marzo 2020 – dei sottoscrittori di abbonamenti online al New York Times (la bellezza di 587mila, presumo molti di giovane età, quindi adusi a privilegiare il supporto digitale in quanto assuefatti al simultaneo, a scapito del sequenziale, dai processi formativi compiuti non sul libro bensì sugli schermi: PC, smartphone, tecnologie indossabili varie) è un fatto casuale o dipende da un’improvvisa riscoperta della politica?

Ossia la sensazione di catastrofe imminente, indotta – certo – dalla pandemia, ma anche dalla scoperta degli effetti autolesionistici, suicidi per lo stile di vita americano, prodotti dalle scelte strategiche di quella che – con molto understatement – Adam Tooze chiama «la destra ignorante e nazionalista del Partito Repubblicano e del suo campione alla Casa Bianca»[8].

La ripulsa etica/estetica del blocco elettorale che sostiene Donald Trump: l’America profonda dei suprematisti e degli emarginati incattiviti dalla de-industrializzazione. Quindi l’individuazione dell’avversario che diventa risveglio mobilitante, se è vero che le categorie elementari della politica sono hostis-amicus. Presa d’atto che necessita del rafforzamento orientativo offerto da una libera informazione.

Profilando i propri bersagli/destinatari. A mo’ di conclusione: attualmente è in atto una partita fra un trio di ipotesi alternative di fuoriuscita dalla crisi epocale, nella fine di una fase storica (il capitalismo mercificante, accompagnato dall’affermazione egemonica dell’Occidente nell’ultimo mezzo millennio). La chiusura reazionaria negli spazi perimetrati e blindati delle piccole patrie sovraniste, la conservazione tecnocratica delle élite gattopardesche finanziario-plutocratiche e dei loro guardaspalle, all’insegna del tutto cambi perché nulla cambi, la prospettiva progressista (per ora alla ricerca di una propria soggettività) di uscita dall’impasse, perseguendo quanto Roberto Mangabeira Unger, nel suo Manifesto per la sinistra del XXI secolo, definisce “democrazia ad alta energia”[9].

Sono fermamente convinto che il futuro della libera informazione, a mezzo stampa o qualsivoglia altra modalità distributiva, dipenda strettamente dall’esito di tale scontro.

NOTE

[1] P. Mason, Il futuro migliore, il Saggiatore, Milano 2019 pag. 51
[2] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, LUISS, Roma 2019 pag. 110
[3] I. Krastev e S. Holmes, La rivolta anti liberale, Mondadori, Milano 2020 pag. 165
[4] A. Pizzorno in L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale (a cura di S. Berger), il Mulino, Bologna 1983 pag. 413
[5] F. Furet, L’uomo romantico, Laterza, Bari 1995 pag. VI
[6] P. Costa, La notizia smarrita, Giappichelli, Torino 2010 pag. 127
[7] E. Morozov, L’ingenuità della rete, Codice, Torino 2011 pag. 244
[8] A. Tooze, “Onda d’urto”, MicroMega 5/2020

[9] R. M. Unger, Democrazia ad alta energia, Fazi, Roma 2007

 

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