Energie condivise: cooperative e rinnovabili. Intervista a Gianluca Ruggieri [di Giuseppe Palazzo]

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https://www.pandorarivista.it/. Il tema della transizione energetica e delle fonti rinnovabili è oggi al centro di molti dibattiti. Meno discusso è il ruolo degli attori che, nel concreto contribuiscono a diffondere le rinnovabili. Fra questi soggetti vi sono le aziende del settore, ma anche i cittadini, sia singolarmente con impianti privati (pannelli solari per lo più) sia costituendo organizzazioni che, con modalità differenti, installano e utilizzano impianti a energia rinnovabile.

Il contributo dei cittadini non va sottovalutato, parlando di fotovoltaico in Italia, al 2018 l’81% circa degli impianti installati è infatti attribuito all’ambito domestico[1].Anche il ruolo delle associazioni di cittadini è particolarmente rilevante e sta ricevendo attenzione da parte delle istituzioni. La forma legale più utilizzata in Europa è quella della cooperativa, in cui si dà conto sia della dimensione economica sia di quella sociale dell’iniziativa[2].

Questa intervista a Gianluca Ruggieri, docente di fisica tecnica ambientale all’Università dell’Insubria, affronta il tema della comunità e della cooperativa energetica. Ruggieri è tra i fondatori, nonché vicepresidente, di ènostra, tra le principali cooperative rinnovabili italiane, la cui storia è raccontata in un libro recentemente pubblicato da Altreconomia, Come si fa una comunità energetica.

Partiamo dalle basi. Che cos’è una cooperativa energetica? È un sinonimo per comunità energetica?

Gianluca Ruggieri: Il tema è più articolato di quanto sembri. Siamo in una fase di transizione in cui ancora le forme di partecipazione dei cittadini al mercato dell’elettricità non sono definite completamente. Facendo un excursus storico, una data importante per il mercato elettrico italiano è il 1999, quando termina il monopolio pubblico di Enel. Da allora, con il decreto Bersani, c’è stata la liberalizzazione del settore (resta il monopolio naturale di Terna per la gestione della rete di trasporto ad alta tensione e quello delle reti di distribuzione affidate per concessione a diverse decine di società). Questo nelle intenzioni doveva dare protagonismo ai cittadini in termini di scelta del fornitore in quanto consumatori finali.

Da quando è partita la fase di incentivazione delle rinnovabili, con una serie di provvedimenti successivi (la parte più importante è tra il 2008 e il 2015), il protagonismo dei cittadini si è sviluppato anche nella produzione di elettricità. Siamo infatti passati, in Italia, da qualche centinaio di impianti di produzione, per lo più grandi e centralizzati, ai 500.000 impianti di oggi, anche di piccole dimensioni. È chiaramente un cambio di configurazione. La partecipazione dei cittadini non ha smesso di svilupparsi, soprattutto fino al 2015. Si tratta di una serie di iniziative, tutte abbastanza spontanee, spesso con un ruolo importante dei Comuni (per lo più piccoli) in cui si è provato a realizzare delle azioni collettive.

Negli ultimi anni ci sono state novità dall’Unione Europea. Tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 sono state approvate due direttive, una si occupa di rinnovabili e una di mercato elettrico. Grazie in particolare al lavoro dell’allora eurodeputato Dario Tamburrano, entrambe introducono le comunità energetiche. Queste direttive costituiscono le gambe della visione della UE sull’energia. Vi sono definite e promosse tutte le articolazioni della partecipazione al mercato elettrico dei singoli cittadini, dall’autoconsumo singolo all’autoconsumo collettivo fino alla comunità energetica locale e addirittura nazionale.

Come le direttive saranno recepite in Italia resta da vedere. C’è stato un primo passaggio col decreto Millepropoghe approvato a febbraio, dove si è introdotta una prima forma di autoconsumo collettivo condominiale: si consente l’installazione di un impianto fotovoltaico fino a 200 kW di potenza a cui possono fare riferimento tutti gli utenti collegati alla stessa cabina di distribuzione (un quartiere urbano o un grosso condominio), facendo così parte dell’autoconsumo collettivo. Ma attenzione, non è necessariamente una comunità. Autoconsumo e comunità sono realtà diverse: l’autoconsumo non prevede la creazione di una persona fiscale mentre nella comunità vi deve essere una qualche forma di identità collettiva.

La comunità energetica non ha ancora una definizione precisa. Una distinzione comune è quella tra comunità di luogo e comunità di scopo. Nelle prime prevale l’aspetto locale: comunità che per lo più includono persone che abitano abbastanza vicine e focalizzate sul generare impatti positivi localmente. Le comunità di scopo possono invece essere anche nazionali e tendenzialmente sono tenute assieme da un progetto concreto che abbia impatti più vasti e in qualche modo “politici”. Nel complesso si è visto che prevale l’attenzione per gli impatti locali piuttosto che per gli aspetti ambientali e “politici”.

Per me una comunità energetica è un’organizzazione che prevede una partecipazione diretta dei cittadini al finanziamento delle iniziative nel settore e una loro capacità decisionale diretta. A mio giudizio possono quindi essere così definite organizzazioni di vario tipo. Entro la primavera 2021 dovrebbe essere completato il recepimento delle direttive nel nostro ordinamento e si avrà una definizione di comunità energetica in Italia. Dalle direttive si desume che sarà abbastanza probabile che la cooperativa sarà identificata come una tipologia di comunità energetica, ma magari non l’unica.

La cooperativa è una forma societaria di capitali che prevede un mutuo vantaggio tra i soci e dove le decisioni sono prese, almeno a livello di assemblea annuale, sul principio di “una testa un voto” indipendentemente dall’investimento. In Italia, in ambito energetico, distinguo quattro tipologie di cooperative.

  • Le cooperative energetiche storiche nate a fine Ottocento / inizio Novecento soprattutto in ambito alpino e legate a una fonte idroelettrica. La cooperativa serviva a prodursi l’elettricità e in quel caso può essere considerata una specie di “repubblica autonoma elettrica” con tanto di rete di distribuzione di proprietà. Poi con la nazionalizzazione nel secondo dopoguerra e la creazione di Enel molte di queste sono state nazionalizzate ma ancora ne esistono una trentina. In seguito sono sorte le altre tre tipologie.
  • Vi sono le cooperative nate solo per realizzare un impianto: cittadini finanziano un impianto godendo degli incentivi ma continuando a pagare la bolletta alla utility con cui hanno firmato il proprio contratto (es. A2A, Enel, Iren, ecc.). Ma in questo caso l’impianto non è collegato alle utenze di chi ha partecipato al progetto, ma magari serve una scuola, una palestra o un altro edificio pubblico che può beneficiare dell’autoconsumo.
  • Altre cooperative nascono per realizzare un impianto e poi riescono a realizzare una sorta di autoconsumo virtuale. L’energia prodotta è venduta a una società che opera nel mercato elettrico e che a sua volta può rivendere elettricità ai singoli partecipanti anche molto lontano dall’impianto. Questa società può essere selezionata annualmente sulla base di un bando che seleziona la miglior proposta economica. In pratica la cooperativa da una parte realizza l’impianto e dall’altra funziona come gruppo d’acquisto di elettricità.
  • Infine vi è la tipologia di cui fa parte ènostra, unica cooperativa energetica in Italia della nuova generazione che sia produce sia fornisce elettricità ai soci emettendo bolletta: produce parte dell’elettricità con impianti rinnovabili di sua proprietà e compra il resto da altri produttori rinnovabili per poi rifornire i suoi soci. Si tratta di uno schema che non necessita di un altro operatore di mercato per l’emissione della bolletta (l’utility).

Diversi studi si sono occupati dei rapporti interni ed esterni alle cooperative. In particolare da uno studio di Bauwens e Defourny emergono le seguenti dinamiche: più in una cooperativa vi è l’obiettivo del bene comune più la struttura della rete sarà chiusa e l’identificazione con l’organizzazione più forte; più è orientata al bene degli associati e più la struttura della rete sarà aperta (pertanto anche membri più distanti geograficamente) e l’identificazione con l’organizzazione più debole.[3]Come bilanciare la necessità della sostenibilità economica, soddisfatta allargando la rete degli associati, e l’identificazione degli associati con l’organizzazione?

Gianluca Ruggieri: Molti di questi studi si occupano di Paesi del Nord Europa, dove vi sono centinaia di realtà di questo tipo e dove quindi è possibile avere un campione significativo per desumere queste tendenze. In Italia il campione è più piccolo e non si possono trarre queste conclusioni a livello scientifico. Tuttavia mi ci ritrovo, con una piccola distinzione: non ne farei una questione di distanza geografica.

Nella mia esperienza quando c’è un’ideale comune molto forte si riesce a ottenere la partecipazione delle persone anche più facilmente e non per forza assicurando utili significativi rispetto al capitale investito. ènostra e altre iniziative locali si sono potute permettere investimenti anche senza aspettarsi un ritorno economico per i singoli partecipanti ma perché c’era l’idea di far parte di qualcosa che avesse un impatto positivo a livello locale o nazionale, un impatto di “bene comune”. Chi finanzia l’iniziativa su una scuola, ad esempio (pannelli sul tetto, ecc.), vede localmente gli impatti. Chi invece partecipa a ènostra sa che si tratta di un attore che si fa sentire nel dibattito pubblico anche con le istituzioni, sa che vi è l’aspetto politico a cui facevamo prima riferimento.

Ci sono poi iniziative diverse in cui la partecipazione è meno diretta, anche nei processi decisionali. Contesti in cui, da una parte, l’organizzazione è stata definita per lo più a priori da chi ha avviato l’iniziativa, con un minore coinvolgimento dei soci, e in cui dall’altra si vuole garantire ritorni economici più significativi. A livello di soci e investitori, da una parte c’è chi vuole partecipare per il valore politico indipendentemente dal ritorno economico, dall’altra c’è chi non si sente coinvolto dall’aspetto politico.

Uno studio spiega come nei Paesi Bassi vi sia interesse reciproco tra cooperative e istituzioni, soprattutto a livello locale, ma tuttavia persista una forma di diffidenza. Eppure il percorso partecipativo dal basso delle cooperative permette di sviluppare una cittadinanza virtuosa e disposta ad accettare interventi, riducendo il problema delle proteste nimby (not in my backyard). I vantaggi per le istituzioni da una collaborazione con queste realtà sono quindi evidenti, come anche quelli per le cooperative che possono estendere la propria rete entrando più facilmente in contatto con media, associazioni e imprese.[4] In “Civiltà solare”, pubblicato nel 2016 da Altreconomia, lei e Fabio Monforti avete riportato l’esempio dell’amministrazione Obama che incoraggiò queste realtà per fornire energia ai ceti meno abbienti.[5] Com’è la situazione al riguardo in Italia ed in Europa?

Gianluca Ruggieri: I rapporti con le istituzioni possono essere molto vari e hanno caratteristiche diverse a livello locale e nazionale/sovranazionale col tratto comune dell’importanza, nella nostra esperienza, delle partnership. A livello territoriale si vive un rapporto di collaborazione diretta con istituzioni locali e cittadini. Abbiamo spesso lavorato con Comuni e Province, il cui coinvolgimento è importante per la buona riuscita del progetto. Abbiamo costituito dei gruppi di acquisto, organizzato e partecipato a iniziative pubbliche di comunicazione e sensibilizzazione sul cambiamento climatico e sulla transizione energetica.

Nonostante il rapporto a livello nazionale e sovranazionale con le istituzioni non possa essere diretto allo stesso modo, anche a questi livelli le cooperative possono essere importanti. Principalmente due strade sono percorribili: la partecipazione ai bandi di gara per la realizzazione di progetti e l’advocacy.

ènostra è tra i vincitori dell’ultimo bando RSE (Ricerca sul Sistema Elettrico, ente pubblico) per un progetto pilota sull’autoconsumo collettivo condominiale e il nome della nostra piccola realtà figura in lista insieme a quelli di grandi aziende e di enti importanti come il Comune di Milano. In termini di advocacy, a livello di RSE siamo riconosciuti come interlocutori e come tali ci stiamo consolidando anche presso l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, proprio grazie anche al nostro essere una realtà pilota, soprattutto in questa fase di recepimento delle direttive europee.

Abbiamo anche partecipato a tavoli al Parlamento Europeo e al Senato e, di nuovo, come a livello locale, anche qui le partnership sono importanti. Ci muoviamo con altre cooperative e con REScoop (il network che unisce tutte le cooperative rinnovabili europee) nonché altre associazioni e gruppi di pressione, mantenendo la reciproca autonomia. ènostra ha instaurato da lungo tempo un dialogo con le cooperative italiane (Legacoop, Confcooperative, Coopfond, cooperative di abitanti…) e penso che, in quanto nei prossimi anni partiranno nuove cooperative energetiche o cooperative già esistenti entreranno nel mondo dell’energia, potremmo essere d’aiuto.

Uno studio del 2017 tratta delle sfide dinanzi alle cooperative in Germania a causa di cambiamenti nella regolamentazione. Emergono scelte difficili per cui una cooperativa per adattarsi è costretta a rivedere il proprio “business model” (per quanto si tratti di realtà no profit) rischiando di vivere conflitti di principio tra i soci. Le scelte riguardano la possibilità di usare certe fonti di energia o meno (con le connesse discussioni sull’impatto dell’eolico sul paesaggio o dei biocarburanti sulla fertilità dei terreni, ad esempio), di concedere in leasing i propri impianti, fornire consulenze, ecc. Più si opta per cambiamenti importanti nella strategia più si incontrano “barriere”: la natura volontaristica delle cooperative implica una certa avversione al rischio; la bassa professionalizzazione; la necessità di capitali e competenze specializzate; il quadro normativo, a volte non stabile.[6] Come gestire questo tipo di tensioni in una cooperativa, tenendo conto del carattere specialistico di alcuni temi e del livello di appartenenza al progetto tra gli associati?

Gianluca Ruggieri: Tema bellissimo, collegato ad un altro tema cruciale, quello della dimensione. Si tratta di temi riguardanti non solo le cooperative energetiche ma anche le cooperative di consumo. Passando ad esempio dal negozio di paese delle cooperative emiliane all’ipermercato nel centro commerciale è chiaro che per strada si perdono alcune delle premesse in termini di partecipazione. Fino a che punto un socio partecipa alla vita della cooperativa se l’organizzazione è così grande? Anche qui ci sono situazioni diverse e le interpretazioni che i soci danno del proprio ruolo sono diverse, tra chi cerca solo di risparmiare facendo la spesa e chi organizza anche iniziative.

Tornando alle cooperative energetiche, si tratta di una sfida non banale. È chiaro che un conto è definire delle decisioni comuni in una cooperativa con decine di soci vicini geograficamente, un altro conto è avere a che fare con una realtà di migliaia di soci diffusi in tutto il Paese. Noi abbiamo più di 6.000 soci in tutta Italia e ci muoviamo con questionari e incontri con i soci più attivi. Uno degli strumenti che possono essere usati è il sondaggio online. Una difficoltà in più è dovuta alla necessità di prendere certe decisioni a livello di CdA nel giro di pochi giorni mentre il coinvolgimento dei soci richiede settimane se non mesi.

Nella mia esperienza la chiave è dimostrare di avere attenzione e cura rispetto a quello che pensano i soci, se ci si riesce gli strumenti possono non essere così dirimenti. Il CdA deve avere chiari i punti di riferimento ideali della cooperativa e deve dimostrare che le scelte che fa sono in funzione di questi punti di riferimento. Dopodiché il socio può non essere d’accordo ma riconosce l’attenzione che hai dimostrato per i valori comuni. Bisogna attenersi a questi valori nei ragionamenti che si fanno e nelle decisioni che si prendono.

Questo vale per tutti gli esempi che portati nella domanda. Ad esempio, la necessità di far entrare competenze tecniche nella cooperativa e nel CdA, necessità che cresce insieme all’organizzazione, deve essere bilanciata dal mantenimento delle figure storiche a garanzia di una certa identità, storia e valori. L’attuale ènostra è nata fondendo due cooperative (la “vecchia” ènostra e Retenergie) e nel farlo abbiamo messo in atto un processo che prendesse le sollecitazioni dal basso per integrarle nel ragionamento a livello di CdA. Abbiamo condiviso il processo con i soci e abbiamo dimostrato la coerenza della decisione di fonderci con lo spirito della nostra organizzazione. Non eravamo tenuti a farlo e così facendo abbiamo allungato di un anno i tempi per la fusione, con passaggi anche di un certo attrito tra sensibilità diverse (aspetto politico contro aspetto economico), ma era il solo modo per consolidare la realtà unica che volevamo creare.

Tornando un attimo alle partnership con altre cooperative e associazioni, prima ho spiegato che sono importanti per realizzare i progetti e fare advocacy, ma a livello interno permettono di condividere competenze differenti tra cooperative (ad esempio, noi da sempre abbiamo Banca Etica come partner finanziario) rimanendo nell’ambito di realtà che condividono l’approccio di base. Così si evitano le frizioni interne che potrebbero emergere collaborando con enti diversi che hanno una sensibilità e un approccio diverso. Le partnership possono quindi aiutare a ridurre le barriere a cui fai riferimento.

La transizione energetica è legata a quella digitale. La produzione di elettricità rinnovabile è distribuita su tutto il territorio (ovunque vi siano impianti, di grandi dimensioni o residenziali) e ciò implica un aumento considerevole dei punti di immissione di energia in rete. Trattasi inoltre di energia discontinua, in base alla presenza o meno di sole e vento. La gestione di questi punti e di questa discontinuità, considerando la necessità di mantenere la rete in equilibrio, richiede strumenti di sensoristica ed elaborazione dati (qui un approfondimento). Come si inserisce questo contributo necessario del mondo digitale, e quindi presumibilmente di grandi società tecnologiche, in un percorso di transizione dal basso? Il “valore democratico” delle rinnovabili non rischia di venire meno?[7]

Gianluca Ruggieri: C’è un dibattito da sempre, con due modelli opposti: il modello Desertec (dal nome di un vecchio progetto pensato per coprire il Nord Africa e il Sahara di pannelli solari e collegarli con cavi sottomarini ai poli di consumo europei), estremamente concentrato, e quello distribuito delle comunità energetiche e dell’autoconsumo. Ma al di là degli estremi credo ci sia bisogno di tutto, della transizione sia dal basso sia dall’alto, l’una non funziona senza l’altra. Devono giocare un ruolo tutti gli attori politico-istituzionali, gli attori del mercato, non solo energetico, e i singoli cittadini (che sono protagonisti come elettori, consumatori e potenzialmente produttori).

Il mondo di cui faccio parte tende spesso a rifiutare i grandi operatori ma se non si muovono questi non si ottengono risultati a livello generale. Una discussione molto sentita nel mondo dell’economia solidale negli ultimi anni: il commercio equo-solidale funziona solo se trovi il prodotto nella bottega della cooperativa o funziona anche se lo trovi nel supermercato di un grande operatore della GDO (grande distribuzione organizzata)? Io penso che anche se lo trovi al supermercato funziona lo stesso. Chiaro che il supermercato è un concorrente per la cooperativa ma allo stesso tempo la cooperativa ha imposto un modello seguito anche dalla GDO. Se in qualche modo si dimostra che si può fare in un altro modo e si fornisce un modello alternativo, credo che ciò possa avere un impatto complessivo.

Dal punto di vista delle cooperative energetiche non c’è bisogno di arrivare a scenari come quello di CE Delft, un istituto di ricerca secondo il quale in futuro potremmo avere metà dei cittadini europei che si producono direttamente energia in maniera autonoma o collettiva. Se fosse il 2% potrebbe già essere un risultato significativo in quanto indicazione al resto del sistema su come lavorare. Il punto è creare un’alternativa che stia in piedi e che, anche se minoritaria, influenzi tutto il resto. La partecipazione delle grandi aziende ai progetti di comunità energetiche è dovuta al fatto che qualcuno ha dimostrato in questi anni che si poteva fare.

Siamo riusciti a far mettere certi principi e strumenti nelle direttive europee. Ora che si parte con le sperimentazioni ci sono anche i grossi operatori. Potrei dirti che non li voglio perché non sono comunità ma allo stesso tempo so che non tutti i cittadini hanno interesse e voglia di partecipare a una cosa come ènostra, che richiede un impegno maggiore. Il fatto che anche altre aziende reinterpretino il modello è interessante. Bisognerà stare attenti a garantire la sostenibilità di tutta l’iniziativa. La sfida che abbiamo è troppo grossa per fare affidamento solo sulle comunità energetiche. L’obiettivo è fare la transizione.

Enrico Giovannini, fondatore e portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), ha scritto su Pandora Rivista che il movimento cooperativo ha dinanzi sfide inerenti alla misurazione dell’ «effettivo impatto che le singole cooperative generano in termini economici, sociali e ambientali», al «modo con cui i diritti di tutti sono rispettati», al «rapporto tra i soci e il mondo esterno degli stakeholder» e alla «qualità della catena di fornitura». Quanto sono importanti queste sfide anche per le cooperative energetiche?

Gianluca Ruggieri: Concordo con Giovannini. Negli ultimi anni ci sono stati periodi in cui dire cooperativa era dire una cosa brutta (le cooperative di facchinaggio, pulizie…). Lavori che un tempo erano a tempo indeterminato e con una serie di garanzie erano dati dalle cooperative con minori diritti. A volte infatti mi capita di parlare con persone che, proprio per questa cattiva fama delle cooperative, non vogliono avere nulla a che fare con ènostra.

Per noi la sfida, come per molte realtà del terzo settore nel complesso, è che nasciamo con uno spirito e un approccio estremamente basato sul volontarismo. Non è sostenibile nel lungo periodo e non è giusto, i lavoratori di ènostra non devono metterci un di più. Bisognerebbe dare loro anche più attenzioni di quelle che avrebbero in una azienda normale. La sfida è, soprattutto per alcuni di noi, partiti dal volontariato e diventati dipendenti, uscire progressivamente dall’abitudine di impegnarsi a titolo gratuito ma riconoscersi i diritti legati al lavoro svolto.

[1] Rinnovabili.it, “Fotovoltaico italiano, la potenza solare è a quota 20,1 GW”, 17 giugno 2019.

[2] Candelise Chiara, Ruggieri Gianluca, “Status and evolution of the Community Energy sector in Italy”, Energies 2020, 13, 1888, 13 aprile 2020.

[3] Bauwens Thomas, Defourny Jacques, “Social capital ad mutual versus public benefit: the case of renewable energy cooperatives”, Annals of Public and Cooperative Economics 88:2 2017, pp. 203-32.

[4] Wagemans Donné, Scholl Christian, Vasseur Véronique, “Facilitating the Energy Transition – The Governance Role of Locale Renewable Energy Cooperatives”, Energies 2019, 12, 4171.

[5] Ruggieri Gianluca, Monforti Fabio, “Civiltà solare. L’estinzione fossile e la scossa delle rinnovabili”, Altra Economia Soc. Coop., settembre 2016.

[6] Herbes Carsten, Brummer Vasco, Rognli Judith, Blazejewski, Gericke Naomi, “Responding to policy change: New business models for renewable energy cooperatives – Barrier perceived by cooperatives’ members”, Energy Policy 109 (2017) 82-95

[7] Qui un approfondimento di Pandora Rivista: “Democrazie rinnovabili?

 

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