Driade o dell’armonia del made in Italy[di Sergio Buttiglieri]
https://www.ilgiornaledellarte.com 8 settembre 2020. Sergio Buttiglieri racconta Enrico Astori, il fondatore dell’azienda, scomparso recentemente. Driade è stata forse la più visionaria azienda di arredamento che l’Italia abbia mai avuto, un vero laboratorio estetico dedicato alla ricerca della bellezza nell’abitare. Enrico Astori, che ci ha lasciati il 17 maggio scorso, l’aveva fondata nel 1968, assieme alla sorella Antonia e alla moglie Adelaide Acerbi, una triade tanto unita quanto specifico era il ruolo di ciascun componente. Fin dal nome, che si rifà alle Driadi, le ninfe dei boschi della mitologia greca, che distingueva quelle che vivevano tra gli alberi da quelle che preferivano vivere all’interno degli alberi, nel fusto legnoso, si intuisce la dualità tra autonomia ed eteronomia della filosofia aziendale, in cui hanno felicemente convissuto i mobili singoli e i sistemi di arredamento. Avvalendosi di una sorta di metalinguaggio declinato da Adelaide Acerbi, attraverso operazioni grafiche editoriali e didattiche di allestimento, gli oggetti nei cataloghi Driade hanno sempre introdotto una dialettica culturale che arricchiva di contenuti simbolici l’oggetto prodotto. Una strategia che ha contribuito al riconoscimento della qualità dell’immagine aziendale, ricordata da Renato De Fusco nello storico saggio contenuto nel volume Il gioco del Design, pubblicato da Electa in occasione dei vent’anni dalla fondazione della ditta. Driade nasce non a caso nell’anno caratterizzato dalla contestazione globale, e tutti i settori dell’espressione artistica vengono messi in discussione, dal teatro alle arti visive, dal cinema alle istituzioni culturali. Il fermento degli oggetti eversivi del radical design di quegli anni esercitò una funzione di stimolo e d’ispirazione, trovando il modo di introdursi nelle logiche produttive delle industrie del design, coinvolgendo la stessa Driade. Astori, che amava sperimentare linguaggi e nuovi usi dei prodotti, mise Driade in connessione con i dialoghi postrazionali di Ettore Sottsass, l’ironia spiazzante di Alessandro Mendini, l’architettura radicale di Adolfo Natalini, fondatore di Superstudio assieme a Cristiano Toraldo di Francia. E con Enzo Mari, autore decisivo nella messa in discussione dell’idea stessa di design e della sua funzione, figura principe del design italiano degli anni ’70 che la Triennale di Milano celebrerà a partire del 17 ottobre con una grande monografica curata da Hans Ulrlich Obrist con l’allestimento di Paolo Ulian, formatosi proprio da Mari. Astori seppe tessere rapporti con i più grandi autori internazionali del design e dell’architettura, introducendoli nel suo universo estetico, che ho avuto la fortuna di frequentare, avendo lavorato con lui per oltre vent’anni dal 1986 al 2006, come direttore tecnico per l’ingegnerizzazione dei progetti. Mentore. Quando a 24 anni arrivai in Driade, con la mia immancabile mazzetta di quotidiani sottobraccio, ebbi un magnifico colloquio con Astori, da cui nacque un’intesa immediata. In quel periodo studiavo Storia dell’arte a Parma con Arturo Carlo Quintavalle, studioso di arte romanica, ma anche del manierismo, dell’arte contemporanea, della fotografia e del design, fondatore del Csac (Centro studi e archivio della comunicazione). Per mantenermi, lavoravo nello studio dell’architetto Guido Canali, celebre per i suoi interventi museali a Parma e non solo, che Quintavalle apprezzava e conosceva bene (entrambi erano del ’36 e si erano laureati assieme al Politecnico di Milano). Dopo il colloquio, visitai lo showroom adiacente agli uffici e vidi, nella sala pose, nientemeno che Gabriele Basilico, il fotografo di paesaggi urbani più conosciuto al mondo. Stava realizzando il primo catalogo Ubik dedicato agli oggetti del giovanissimo Philippe Starck, i pezzi che lo avrebbero consacrato a fama mondiale: la sedia «Costes», il tavolo «Tippy Jackson», la poltrona «Pratfall», il tavolo «Titos Apostos», lo sgabello «Sarapis», il tavolino «Mickville» e la sedia «Von Vogelsang». In Driade ho interagito, oltre che con Philippe Starck ed Enzo Mari (con cui abbiamo vinto due Compassi d’Oro, nel 1979 con la sedia «Delfina» e nel 2001 con il tavolo «Legato»), con lo straordinario Ron Arad (Compasso d’Oro nel 2008 con la sua poltrona a dondolo «MT 3»), con Borek Sipek per i suoi magnifici vetri soffiati in Boemia, con Nanda Vigo (scomparsa il giorno prima di Astori), designer-artista che ebbe importanti connessioni con Lucio Fontana e Piero Manzoni, che Driade coinvolse nel suo catalogo con diversi memorabili pezzi tra cui il «Cronotopo». Ma anche con Giotto Stoppino, Rodolfo Bonetto, Mario Bellini, Umberto Riva, Paolo Deganello, Massimo Morozzi, Oscar Tusquets, Ross Lovegrove, Jonathan De Pas, Donato D’Urbino, Paolo Lomazzi, Kostantin Grcic, Elliott Littmann, Pietro Derossi, Paola Navone, Lluis Clotet, Jorge Pensi, Eduard Samso, Giuseppe Chigiotti, Patricia Urquiola, Rodolfo Dordoni, Steven Holl, John Pawson. Con alcuni realizzammo solo prototipi, senza andare in produzione, come con l’irrefrenabile Zaha Hadid, il poliedrico Jean Nouvel, Dominique Perrault e il geniale Piero Lissoni, atttuale art director di Sanlorenzo. Con David Chipperfield realizzammo una serie di arredi, con Toyo Ito le avveniristiche sedute da giardino «Suki» e «Uki» in duplice rete di acciaio inox, e con Kazuyo Sejima (autrice del recente ampliamento della Bicocca a Milano) l’indimenticabile fioriera ad alberello «Hanahana», il tavolino archetipo «Picapica» e il pouf a ciambella «Marumaru». Con Tokujin Yoshioka, scoperto da Astori che rimase colpito da una sua magica installazione parigina per lo stilista Issey Miyake, realizzammo la fortunata serie di sedute outdoor «Tokyo-Pop». Con il razionale quanto sorprendente Naoto Fukasawa il suo organico pouf «Koishi», derivato dalla dilatazione di un ciottolo di fiume, che lui portò come esempio di forma perfetta. Ora ambedue affermate stelle internazionali del design giapponese. Con giovani geniali come Xavier Lust, Paolo Ulian, Giulio Iacchetti, Fabio Bortolani, Marco Zanuso jr., Gavino Falchi, Marco Romanelli, Marta Laudani, Vittorio Locatelli, Massimo Bartolini, Sebastian Bergne, Christophe Pillet, Patrick Jouin, Miki Astori, Platt & Young, Alfredo Haberli, Fabio Novembre (attuale art director). Con Astori ho avuto anche l’opportunità di conoscere i grandi fotografi che lui coinvolgeva assieme a sua moglie Adelaide per creare curatissimi cataloghi. Dall’americano Tom Vack (che nel 2008 chiamai a fotografare lo yacht Sanlorenzo SL 100 con l’interior di Rodolfo Dordoni, premiato dall’Adi al Quirinale per il design e l’innovazione) ad Aldo e Marirosa Ballo, da Ugo Mulas ad Emilio Tremolada, da Leo Torri a Santi Caleca. Visto da vicino. Enrico Astori era un vero esteta, un uomo di profonda cultura e grande stile. Nel suo ufficio aveva il tavolo «Capitello» di Enzo Mari e la poltrona «Prosim Sedni» di Borek Sipek. Appoggiato a una parete un magnifico quadro astratto di Gianfranco Pardi (che ho coinvolto in seguito in opere site specific per gli yacht Sanlorenzo). Ingo Maurer aveva illuminato, posizionando personalmente le sue creazioni, tutti gli uffici Driade, ideati con grande gusto dalla sorella Antonia Astori, fondamentale progettista dei sistemi Oikos e Kaos. Il salotto milanese di Astori era tra i più frequentati dagli intellettuali del settore. Ogni sera organizzava cene nella sua abitazione milanese di via dei Chiostri in zona Brera, con il «Pratone» di Gufram (disegnato da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso) all’ingresso dell’attico, e le camere arredate con i sofisticati pezzi della collezione «San Souci» disegnati da Antonia Astori. Ricordo serate indimenticabili con i direttori di autorevoli riviste di design e architettura, con critici e storici del design, fra cui François Burkhardt, ex direttore della sezione architettura, design, moda e comunicazione del Centre Pompidou di Parigi, accompagnato da sua moglie Linde, poliedrica artista e designer con cui realizzammo i prodotti per il catalogo Follies, nato quasi per gioco, denominati a partire dalla Recherche di Proust, testo che entrambi amavamo profondamente. Astori organizzò le feste più iconiche di Milano durante il Salone del Mobile, prima nello showroom di via Fatebenefratelli (memorabile l’inaspettato coup de théâtre con l’incendio delle vetrine pensato da Borek Sipek), poi nell’antico palazzo Gallarati Scotti di Via Manzoni, dove si tenne nei cortili l’incredibile «Pranzo di Babette» ideato da Flavio Albanese, con i deliziosi dolci siciliani arrivati il giorno stesso da una rinomata pasticceria palermitana. Accanto a Enrico ho viaggiato ovunque, con soste strepitose come al Vitra Design Museum a Weil am Rhein appena inaugurato. Per lui la scelta degli alberghi e dei ristoranti di charme era fondamentale, mentre andavamo alla fiera di Colonia o a trovare Adolfo Natalini a Firenze, o a Venezia per sondare con Borek Sipek le migliori vetrerie di Murano con maestri come Lino Tagliapietra. In laguna erano d’obbligo la sosta all’Harry’s Bar e il pernottamento al Londra Palace sulla riva degli Schiavoni. Il made in Italy è armonia. Driade è stata una sorta d’immaginifica casa editrice che racchiudeva un concentrato di linguaggi eclettici che ho avuto la fortuna di poter ingegnerizzare, trovando le realtà produttive più idonee e le specifiche tecnologie. Ho avuto lunghi e piacevolissimi incontri e fatto innumerevoli viaggi in Italia per individuare le fonti produttive più adatte per prototipare i progetti, sempre stimolanti e al di là del pensiero convenzionale. Che cos’è che ci invidiano all’estero e che affascina così tanto i designer d’oltralpe? Innanzitutto, la versatilità delle nostre imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, che sanno risolvere problemi che ad altri sembrano irriducibili. Philippe Starck, in una famosa intervista di Lauretta Colonnelli, aveva raccontato perché preferiva lavorare con gli imprenditori italiani: «Sono un designer di mobili italiano perché soltanto in Italia esistono persone degne di questo nome. Quando parli a dei fabbricanti di mobili francesi – generalmente lo evito – hai davanti persone che ti dicono: «Allora signor Starck, pare che i suoi disegni rendano quattrini. Non può disegnarmi qualche mobile?». A quel punto dico loro: «Li metterete a casa vostra?». «Ah no, la mia vita è la mia vita e la mia industria è la mia industria». Allora li saluto e arrivederci». «In Italia, quando si presenta un progetto a Claudio Luti di Kartell, a Enrico Astori di Driade, a Piero Gandini di Flos, a Umberto Cassina di Cassina, è un vero piacere. Amano il progetto con passione. Con loro non c’è bisogno di spiegare, di parlare. L’industriale italiano ha questo tipo di cultura. Un oggetto deve avere una data forma e deve essere fatto in un dato momento, alcune cose non sono da fare. È questo l’aspetto straordinario, l’armonia». La capacità artigianale diffusa a macchia di leopardo in Italia ha permesso di realizzare il bel design dei grandi maestri come Castiglioni, Mari, Magistretti, Albini, Scarpa, Munari, Sambonet, Zanuso, Sottsass, Mendini grazie a imprenditori atipici come Brion, Cassina, Zanotta, Gandini, Alessi, Gavina, Olivetti, Astori e ora anche Massimo Perotti, ceo e chairman di Sanlorenzo, primo cantiere navale al mondo per imbarcazioni oltre i 30 metri, recentemente entrato in borsa, insignito del premio come miglior imprenditore del 2019 e in procinto di acquisire anche Perini, il prestigioso brand italiano che produce i più rinomati velieri al mondo. Grazie alla rara apertura mentale di Perotti, dal 2006, in qualità di style director, sono riuscito a connettere mondi diversi, coinvolgendo grandi designer mai chiamati prima nella nautica, come Rodolfo Dordoni, Antonio Citterio, Patricia Viel e Piero Lissoni, nominato nel 2018 art director di Sanlorenzo e, per ultimo, ma non per ultima, Patricia Urquiola. Non a caso, nel 2020, ben quattro prodotti Sanlorenzo sono candidati al Compasso d’Oro. La grandezza dell’imprenditoria italiana rispetto ad altri Paesi risiede nella capacità di pensare all’inconsueto e renderlo possibile. È un fattore che affascina i designer internazionali, che bussano alla porta delle aziende italiane, consci del fatto che solo qui trovano un indotto e una creatività imprenditoriale che ha reso concreto il «Made in Italy». Driade raggiunse i 30 milioni di euro di fatturato prima della crisi mondiale di Lehman Brothers, che mise in difficoltà tanti marchi di design e costrinse Astori a vendere l’azienda nel 2013 al gruppo Italian creation group. Ma, come succede spesso quando subentrano gruppi finanziari, si comprende come il successo di un’impresa è dettato dalle persone che la gestiscono. E quando viene a mancare la persona giusta, si perde personalità.
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