Un incredibile fuoco di paglia [di Maria Antonietta Mongiu]
L’Unione Sarda 2 ottobre. Con la scomparsa di Sergio Zavoli si sono rivisti programmi di un tempo quasi remoto. Su tutti un’inchiesta interpellava sull’autosottrazione persino dalla “bella d’erbe famiglia e d’animali”. Forse perché anche “I promessi sposi” ha divulgato che la clausura non sia stata sempre una libera scelta, l’inchiesta di Zavoli sottolineava una traiettoria che, nella contemporaneità, la configura nel segno di un’irriducibile autodeterminazione. Un’urgenza che al quesito se la clausura sia di qualche utilità, opponeva, tra mille distinguo, una risposta perentoria: salva il mondo. Pertanto, mesi di sacrifici di una popolazione, quella sarda, marginalmente funestata dal coronavirus, sono, non diversamente, una scelta consapevole di clausura, referente di un ethos di comunità, sconosciuto solo a chi è sconnesso dalla realtà. L’ azione di protezione dal “poco” della gente sarda, non è altro dalla percezione della vita monastica che ha un credente: utile più al mondo che a chi la agisce. Un gesto di generosità. Un’apertura di credito per i sardi, tutt’altro che valorizzata, che riferisce di un’idea consapevole di insularità non solo perché siamo riusciti a stroncare sul nascere la diffusione del virus ma pure per aver accettato un’indifferenziata chiusura, al pari delle regioni più colpite. La vita sarebbe potuta scorrere, nei confini del “sano”, come prima, e invece “zona rossa” senza averne i numeri e senza differenze tra Gadoni e Bergamo. I sacrifici dei sardi hanno abbattuto, statisticamente, la media italiana del contagio, frutto questo sì dell’interdipendenza tra gruppi di potere e decisori, come racconta la geografia della pandemia, polarizzata oltre la linea gotica. Un’azione positiva dei sardi quindi più utile al mondo che a sé stessi, se oggi è vanificata dall’ alleanza tra pochi conterranei che non amano la loro comunità e quelli del godi e fuggi che destorificati cercano di collocare fuori dalla storia luoghi dalla cultura millenaria, di ridurre gli abitanti a figuranti, e il paesaggio a quinta scenica. Schiavi i primi di cattivi maestri non solo d’oltremare, padroncini di un modello culturale, prima ancora che economico, che disconoscendo con i luoghi il valore di mesi di sacrifici, confermano la visione etnocentrica dell’isola, tuttora dura a morire. Non si tratta di essere moralisti o di rigettare il turismo ma piuttosto di ragionare sulla diffusa subalternità di classi dirigenti, provinciali nei confronti dei venditori di perline. Come definire altrimenti lo spreco di denari pubblici in sagre, festival, dibattiti con vacanze pagate a quanti fanno parte della variegata cosiddetta industria culturale purché di chiara fama mediatica? Acclamati per l’aspirazione a spiegarci come essere sardi che più non si può o come fare il pecorino o essere davvero paesani e via impartendo, a gettone, ogni possibile pedagogia della gregarietà. Amministratori grati come novelli podatari, non esitano a gonfiare il petto, a brandire porcetti, quattro mori e rami di mirto quando “il continentale” ci risistema nella nicchia etnocentrica d’elezione, quella ovicaprina o dell’ospitalità o del limpido mare. Sarebbe facile se il problema fosse Briatore col suo elementare modello. In realtà quanto accade, interpella, ben prima della grande stampa e della politica nazionale, una vasta declinazione nostrana: dai corifei dei carnevali estivi al velluto d’agosto, ai mille premi, ai festival di ogni tema possibile in un’isola, ultima nei test Invalsi e Ocse PISA. Un incredibile fuoco di paglia che scherma mancanza di visione, indecisione verso un modello di sviluppo che non sia consumo del territorio; disprezzo del bene comune, delle regole, della diversità. In questi giorni di troppi positivi e di tempeste virali lasciate esplodere nelle zone franche che ricordano la Cuba di Fulgencio Batista, è possibile cogliere aperture di orizzonte che allargano il cuore: gruppi dirigenti che non si spaventano di fronte allo sceicco di turno e fanno della comunità educante il fulcro delle politiche; critiche costruttive a modelli di sviluppo non più accettabili; concretezza nella dialettica costa/interno; numeri reali sull’impatto nel tessuto economico dei vari luna park. Un’anabasi per superare la crisi di presenza della Sardegna e dei sardi che prospetta futuro. |