L’informazione può ancora essere salvata? [di Pierfranco Pellizzetti]

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http://temi.repubblica.it/micromega 16 novembre 2020.  «Vi pare che gli Olandesi, siano maledetti da Dio per aver dato via libera alla stampa e per esercitare il commercio dei pensieri degli uomini? L’impero romano è stato meno potente perché Cicerone scrisse in libertà?»[1] Voltaire

«Sarebbe ingenuo identificare Internet con l’Illuminismo. Le sue capacità di diffondere la conoscenza supera le più ardite speranze di Jefferson […] ma gli interessi commerciali non sono rimasti in panchina a guardare»[2] Robert Darnton

Piero Ottone (in dialogo con Paolo Murialdi), Intervista sul giornalismo italiano, Laterza, Roma/Bari 1978 –  Enzo Marzo, I diritti dei lettori – Una proposta liberale per l’informazione in catene, Biblion, Milano 2020

Una cena genovese. Se la memoria non mi inganna, era un plumbeo pomeriggio dell’autunno 2006 quando presentai nella prestigiosa e storica sede genovese di Palazzo Ducale il libro di Enzo Marzo che fa da “prologo in cielo” a quello attuale (Le voci del padrone, con sottotitolo “saggio di liberalismo applicato alla servitù dei media”[3]).

L’altro discussant era Pier Leone Mignanego, alias Piero Ottone. Il direttore che aveva assunto Marzo al Corriere della Sera, avviandone la lunga, prestigiosa e infine sofferta carriera giornalistica; di cui questi suoi testi recano evidenti tracce biografiche. Tra gli altri, era presente in sala Carlo Perrone della ben nota famiglia, che a fine presentazione ci invitò tutti a cena. Così ci ritrovammo seduti attorno al tavolo di un ristorante alla moda – ospiti dell’editore del quotidiano locale – Enzo, Ottone, l’allora responsabile del Secolo XIX Lanfranco Vaccari e il sottoscritto.

Ovviamente a menare la danza della conversazione era l’antico “monarca costituzionale” (come amava definirsi) che fece cambiare pelle al Corrierone della borghesia milanese “legge e ordine”; sconcertata dal trovare ospitato nella prima pagina della sua tradizionale lettura quotidiana niente meno che Pierpaolo Pasolini.

Il nostro mentore era un interlocutore vagamente sulfureo e amabilmente sarcastico, che nascondeva dietro un apparente pragmatismo semplificatorio il suo sostanziale cinismo. In un gioco che non gradiva vedere smascherato. Sicché non apprezzò particolarmente la mia osservazione riguardo alle triplicazioni di vice con cui gestiva i Balcani della redazione in quel di via Solferino (Franco Di Bella, Gaspare Barbiellini Amidei, Michele Tito), come abile mossa politica per dominare un contesto destrutturato ad arte, al fine di renderlo altrimenti ingovernabile.

Un ambiente di io-maniaci gatti nevrotici, come ricordava lo stesso Ottone in dialogo con Paolo Murialdi: «chiunque diriga il Corriere ha il problema di un certo numero di giornalisti che hanno una firma autorevole e grande prestigio personale. Missiroli, quando una volta il sovrintendente alla Scala, Ghiringhelli, si lamentò di avere a che fare con due primedonne molto difficili, Maria Callas e Renata Tebaldi, gli rispose: ‘beato lei che ne ha solo due; io di primedonne ne ho una decina’. E aveva citato i nomi dei dieci o dodici inviati più famosi» (P.O. pag. 74).

Sicché, per non infastidire troppo la primadonna in quella cena di tre lustri fa, mi astenni dall’esprimere il mio giudizio sul suo profilo professionale di grande direttore-Richelieu (qualcuno lo considera “il più grande” del dopoguerra), a fronte di una caratura modesta quale giornalista dalla scrittura sciapa e francamente sciatta.

Un personaggio che aveva attraversato da protagonista buona parte dei sussulti e delle mutazioni nel mondo dell’informazione degli ultimi decenni, iniziati – a suo dire – con la profanazione del tempio di via Solferino a seguito dell’intromissione di “deplorevoli” logiche pubblicitarie a partire dai primi anni Sessanta, con le conseguenti vendite di spazi redazionali agli inserzionisti (P.O. pag. 43). Una sorta di perdita dell’innocenza, che imponevano riflessioni sulla figura stessa di operatore dell’informazione.

Il mito dell’oggettività. «Io penso che il giornalista sia un mediatore fra la realtà, che è opaca, e il pubblico» proponeva a tale proposito Murialdi, nella sua veste di intervistatore; ricalcando la vecchia definizione di “spectateur éngagé” cara a Raymond Aron.

Ma Ottone puntava molto più in alto, nel suo desiderio di recuperare l’innocenza perduta (o la sua maschera?), lanciandosi nel cielo tempestoso dell’obiettività; intesa come principio da disgiungere dalle interpretazioni e valutazioni che rendono la notizia sostanzialmente un artefatto: «non bisticciamo sulle parole, la sostanza del ragionamento è questa: io credo in un giornalismo che ha lo scopo di informare e non di spingere i lettori verso un partito o verso un’azione politica. […] la stampa ha sempre un primo stadio, storicamente, in cui fa politica, e un secondo stadio, in cui fa informazione» (P.O. pag. 6).

Parlandone a consuntivo, una montagna concettuale che ha prodotto il topolino della tecnicalità di separare i fatti dalle opinioni; di produrre un giornalismo dalle mille voci tendenti al babelico, che taluno definì “alla Hyde Park”. Ma già, Ottone era un anglofilo anche in materia di giornalismo, non solo per cravatte e yachting.

Comunque il tentativo di rifarsi una facciata di verginità che peccava inesorabilmente di semplicismo: nel riportare i fatti, l’obiettività informativa va a ramengo già per l’inevitabile adozione di parole che – secondo loro natura – sono cariche di soggettività valutativa; vengono scelte dal mediatore in base a criteri personali.

Un’ovvietà lapalissiana. Del resto, come ebbe opportunamente a precisare un giornalista della stazza di Norman Mailer, «pretendere di dire tutta la verità con un Giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un’ocarina. Lo strumento non è molto adatto»[4].

Semmai, giornali e giornalisti sono un barometro molto sensibile di quello che sta avvenendo nello spirito del tempo, proprio per la loro vicinanza al primario punto critico e grande motore di mutamento che ha il volto proteiforme del Potere.

Da qui l’eterno rapporto di attrazione (e solo talvolta di repulsione) che intercorre tra stampa e forme del comando nelle sue innumerevoli configurazioni. Che Piero Ottone aveva ben chiaro, guardandosi bene dall’esplicitarlo; che Marzo affrontava già nel suo saggio del 2006; non so se più da professionista dell’informazione o da propugnatore di un liberalismo liberato dalle incrostazioni liberistiche e conservatrici, dunque da intendersi come “critica dei rapporti di dominio”.

Il pensiero liberale dei figli infedeli di Thomas Hobbes, che non si limitavano più a considerare il Leviatano lo strumento di controllo della ferinità umana ma ponevano il problema del mettere sotto controllo il Leviatano stesso (la sua “ispezionabilità”). Riflessione all’origine della veneranda teoria di Montesquieu sulla tripartizione istituzionale del Potere.

D’altro canto, se l’assetto liberal-democratico propugnato dalle rivoluzioni borghesi – inglese, americana e francese – del “lungo Settecento” (1689-1789) distingueva il potere legittimo in legislativo, esecutivo e giudiziario per tutelare la reciproca indipendenza e la rispettiva controllabilità, l’evoluzione post-moderna presenta la situazione altamente collusiva tra i tre poteri attualmente dominanti dell’Economico, del Mediatico e (per dirla alla Michel Foucault) del Governamentale [5].

La collusione alla base del declino dell’ordine democratico in post-democrazia, già sullo scivolo velenoso della Democratura. Ossia l’azzeramento della prospettiva liberal-democratica che accompagnò l’affermarsi del giornale come strumento della società civile in lotta contro l’Ancien Régime. Ferme restando tutte le ambiguità del Nouveau Régime a Occidente, i cui diversi Padri Fondatori condividevano il volto solare dei Thomas Jefferson nascondendone il cuore di tenebra possessivo; oltre che – nel caso del modello originale – schiavistico (stante la moltitudine dei seicento servi di colore al lavoro nelle piantagioni di chi scrisse nella Dichiarazione d’Indipendenza che “tutti gli uomini sono creati uguali”).

Maurice Duverger commentò che l’Occidente sarebbe un “Giano bifronte”.

I diritti dei lettori. Ma torniamo alla nostra questione. Con particolare attenzione al medium che si conserva meglio (e che maggiormente sta a cuore a Enzo Marzo): la carta stampata.

Anche se la materia è largamente influenzata dagli aspetti tecnologici, come ci ricorda il massmediologo dell’Università di Pavia Paolo Costa, in un suo recente pamphlet: «in che modo evolve la lettura nel contesto post-mediale, ossia nell’epoca della pervasività delle tecnologie digitali, le quali configurano un ecosistema per la fruizione dei testi scritti alternativo al tradizionale»[6].

Osservazione da tenere presente alla luce delle trasformazioni che determinano l’intero contesto. Quanto segnalato da Robert Darnton; in apparente dialogo critico con il nostro saggio, che propone di rendere «il lettore protagonista del processo informativo» (E.M. pag. 64). La cui passività da redimere non sarebbe più tale nello scenario disegnato dal celebre storico dei Lumi: «i giornali vanno scomparendo. Poiché economicamente si reggono sulla pubblicità e la pubblicità è migrata su Internet. Le notizie si leggono online, sovente sotto forma di brevi messaggi scambiati tra persone che si improvvisano reporter. Una volta erano scritte per i lettori. Oggi sono scritte dai lettori»[7].

Ma restiamo allo schema del saggio di cui qui si discute. Che oscilla tra due concezioni ben diverse di informazione: una merce da consumare o un bene di cui disporre? (E.M. pag. 44). Dilemma che per la seconda ipotesi registra una certa timidezza definitoria nel saggista, rivelata dall’aggettivazione “specifico”; quando ben più pregnante sarebbe la dizione “bene comune”.

Che sospettiamo accantonata per il rimando alla storica distruzione della proprietà benecomunista operata a vantaggio della gentry britannica con le politiche di recinzioni (enclosures, a partire dal XIII secolo), trasformando le comunità contadine in folle di mendicanti. Quando – come disse Tommaso Moro – “le pecore divorarono gli uomini”. E – ci si chiede per inciso – le “pecore contemporanee” pascolano nei giardini di Google e Facebook?

Di fatto tutta l’argomentazione successiva ruota sulla simmetria lettore-consumatore: «non si riesce a capire per quale motivo il consumatore-lettore, che versa comunque i suoi euro al venditore, non debba avere alcun diritto» (E.M. pag. 69).

La proposta di una legislazione mirata a promuovere un ruolo da protagonista di tale lettore nel processo di produzione della notizia, al servizio dell’obiettivo di favorire la fuoriuscita da una concezione padronale del medium. Marzo ne parla come di “un’utopia possibile”. Sicché, qualora la natura utopica intenda concentrare l’attenzione su un problema giocando sul paradosso, all’uso della libellistica secentesca, va tutto bene.

Le cose cambiano se ci si propone di promuovere un programma realizzabile. Perché a questo punto – per dirla con lo storico Roger Chartier – balzano in tutta evidenza problemi di «poste in palio e rapporti di forza»[8]. Che non possono essere risolti nell’appello a un’ipotetica ragionevolezza del “dover essere”: «il mondo della politica, se vorrà salvare il legittimo potere dovrà, prima o poi, comprendere che […] ha come unica via d’uscita il perseguimento d’una coerente politica ‘di separazione’, in grado di mettere ordine liberale in tutta la sfera pubblica» (E.M. pag.44). Insomma, una molto problematica rivoluzione nell’assetto vigente del Potere creatore di Verità, realizzata attraverso il “graziosamente concesso” (il francesismo dell’atto ottriato)?

E perché la politica dovrebbe fare tutto questo gratis et amore dei, tranciando il cordone di alimentazione che la lega ai due compari dell’Economico e del Mediatico?

E si lascia da parte aspetti specifici della proposta che rendono perplessi: come la figura del garante dei lettori, scelto all’interno della corporazione giornalistica che dovrebbe ispezionare. Un tipico caso a cui si attaglia perfettamente l’antico adagio del “cane non mangia cane”. Per non parlare della titolarità del diritto di replica attribuita ai clienti della testata. Ipotesi che mi ha letteralmente fatto rizzare i capelli, pensando alle esperienze vissute da titolare di un blog che prevede l’interlocuzione con i lettori/visitatori; immediatamente trasformato nello sfogatoio di una miriade di casi umani, i cosiddetti webeti da tastiera, eccitati dall’opportunità irresistibile di avere il blogger a un tiro di sputo.

Il fatto è che la liberazione della sfera pubblica e il corretto riallineamento della relazione informativa sono pensabili soltanto all’interno di un quadro democratico vivificato dal conflitto sociale. Condizione inattuale in questa fase storica, quando i due soggetti dell’antagonismo otto/novecentesco – il movimento delle donne e quello dei lavoratori – sono stati gradatamente marginalizzati e poi liquidati.

Ma è solo da una forte ripresa del contrappeso sociale che la stampa e l’informazione in genere saranno sgravate dal peso della restaurazione conformistizzante che le affossa. Per cui si può giustamente affermare che «viviamo il fallimento della democrazia costituzionale, ovvero della democrazia delle regole. Ora il gioco è visibilmente truccato sia dalla manipolazione dell’opinione pubblica, sia dall’esiguità e dalla predeterminazione delle scelte del singolo elettore» (E.M. pag. 32).

Quanto appare il vero punto debole della proposta di cui discutiamo: presupporre un’idea di cittadinanza che non ha attinenza alcuna con la realtà. Il presunto cittadino-elettore-lettore virtuoso e ingenuo, precipitato come Alice nella tana del bianconiglio, non esiste più, se mai è esistito. Mentre l’incanaglimento della vita pubblica denunciato qualche riga addietro ha reso ormai impossibile etichettare la società come “civile”, contraltare sano di una sfera pubblica e di istituzioni marce fino alle midolla. Una situazione che risulta velleitario pretendere di modificare con interventi normativi fuori contesto generale.

Anche perché ci è stato spiegato da Ralf Dahrendorf, riscoprendo Trasimaco, che – piaccia o non piaccia (e alla faccia dei giuristi) – «il giusto non è altro che l’interesse del più forte»[9]; formalizzazione in norma della volontà egemone. E tale resterà fino a quando gli equilibri di potere non verranno modificati da stagioni di lotte sociali combattute a viso aperto. Impensabili nell’attuale stallo senza fine, in parte prodotto mediaticamente.

Purtroppo viviamo gli ultimi sussulti di una fase storica e l’autunno del patriarca assume aspetti penosi tendenti all’osceno. Il dramma è che non riusciamo ancora a scorgere l’albeggiare di un dopo. La mitica Thule della Terza Repubblica vagheggiata da Enzo Marzo (e magari anche dal vostro recensore).

Come diceva Tocqueville, «poiché il passato non rischiara più l’avvenire, lo spirito avanza nelle tenebre»[10]. E l’informazione, non solo barometro ma anche termometro e specchio del tempo, ne riflette lo stato dell’arte deprimente.

NOTE

[1] Voltaire, Dizionario filosofico, Einaudi, Torino 1995 pag. 288

[2] R. Darnton, Il futuro del libro, Adelphi, Milano 2009 pag. 34
[3] E. Marzo, Le voci del padrone, Dedalo, Bari 2006
[4] V. Zucconi, Parola di giornalista, Rizzoli, Milano 1990 pag. 9
[5] E. Marzo, Le voci, cit. pag. 164
[6] P. Costa, Il futuro della lettura, EGEA, Milano 2016 pag. 13
[7] R. Darnton, Il futuro del libro, cit. pag. 137
[8] P. Bourdieu e R. Chartier, Il sociologo e lo storico, Dedalo, Bari 2011 pag. 44
[9] R. Dahrendorf, Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna 1971 pag. 309

[10] A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti Politici (Vol. II), UTET, Torino 1968 pag. 825

 

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