E’ il concetto stesso di autonomia ad essere debole [di Michela Murgia]

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Pubblichiamo l’intervento tenuto nell’iniziativa organizzata da LAMAS, Fondazione Sardinia, Terra pace solidarietà, Art. 21, www. sardegnasoprattutto.com. lunedì 17 Marzo alle 15:30 alla Mediateca di Cagliari in occasione della presentazione del libro di Pietro Soddu Sardegna. Il tempo non aspetta tempo. Michela Murgia risponde a due domande poste da Maria Francesca Chiappe, caporedattrice de L’Unione Sarda coordinatrice con Nicolò Migheli della Tavola Rotonda. Prima domanda: E’ scesa in campo da sola, immagino perché pensi che la politica, nonostante la crisi evidente, dei partiti soprattutto, non sia finita. Pensa che le donne possano avere nella politica un ruolo vero, senza che siano delegate? Pensa che sia una battaglia di retroguardia quella sulle quote di genere? Seconda domanda:  Diciamo la verità: del discorso di Soddu che cosa le dà fastidio? C’è qualcosa che salva? (ndr).

Prima di rispondere alla tua domanda vorrei soffermarmi sulla definizione di autonomia forte che ho sentito più volte ripetere anche in questo contesto. L’espressione “autonomia forte” è un ossimoro, perché è il concetto stesso di autonomia ad essere debole. Non può essere diversamente, perché l’autonomia statutaria istituzionalizza una cessione di potere permanente rispetto a un soggetto riconosciuto come portatore di un diritto superiore. Nel caso della Sardegna questo soggetto è lo Stato italiano e il suo popolo, al quale la classe dirigente sarda del 1948 ha ceduto alcuni diritti fondamentali, scegliendo di considerarli superiori a quelli dei sardi stessi.

Ecco per quale motivo anche le espressioni “sovranità” e il suo derivato “sovranismo” hanno poco senso dentro alla cornice concettuale dell’autonomia: nessuna sovranità è possibile se non discuti i fondamenti della sua cessione. L’esercizio di quote crescenti di autonomia dentro al quadro dello statuto autonomo non conduce ad alcuna sovranità, ma solo al massimo dell’autonomia negoziata. Ecco perché, senza l’assunzione piena della categoria dell’indipendenza, parlare di “sovranità” agita dentro lo statuto autonomo significa nella sostanza continuare a parlare di autonomia.

Sovranisti oggi in Sardegna sono coloro che immaginano che un’autonomia pienamente compiuta possa portare i sardi al desiderio dell’indipendenza. La cosiddetta “autonomia forte”, secondo i loro ragionamenti, dovrebbe condurci progressivamente alla forza per diventare indipendenti. È un falso ideologico, perché l’autonomia non è solo un concetto debole: è anche un concetto indebolente, che infragilisce chi lo assume. Sembra un paradosso, ma ci sono due motivi essenziali per cui più forte appare l’autonomia che si raggiunge, più debole ontologicamente diventa il soggetto che la esercita.

  1. Il primo motivo è di natura fondante e ha a che fare con il fatto che lo statuto speciale è una legge costituzionale e le leggi costituzionali, oltre a normare i comportamenti, educano il pensiero dentro a precisi binari di senso. Il binario in cui i sardi si sono lasciati condurre attraverso la categoria dell’autonomia speciale è evidente: da sessantasette anni viviamo una costante pedagogia del limite, che ci dice che è normale che i nostri diritti, la nostra piena soggettività politica, arrivino fino a un certo punto e poi si fermino. Per la colpa di una classe dirigente che allora fu incapace di pensare alla libertà tutta intera, sosteniamo da due generazioni un regime di libertà vigilata. Pensare di violare questo confine senza discutere la sua stessa esistenza è un atto di adolescenza civica, come quello che compie il 15enne quando torna a casa mezz’ora dopo l’orario pattuito e riceve una tirata d’orecchi. Una tirata d’orecchi istituzionale la ricevette nel 2006 Renato Soru dall’allora ministro agli affari regionali Linda Lanzillotta, che gli rimandò indietro la riforma dello statuto perché conteneva l’espressione “sovranità del popolo sardo”. Le ragioni erano molto chiare: il popolo sardo sovrano non esiste, l’unico popolo che ha sovranità in Italia è quello italiano e i sardi possono godere di quella sovranità solo riconoscendosi dentro la categoria politica di italianità. La pedagogia del limite ha funzionato anche in quel caso: il limite è rimasto dov’era e l’unico modo in cui la nostra classe politica, politicamente ancora tutta minorenne, riesce a immaginare di violarlo è attraverso l’azione della rivendicazione, che però è il contrario dell’autodeterminazione. Dovendo fare un esempio, direi che la battaglia della vertenza entrate fu un atto rivendicativo (dammi quello che mi spetta), mentre l’istituzione dell’agenzia sarda delle entrate sarebbe stato un atto di autodeterminazione (faccio quello che mi spetta). Non a caso fu fatta la prima azione, ma mai la seconda.
  2. Il secondo motivo per cui la categoria di autonomia non è liberante è che presume il rapporto istituzionale con un solo interlocutore. Che cosa questo significhi in termini di non-liberazione è evidente: l’assunzione da parte della Sardegna di un solo interlocutore dentro a un quadro gerarchico in cui l’altro, l’Italia, ha un diritto più forte fa sì che l’Italia diventi parametro unico del processo di costruzione del sé collettivo dei sardi. In questo modo l’adolescente politico “Sardegna” non solo rimane eternamente minore in casa di maggiori, ma cresce rachitico, immaginando di potersi sollevare solo fino al punto raggiunto da chi, dentro il rapporto dell’autonomia, ha il ruolo dominante. Così Francesco Pigliaru in un recente discorso ha potuto affermare che porterà la Sardegna ai livelli delle migliori regioni italiane. Così la parlamentare Manuela Corda del M5S ha potuto dichiarare, non senza una certa noncuranza per la geografia, che “finalmente riporteremo la Sardegna in Italia”. Non può stupire che il massimo del parametro di sviluppo concepito da un autonomista/sovranista sardo sia quello di arrivare a eguagliare “la meglio Italia”. Solo la categoria dell’indipendenza conduce alla voglia di indipendenza, perché educa un intero popolo a pensarsi all’altezza di poter stabilire rapporti paritari con chiunque.

Mi chiedi anche in che modo le donne e il pensiero femminile possono cambiare la politica. Non entro nemmeno nel ginepraio delle quote rosa, dove peraltro la mia posizione favorevole è ben nota. Mi interessa in questa sede parlare di linguaggio e per farlo parto proprio dal libro di Pietrino Soddu, dove all’autonomista viene messo in bocca lo scetticismo per l’indipendenza con espressioni come: “non si vede all’orizzonte un Mosè che conduca il popolo fuori dal deserto, non si vede un Ulisse che riporti a casa la sua ciurma”. L’indipendenza viene descritta come uno scenario a cui è possibile giungere solo se si palesa all’orizzonte un uomo forte al comando.

Questa è una categoria molto maschile del pensiero politico, quella di una guida muscolare illuminata che per il fatto stesso di essere immaginata “forte” presume alle sue spalle un popolo debole, incapace di raggiungere i propri traguardi da sé. Ma un popolo debole, un popolo che ha bisogno dell’uomo forte, può arrivare al massimo all’affidamento, mai all’indipendenza. Se l’indipendenza è l’assunzione della piena responsabilità di sé, solo un popolo forte può aspirare a quel traguardo. L’abbandono della categoria politica “uomo forte/popolo debole” è il primo passo per costruire una coscienza popolare non affidataria, quindi non clientelare.

Come costruisci questo nuovo linguaggio? La risposta che abbiamo dato come Sardegna Possibile è stata triplice ed è stata anche, sul piano simbolico, molto femmina.

  • Abbiamo scelto di riportare la politica alla sua natura narrativa, ovvero alla sua azione di costruzione di una storia comune. Non ce lo siamo inventati: i nostri poeti lo hanno fatto per secoli, agendo la narrazione poetica nel suo senso etimologico: in Sardegna la poesia non è mai stata un dire, ma sempre un fare. La narrazione politica deve ricostruire un immaginario collettivo, dove sia possibile riconoscerci protagonista della medesima trama di cittadinanza. Che questa trama di cittadinanza oggi sia del tutto assente è evidente anche dal fatto che un sardo su due ritiene di non andare a votare.
  • Abbiamo scelto di fare la nostra proposta politica attraverso una squadra – la giunta dichiarata prima – e non attraverso una sola persona. Contro l’immagine dell’uomo potente a capo di un popolo di impotenti non esiste altro mezzo che quello di affermare che si può essere potenti insieme.
  • Abbiamo fatto tesoro dell’esperienza femminista del “partire da sè”, scegliendo di costruire il programma, la bussola dell’azione di governo, con il metodo dei processi partecipativi che chiamavano chiunque si ritenesse portatore di interesse a contribuire alla costruzione del progetto con la sua specifica esperienza. È importante comprendere che i processi partecipativi nel nostro caso sono stati il frutto di una scelta politica, non solo organizzativa, perché ci hanno permesso di riaprire gli spazi di ascolto che tutti gli altri soggetti politici non possiedono più, per scelta. Non volevamo solo creare un luogo dove noi potessimo ascoltare le domande del nostro potenziale elettorato; volevamo piuttosto restituire a tutti, anche a chi poi non ci ha votato, uno spazio in cui le domande civiche potessero essere nuovamente pronunciate.

È stata questa la nostra sfida e credo di poter dire, in rapporto a queste considerazioni, che il punto più basso della campagna elettorale lo hanno raggiunto i commentatori che il giorno dopo le elezioni hanno scritto, non senza un certo sarcasmo, che non siamo entrati in consiglio perché non ci siamo letti bene la legge elettorale. È l’assenza di una cultura politica, di un linguaggio profondo della realtà, che impedisce a questi analisti di vedere che la vera conquista politica non poteva essere un seggio in consiglio, a cui personalmente se avessi voluto sarei arrivata anni fa accettando i ripetuti inviti alla candidatura che mi sono giunti da più parti politiche, ma il porre davanti ai sardi la contraddizione tra un preciso modo di fare politica e un altro, mai visto ma certamente possibile, a volerlo perseguire.

La legge elettorale ce la siamo letta perfettamente e sapevamo a cosa andavamo incontro. Abbiamo scelto di assumerci consapevolmente il rischio dell’irrilevanza elettorale pur di segnare una differenza, di rappresentare un segno di contraddizione rispetto allo scenario in cui da anni siamo immersi. Questo ha portato a fare sì che per la prima volta nella storia dell’autonomia sarda un candidato presidente donna e dichiaratamente indipendentista, perché io questo sono e non l’ho mai nascosto, arrivasse a prendere il consenso fiducioso di 76mila sardi. Che non bastino a entrare in consiglio è un dato aritmetico la cui ingiustizia altri contesteranno in tribunale. Resta il dato politico e quello storico, inteso non in senso epico ma in senso attuale: appartiene al vissuto politico sardo e non potrà più essere ignorato.

4 Comments

  1. giselle

    Troppo forte , troppo avanti, bravissima, sono delusa da un presidente che nn ha offerto a Michela Murgia con il consenso di 76000 voti , l’assessorato alla cultura, ritengo che questo Consiglio Regionale sia impoverito dalla mancanza di Sardegna Possibile, tengo a precisare che nn ho votato la Murgia.

  2. Tore Corveddu

    Grande riflessione, culturale e politica, proprio la narrazione che potrebbe ancora farci sognare. Ho capito che ho perso una ottima occasione proposta dalla mia stessa associazione!

  3. Maria Luisa Vargiu

    Anche se un poco mesti perchè ” orfani di padre ” , un poco tristi per gli anni trascorsi … , questi gli ottimi motivi per ancora esserci : Un Pietrino Soddu ” straordinario ” , una Michela Murgia ” mitica ” , e un ” Tutto ” in autorevole compagnia !

  4. Giagu Ledda

    In custa riflessione, cundivisìbile de su totu, de Michela Murgia, b’est un’aussèntzia, manna e importante: sa limba sarda. S’indipendentzia polìtica (” …categoria … che educa un intero popolo a pensarsi all’altezza di poter stabilire rapporti paritari con chiunque”.) est fraigada subra de s’indipendèntzia culturale e custa tenet comente muru mastru sa limba. Sa marca de s’iscrau est faeddare sa limba de su mere suo, naraiat s’istoricu latinu Cornelius Tacitus

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