Lupi e cavallette: sul declino dell’Italia [di Nicolò Bellanca]
https://www.micromega.net/15 Aprile 2021. Se perdurano ristagno dell’economia e disillusione dei cittadini verso la res publica è perché il nostro Paese è squassato dal particolarismo. La diagnosi di Andrea Capussela nel volume “Declino Italia” (Einaudi) e le possibili strategie di intervento. I maggiori problemi dell’Italia di oggi sono la stagnazione dell’economia e la sfiducia nella politica. Di questi problemi esistono numerose diagnosi. Limitiamoci all’economia. Che essa abbia avuto, nel primo decennio del secolo, il tasso di crescita medio annuo più basso del mondo, è stato spiegato invocando – alternativamente o cumulativamente – i limiti dimensionali delle imprese e la loro eccessiva specializzazione in attività tradizionali e a ridotto impatto sui mercati internazionali, livelli di concorrenza mediocri in vasti settori protetti, l’indebitamento della finanza pubblica, l’invecchiamento demografico e i suoi effetti per il mercato del lavoro, le rigidità nel mercato dei diritti proprietari, l’insufficiente spesa in “ricerca e sviluppo”, l’inadeguata formazione delle risorse umane, il peggioramento dei servizi collettivi (materiali e immateriali), la mancanza di politiche economiche efficaci e altro ancora. Tuttavia, simili spiegazioni poggiano sulle “cause prossime”: occorre infatti capire per quali ragioni le imprese restano piccole, il debito pubblico esplode, la qualità dell’istruzione è carente, e così via. Occorre inoltre riconoscere che, a più riprese, il nostro Paese si è impegnato in stagioni di riforme rilevanti[1]. Ebbene perché, malgrado questi tentativi riformatori, perdurano il ristagno dell’economia e la disillusione dei cittadini verso la res publica? La risposta che a me sembra più convincente trae ispirazione dal potente schema teorico di Mancur Olson[2]. I piccoli gruppi hanno di solito maggiore facilità ad organizzarsi, in quanto i loro membri possono meglio conoscersi e controllarsi a vicenda. Se i piccoli gruppi s’imbattono in significative occasioni di vantaggio – di guadagno monetario, se si tratta di gruppi economici; di influenza decisionale, nel caso di gruppi politici o culturali –, sono stimolati effettivamente a organizzarsi per ottenere questi vantaggi, a scapito degli altri gruppi e dell’intera società, e per mantenerli nel tempo, impedendo o rallentando l’accesso ad essi da parte dei non-membri. Quando le élite economiche e politiche si mobilitano per conquistare extravantaggi, chiamati rendite, diventano coalizioni distributive che puntano ad accaparrarsi quote crescenti di risorse date, anziché contribuire a innovare e ampliare lo stock delle risorse sociali. D’altra parte, poiché la massa dei cittadini, per gli stessi motivi poco sopra evocati, riesce a organizzarsi e ad agire più difficilmente, i tentativi di cambiamento che tale massa promuove sono spesso poco coordinati e possono quindi essere bloccati dalle élite. Il risultato è una società statica, disuguale e poco inclusiva, collocata su una traiettoria di declino. Questo schema teorico presenta tuttavia (almeno) due punti problematici, nei quali ci s’imbatte quando si esamina la configurazione dei gruppi di una specifica società. Il primo punto riguarda la numerosità delle élite in quella società: se essa è bassa, ad organizzarsi sono big players come gli oligopoli industriali, i sindacati nazionali dei lavoratori, i circoli finanziari e i mass media; se invece è alta, si forma un reticolo frammentato e diffuso di gruppi d’interesse, ciascun nodo del quale esprime in media un ridotto potere. Il secondo aspetto si riferisce alla numerosità degli incentivi selettivi (i vantaggi/privilegi che soltanto alcuni possono ottenere) al di fuori delle élite. Se nella società dominano pochi giocatori forti, questi di solito adottano strategie dirigiste o top-down verso i cittadini. Se al contrario incontriamo molte élite tra loro in competizione, ognuna cerca il proprio successo negoziando con i cittadini tanti microincentivi selettivi, che consentano di allargare il consenso; ma se tutte le élite così procedono, si creano connivenze in grado di alterare i comportamenti di parti ampie della popolazione. Entrambi i punti – il numero dei gruppi d’interesse e la platea di coloro che ottengono piccoli privilegi – sono plasmati dalle occasioni di vantaggio: se, in un certo Paese, tali occasioni si presentano in modo concentrato, tenderanno a coagularsi poche élite; se esse invece sono disperse, aumenterà l’articolazione dei gruppi. Da parte sua Olson, guardando anzitutto agli Stati Uniti, esaminava Paesi predati da branchi di lupi: pochi “poteri forti” che bloccano la società mediante una ripartizione limitata di robusti incentivi selettivi. Ma la sua teoria può essere riformulata per Paesi assaliti da sciami di cavallette: tanti piccoli gruppi particolaristici, che ramificano modeste clientele tra milioni di cittadini. Ebbene, che cosa accade in Italia? Imperversano i lupi o le cavallette? A differenza degli schemi teorici puri, la realtà è spesso animata da combinazioni. Premettendo che su questo tema decisivo esistono pochi studi approfonditi e sistematici[3], sembra plausibile annotare che l’Italia è corrotta a due livelli[4]. Anzitutto, essa è connotata da un patto sociale implicito tra il ceto politico-burocratico e quello manageriale-capitalista. In questo patto, che Pelloni e Savioli denominano “partitocrazia con corporativismo”, le imprese private si organizzano in coalizioni distributive che estraggono rendite per i propri membri indipendentemente dai segnali del mercato, mentre i partiti politici s’impegnano a creare occasioni di rendita per quelle coalizioni: il corporativismo dell’élite economica e la partitocrazia dell’élite politica si tengono a vicenda[5]. Negli ultimi trent’anni, tuttavia, tanto la partitocrazia, quanto il corporativismo, si sono indeboliti in Italia: il numero dei gruppi d’interesse è aumentato notevolmente, ad un tasso di crescita maggiore che in Europa o negli Stati Uniti, con un peso per i gruppi tradizionali (imprese, sindacati, professioni) che rimane decisivo, ma che va riducendosi[6]. Ciò è accaduto in forza specialmente del processo di europeizzazione, che ha esteso e rimodellato in modo diretto e indiretto l’arena dei gruppi, e per la parziale abdicazione dei partiti politici dalla funzione di controllo e di governo del sistema, che ha ampliato il numero e la varietà dei gruppi di interesse ai quali ora si aprono opportunità di policy che in passato erano negate loro[7]. Ma non basta. Accanto alle negoziazioni tra i maggiori gruppi d’interesse politici ed economici, si afferma in Italia un patto sociale implicito tra una vasta platea di piccoli decisori (pubblici e privati) e un’ampia fetta di comuni cittadini. Anche questo patto ha per oggetto delle occasioni di vantaggio, sebbene stavolta si tratti molto spesso di privilegi modesti e transitori[8]. La natura diffusa di questa miriade di microvantaggi basta ad alimentare un sistema di clientele nel quale, di nuovo, le parti si legittimano e si riproducono a vicenda[9]. Questa tesi può essere espressa mediante la distinzione tra il “particolarismo di gruppo”, che si manifesta quando alcuni soggetti (i “lupi”) si coalizzano per fini distributivi, e il “particolarismo individuale”, che affiora quando tanti singoli soggetti (le “cavallette”) si battono per divorare un (spesso minuscolo) orticello. Il nostro Paese è squassato dal particolarismo, che però assume entrambe le forme: l’una riguardante i gruppi strutturati di potere, l’altra che pervade in maniera pulviscolare la società civile. Nulla si capisce delle debolezze dello Stivale, se non si analizzano congiuntamente i due versanti della corruzione[10]. Andrea Capussela ha offerto, in un suo impegnativo libro del 2018, un’interpretazione del declino italiano non lontana da quella qui suggerita[11]. In un breve e lucido pamphlet appena pubblicato, egli prova a tradurre quella diagnosi in una strategia d’intervento[12]. In conseguenza del prevalere del particolarismo, nel nostro Paese le regole istituzionali sono raramente applicate in maniera imparziale. Affinché possa essere rafforzata la supremazia della legge e la responsabilità politica – i due pilastri che sorreggono l’effettività e l’universalità delle regole –, occorre che almeno una parte dei gruppi d’interesse e dei singoli cittadini modifichino le proprie aspettative: si convincano che sia possibile passare da una “trappola sociale”, in cui ognuno agisce opportunisticamente, ad un equilibrio virtuoso di miglioramenti reciproci. A sua volta, sottolinea Capussela, le aspettative cambiano non sempre a seguito di alterazioni delle condizioni oggettive. Talvolta sono invece le aspettative a precedere i comportamenti: le persone inventano un futuro e poi, ispirate da quella progettualità, agiscono per realizzarlo. Questo percorso richiede alcune delicate condizioni di contorno. Una riguarda la chiarezza dell’analisi: come annota Marco Simoni, «prima ancora di cercare se c’è luce in fondo al tunnel, bisogna trovare il tunnel»[13]; soltanto prendendo le mosse da un’adeguata diagnosi del declino italiano, si elabora un progetto ricostruttivo. Un’altra condizione concerne la soggettività: è necessario che sorgano minoranze organizzate la cui strategia consista nell’ottenere il consenso di larghe maggioranze della popolazione. Questo secondo requisito rimanda ancora alla teoria di Olson, che indica precise circostanze nelle quali diventa conveniente formare coalizioni via via più inclusive, in ambito economico, politico o culturale. Questa teoria dimostra che non sempre il massimo vantaggio sta nel chiudersi entro le posizioni già conquistate; al contrario, in alcuni casi importanti la mossa razionale è innescare un percorso egemonico che solleciti la collaborazione tra gruppi in precedenza separati e contrapposti. Le due condizioni si tengono per mano: per un verso, è cruciale comprendere che «le cause profonde [del declino italiano] risiedono nell’organizzazione della società»[14], ovvero negli inceppamenti dell’azione collettiva; per l’altro verso, «occorrono partiti capaci di organizzare le maggioranze latenti»[15], ovvero di sbloccare l’azione collettiva. La pandemia sta accelerando la domanda politica così di un progetto rifondativo del Paese, come di uno o più partiti che tentino di realizzarlo. Capussela conclude, con un’impostazione illuminista che non dovrebbe dispiacere ai lettori di questa rivista, che «i cittadini desiderano spiegazioni del proprio malessere, sono disposti ad ascoltare nuove proposte politiche, e paiono capaci di scartare quelle inadeguate, dopo averle viste alla prova: lo spazio per analisi e proposte migliori è così vasto che sarebbe sorprendente se restasse a lungo vuoto»[16]. Ci auguriamo che il suo ragionato ottimismo colga nel segno. NOTE [1] «A partire dalla fine degli anni ’80, è stato avviato un processo di riforma che nel giro di un quindicennio ha radicalmente trasformato le istituzioni italiane del mercato e dello stato». Fabrizio Barca, “Istituzioni e sviluppo: lezioni dal caso italiano”, Stato e mercato, 1, 2006, p.5. Sulla rilevanza dei tentativi di riforma, e sulle ragioni del loro fallimento, si veda Marco Simoni, “Institutional roots of economic decline: lessons from Italy”, Italian Political Science Review, 50, 2020, pp.382-397.
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