Caro Silvano, ti darei ragione in tutto, se…[di Michela Murgia]
Caro Silvano, ti darei ragione in tutto, se stessimo discutendo del valore assoluto della parola autonomia. Ma l’autonomia di cui abbiamo ragionato a partire dal libro di Pietrino Soddu non era quella astratta dei filosofi e degli etimologi: era quella brutalmente pratica in cui siamo inscritti come sardi e i cui limiti e possibilità sono sanciti dallo statuto della RAS. Che quella specifica declinazione di autonomia sia debole e indebolente è un’evidenza storica a cui né la mia narrazione né la tua filosofia possono purtroppo sopperire, perché sono dati che appartengono all’esperienza. Perdona se abbasso il discorso ulteriormente fino agli esempi pratici, ma credo siano necessari affinchè meglio si comprenda che il limite di cui parliamo non tocca il senso generale della parola autonomia, ma la nostra vita quotidiana in decine di aspetti ben poco autonomi. Potremmo noi forse decidere, da popolo sardo non sovrano, che ripudiamo la guerra e i suoi strumenti in qualunque forma si presentino e che di conseguenza le basi militari devono lasciare la nostra isola? La risposta è no. Se pure fossimo d’accordo dal primo all’ultimo cittadino, quel potere non sarebbe comunque nelle nostre mani, perché la sicurezza nazionale italiana è un diritto superiore al pacifico ripudio che potremmo esprimere. Questa superiore necessità di sicurezza dello stato italiano rispetto alla nostra l’abbiamo accettata proprio firmando lo statuto autonomo. Se non ci fosse stata la sventura di Fukushima e fossero proseguiti indisturbati gli scellerati piani di sviluppo energetico nucleare del governo Berlusconi, quale referendum popolare sardo avrebbe potuto impedire l’impianto delle quattro centrali per cui eravamo in predicato? Nessuno. Al governo italiano sarebbe bastato decretarne l’interesse strategico per rendere immediatamente non legale qualunque azione di opposizione. Avrebbe avuto tutto il diritto di farlo, giacché a rigor di statuto non esiste un interesse strategico dei sardi che non sia subordinato a quello del popolo italiano. L’ultima prova di quanto sia limitata la nostra presunta autonomia l’abbiamo avuta il 19 di marzo, quando i rappresentanti sardi del PD in parlamento sono stati annichiliti dal voto dei loro stessi compagni di partito italiani con la bocciatura dello scorporo del collegio isole. Alla Sardegna è stato ancora una volta precluso il diritto di essere rappresentata in Europa alle prossime elezioni e il parlamento italiano lo ha potuto fare perché quel diritto in realtà i sardi non lo possiedono. E del resto, se la categoria di italianità è superiore alle altre e include sia i siciliani che i sardi, che differenza può fare chi delle due regioni va a Bruxelles? Se un sardo ha potuto rappresentare tutti gli italiani facendo il presidente della Repubblica, perché un siciliano non può rappresentare tutti i sardi facendo il deputato a Bruxelles? Dentro quel quadro istituzionale un italiano vale l’altro, anzi deve valere l’altro, perché solo l’essere italiani è una condizione di diritto: essere sardi è uno specifico territoriale e per questo più che di autonomia bisognerebbe forse parlare di autoctonia. Credo in effetti che allo stato attuale delle cose “Regione Autoctona della Sardegna” sia una dicitura più propria della nostra condizione, perché scegliendo di darci uno statuto invece che una costituzione abbiamo barattato la nostra normalità politica sarda con la specialità territoriale italiana. Accettando di essere considerati un prodotto politico “made in Italy”, gli italiani speciali di Sardegna oggi non possono aspirare ad altro che vedersi riconosciuta l’IGP, l’indicazione geografica protetta, secondo il preciso disciplinare chiamato Statuto. Di questo parliamo quando parliamo di autonomia e di limite in Sardegna, non di altro. Che senso ha dunque invocare la categoria del rigore sull’uso dei termini, quando a usare male il termine “autonomia” è proprio lo Statuto sardo? Il rigore che tu richiami io non lo applico al senso primigeno dei termini usati, ma lo declino secondo il principio di realtà, ovvero la tensione tra quel che ci piacerebbe che potessimo essere e quello che invece quotidianamente viviamo. Dinanzi alla contraddizione che ne emerge, l’atto intellettuale e politico più rigoroso che possiamo fare è rifiutare di chiamare “autonomia” ciò che è a tutti gli effetti “dipendenza”. Faremo giustizia dell’etimologia e magari, trasformando le parole in scelte, restituiremo un po’ di giustizia anche a noi stessi. |