L’elemosina e la dignità [di Giampaolo Cassitta]

mendicante

Lo sguardo non aveva cielo. Solo asfalto tra le sue opportunità. Asfalto e voce afona, a chiedere qualcosa con la consapevolezza di non ottenere. O di ottenere molto poco. L’ho visto di primo mattino tra la farmacia e il distributore di benzina, a Piazza Repubblica, a Cagliari. Uno come tanti altri. Ma solo apparentemente. Si è avvicinato, ha chiesto scusa e poi ha mostrato il palmo della mano. Qualche spicciolo. E’ normale di questi tempi. E’ terribilmente normale anche se è un ossimoro inaccettabile, un rumore indecifrabile che riesce a produrre solo il sogno quando si spezza. Perché lui, come tanti altri, non è qualcuno che chiede l’elemosina.

E’ un extracomunitario che chiede l’elemosina. Molto giovane. Vengono dal Ghana, dal Niger, dal Camerum, vengono dalla Tunisia. Avevano il vento caldo sulla schiena e gocce di fatica e di dolore da rimarginare. Hanno pagato e sofferto, si son nascosti perché non sono contemplati nelle carte di questo paese, hanno la sfortuna di essere nati in un altro luogo, che non hanno scelto. Noi li conosciamo, sono stati il corollario dei nostri anni. Sono giunti con sorrisi aperti e denti marci a venderci la stoffa e le magliette con quelle Peugeot blu stinte e completamente scassate; hanno lavato i vetri ai semafori, hanno venduto i fazzoletti, ci hanno aiutato a parcheggiare e, in qualche maniera hanno, a volte, esagerato nel chiederci di acquistare un paio di calze. Sono utili quando piove perché sbucano come d’incanto e ti offrono l’ombrello e poi, come sono apparsi, così misteriosamente scompaiono.

Hanno i loro tavoli ambulanti pieni di mercanzia. Cose false, cose frivole, cose che si acquistano da poveri ragazzi per nascondere la nostra impossibilità ad appartenere ad un’altra classe: quella dei ricchi. Quelli veri. E compriamo i falsi Armani per sentirci meno ultimi di loro che li vendono. Ma è tutto specchiatamene falso. Hanno fatto tutto, alcuni lavorano nei bar, nei ristoranti, altri in piccole fabbriche. I loro figli cominciano a giocare con i nostri e si mischiano i colori. Siamo alla quasi normalità e all’accettazione. Quest’ultimo tassello però mi ha terribilmente colpito.

Un africano che chiede l’elemosina. Non si era visto. Non era mai successo. Non basta cercare dieci centesimi tra le tasche, o far finta di non vedere, o guardare altrove. Non basta provare a raggranellare vecchi capitoli di sociologia, di teorie sull’etichettamento o sulle nuove povertà. Non basta. Perché quello che ho davanti è fuggito dal suo paese, dal suo nulla, da quel deserto senza futuro, è fuggito dalla fame certa e si è trovato in questa piazza, apparentemente colorata, apparentemente normale, dove la vita scorre fluida tra ragazzini e avvocati che si incrociano la mattina tra le scuole e il tribunale, dove i sorrisi sono misurati e gli sguardi sull’iphone; lui è la cornice di quella piazza che nessuno vuole osservare.

Mi preoccupa il suo lungo e antico viaggio verso qualcosa che sperava migliore, verso una strada con meno curve, e si ritrova, invece, un paese ingobbito sulle proprie disperazioni che non riesce a farsi carico di quelle degli altri. Ma è un segnale, un segnale forte su cui tutti siamo portati alla riflessione. I ragazzi extracomunitari, la maggioranza africani, non hanno mai chiesto l’elemosina. Non lo avevano mai fatto. Sinora. Adesso nel centro della città sono a decine e si confondono tra qualche scalcinato punk a bestia, qualche ragazzo biondo con un cane e le solite ragazze madri davanti ai supermercati. Soprattutto zingare. Loro non c’erano. Non c’erano mai stati nella cornice della marginalità. Loro, in qualche modo, facevano parte del quadro variegato, magari ai margini, magari piccoli puntini lontani. Ma erano dentro il quadro.

Oggi chiedono e se non ottengono vanno poi a fare la fila alla Caritas dove i pasti stanno celermente aumentando. Non possiamo semplicemente dire che la crisi ci attanaglia e ci sono “i nostri” da difendere. Se trovo un africano che chiede l’elemosina mi preoccupo, perché il suo sogno si è miseramente infranto e non riesce più a sognare. E chi non ha più desideri in tasca diventa egoista, diventa “un problema”. Dovremmo cominciare ad occuparci seriamente della cornice sociale. Prima che il quadro cada rovinosamente dalla parete. Un buon punto di partenza per la giunta Pigliaru.

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