Freud e i mosaici [di Aurelio Andrighetto]
https://www.doppiozero.com/materiali/freud-e-i-mosaici. Nel mosaico a tessere bianche e nere trovato all’ingresso della Casa del Poeta Tragico, un cane alla catena digrigna i denti. Lo scintillio degli occhi è rappresentato da tessere bianche, ma cosa rappresentano quelle che formano delle macchie chiare sul corpo dell’animale? La difficoltà interpretativa svela la convenzionalità della comunicazione: le macchie sono un codice visivo utilizzato per rappresentare la lucentezza del pelo nero (Ernst Hans Josef Gombrich, L’immagine visiva, in Le Scienze, numero 61, settembre 1973). A questa convenzione non siamo stati educati e per questa ragione, invece di un cane da guardia dal pelo nero lucente, vediamo un cane dal pelo nero macchiato di bianco, che digrigna i denti. Cosa vedevano gli antichi romani attraverso i codici visivi dell’arte musiva? La mostra Colori dei Romani. I mosaici dalle Collezioni Capitoline, allestita presso il Museo della Centrale Montemartini a Roma (fino al 15 settembre), esibisce un nutrito repertorio di esempi rimasti finora invisibili perché conservati presso il Magazzino Archeologico del Celio. Nella prima sezione della mostra L’arte del mosaico presso i romani. La storia e la tecnica si ricostruisce il passaggio, nel III secolo a.C., dall’uso dei ciottoli colorati, introdotto in Grecia già dal V-IV secolo a.C., alla tecnica del tassellato, ovvero alle composizioni realizzate con tessere tagliate (Nadia Agnoli, Mosaico:“pittura per l’eternità”, saggio pubblicato nel catalogo della mostra, Campisano Editore, Roma, 2021, p. 30). Con piccole tessere di palombino, basalto, litomarga verde, calcare rosso e rosa, vetro nero, bardiglio, pietra serpentina, rosso antico, tufo e paste vitree, i mosaicisti erano in grado di tradurre nell’arte del mosaico policromo temi e modelli tratti dalla pittura. Significativi a questo riguardo sono gli emblemata, quadri a mosaico di piccole dimensioni inseriti al centro di uno schema, generalmente geometrico, nei quali possiamo ammirare l’abilità nell’imitare gli effetti pittorici della pennellata. Di particolare fascino è la resa dei riflessi, attraverso i quali si avverte la meraviglia del mondo che appare per poi scomparire in un attimo. In Storia Naturale (XXXVI, 184) Gaio Plinio Secondo descrive l’emblema raffigurante quattro colombe che si abbeverano poggiate sull’orlo di un bacile metallico, da cui la luce trae splendidi bagliori, elogiando la magistrale resa dell’ombra che oscura la superficie dell’acqua. Il mosaico a cui Plinio si riferisce è il prototipo attribuito a Sosos, da cui derivano numerose copie e varianti. A differenza del mosaico della Casa del Poeta Tragico, qui non ci sono equivoci: l’immagine comunica anche a noi il fascino di ciò che appare d’un tratto e poi scompare: la natura breve e transitoria di un’esperienza, che Publio Ovidio Nasone associa alla bellezza: “La bellezza è un bene fragile” (Ars Amatoria, II, 113). La caducità del bello ne aumenta il valore, annota Sigmund Freud nel resoconto di una passeggiata in compagnia di due amici, constatando che i due “avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità” (Caducità, in Opere. 1915-1917, volume 8, OSF, Boringhieri 1989, pp. 173-176). Incantevole il mosaico policromo con fondale marino, nel quale i pesci guizzano lanciando bagliori colorati (notare la tessere azzurre inserite tra l’occhio e la branchia del pesce). Gli effetti luministici e chiaroscurali resi con l’uso di tessere minute sembrano gettare un ponte sull’abisso che ci separa dalla mentalità delle maestranze greche e dei committenti, che tra il II e il I secolo a.C. inaugurarono a Roma la moda di “vivere alla greca”, ma il lutto moderno per la perdita di qualcosa che abbiamo amato o ammirato, segnalato da Freud, marca la distanza che ci separa da questi antichi appassionati d’arte, che iniziarono a collezionare mosaici come già prima collezionavano statue e oggetti di lusso di fabbricazione greca. Se il mosaico pavimentale è un prodotto della cultura greca, quello parietale è un’invenzione romana, derivata dalla graduale trasformazione della decorazione dei ninfei. Questi ambienti, dedicati alle ninfe e alle muse (da cui il termine latino opus musivum – opera degna delle muse), erano decorati con pomice, conchiglie, scaglie di vetro, pezzi di marmo e concrezioni marine. Intorno alla metà del I secolo a.C., viene introdotto l’impiego di tessere vitree che dà origine all’opus musivum vero e proprio (Agnoli, p. 39). Il “vivere alla greca”, che trionfa tra il II e il I secolo a.C., si accompagna alla ricerca del lusso sia nella sfera pubblica che in quella privata. Plinio stigmatizza il trionfo del lusso: “luxuriae gloria”, che consiste nel possedere ciò che può andare perduto in un attimo: “dalla terra abbiamo estratto gli oggetti di murra e di cristallo, resi pregiati dalla loro stessa fragilità […] questo il vero trionfo del lusso; possedere ciò che potesse andar totalmente distrutto in un attimo” (Storia Naturale, XXXIII, 5). Con un’acutezza degna di un sociologo ante-litteram, Plinio rileva nella ricchezza la causa della deplorevole deriva del sentire che lega la bellezza alla caducità, criticando gli stili di vita e i modi di abitare del suo tempo. La seconda sezione della mostra Vivere e abitare a Roma tra la fine dell’età repubblicana e l’età tardo-antica: le dimore di lusso e i contesti domestici ricostruisce l’ambiente nel quale sono stati rinvenuti i mosaici. Diversi acquarelli su carta documentano il momento dei ritrovamenti. Suggestivo quello dipinto da Vincenzo Marchi, che rappresenta il ninfeo scavato nella proprietà dei Claudii Claudiani. Nella terza sezione Gli spazi del sacro: la basilica Hilariana, sede del collegio dei sacerdoti addetti al culto di Cibele e di Attis, è esposto un mosaico apotropaico raffigurante un occhio umano trafitto da una freccia, sul quale è appollaiata una civetta. Secondo gli studi condotti sul reperto, l’occhio trafitto da un dardo e circondato da una serie di animali sarebbe simbolo dell’invidia. Non è tuttavia chiaro se l’occhio abbia un rapporto anche con quello glaucopide di Atena, che vede nel buio (per questa ragione associata alla civetta) lanciando raggi visivi e luminosi rappresentati a guisa di dardi (Charles Mugler, Sur une polémique scientifique dans Aristophane, in Revue des Études Grecques, 1959). Albert Lejune, Euclide et Ptolome. Deux stades de l’optique geometrique grecque, Louvain, 1948, pp. 18-21 e 59). L’opacità di queste immagini costituisce la profondità stessa del simbolo, perché “il simbolo dà il suo senso in enigma” (Paul Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia, 2002, p. 19). Il mosaico trovato all’ingresso della basilica Hilariana è un emblema posto al centro di un modo di pensare per immagini con valore simbolico, che spesso ricorrono nei contesti religiosi e funerari. Nella quarta e ultima sezione della mostra I mosaici degli edifici funerari nelle necropoli del suburbio di Roma, è esposto uno splendido mosaico policromo raffigurante dei pavoni, simboli di rinascita perché perdono le piume della coda in autunno e in primavera ne spuntano di nuove. Citando il titolo del saggio di Ricoeur sul simbolo, la mostra Colori dei Romani “dà a pensare”, anche se delude l’aspettativa, perché i curatori (Claudio Parisi Presicce, Nadia Agnoli, Serena Guglielmi) non sono entrati nel merito degli aspetti percettivi, espressivi e comunicativi del colore nella pratica dell’arte musiva antica, come invece il titolo promette. Salendo al piano superiore del Museo della Centrale Montemartini, dove l’archeologia incontra l’archeologia industriale con un allestimento ardito, il pensiero torna agli effetti luministici e chiaroscurali dei mosaici, alla natura breve e transitoria di un’esperienza che Ovidio associa alla bellezza. Cogliendo la bellezza dell’attimo, questo è per sempre. La bellezza, che strappa l’attimo alla corsa del tempo, la si coglie nei mosaici in mostra al piano inferiore, mescolata alla symmetria delle composizioni e alla meraviglia suscitata dall’abilità dei mosaicisti, ma “l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità” ne ostacola la visione. |