Le parole del post-Covid in 28 interviste [di Michele Roda]

https://ilgiornaledellarchitettura.com /2021/10/19/ Il dialogo con i progettisti più influenti sulle forme del mondo durante e dopo la pandemia è stato tra i generi pubblicistici di maggior successo, negli ultimi 20 mesi. Intensamente praticato, con qualità e profondità molto varie, da giornali e riviste (cartacei e digitali, di settore e generalisti). Potrebbe apparire dunque sterile esercizio retorico la loro raccolta.

I due libri gemelli della collana “Interviews”, pubblicata dall’editore Libri Scheiwiller, hanno però il merito di affrancarsi dal già detto, dal già sentito, dal già scritto. Mettendo su carta testimonianze, certamente molto eterogenee, con quella distanza che la pubblicazione su libro richiede permettendo quindi una rielaborazione del ritmo domanda-risposta.

La mediazione è inoltre affidata a figure non banali della cultura architettonica nazionale come Fulvio Irace e Matteo Vercelloni, capaci di far pesare come fattore la propria conoscenza, anche personale, con gli autori. Proprio la struttura editoriale dei due testi racconta efficacemente lo sfondo e gli obiettivi.

Da una parte l’architettura (Sguardi sull’architettura contemporanea. Interviste di Fulvio Irace, a cura di Fulvio Irace, Libri Scheiwiller, 2021, 176 pagine, € 22,90), dall’altra il design (Sguardi sul design contemporaneo. Interviste di Matteo Vercelloni, a cura di Matteo Vercelloni, Libri Scheiwiller, 2021, 160 pagine, € 22,90).

Mondi diversi, sembrerebbe. Anche se in realtà i temi si sovrappongono, spesso e volentieri. Lungo traiettorie che proprio la pandemia sembra ulteriormente riavvicinare: innovazione e sostenibilità sono le parole chiave che emergono sia nell’introduzione di Irace (“Pare interessante sottolineare che gli architetti che hanno accettato il nostro invito partecipano, ciascuno a suo modo e con diversa intensità, a un’idea politica del progetto come mezzo di trasformazione e di innovazione più che, semplicemente, come strumento di consenso”) che in quella di Vercelloni (“Tra pratica creativa e pratica sociale, tra strumento di sostenibilità e di rispetto della natura, il design si presenta strettamente connesso con le tecnologie nel comune cambiamento verso un’idea di progresso tesa verso l’innovazione, che si traduce anzitutto in un generale miglioramento del nostro habitat”).

Il secondo aspetto che emerge è l’elenco delle voci e degli sguardi che compongono il mosaico dei due volumi. Laddove i giornali riparano spesso sugli autori più disponibili alla battuta ad effetto, un prodotto editoriale di questo tipo racconta molto osservando chi c’è e chi non c’è. Vercelloni invita 12 designer, tra cui 6 italiani: Branzi, Wanders, Arad, Starck, Giovannoni, Urquiola (la sola donna), De Lucchi, Citterio, Lovegrove, Iacchetti, Ulian, Guixè.

Irace invece propone i suoi colloqui (svolti nella fase più dura del lockdown, “Fuori dell’ufficialità dello studio si è creata una condivisione emotiva che ha favorito una piacevole informalità, mettendo in luce l’aspetto intimo e privato del carattere di ciascuno. Ne è derivato un dialogo poco accademico e di circostanza, che forse qualcuno apprezzerà più di ogni risposta di maniera proprio per la sua immediatezza”) con 14 studi: “La selezione finale si è così concentrata su quattordici studi (di cui alcuni costituiti da coppie) – nel complesso sei «architettrici» e dieci «architettori» – distribuiti su geografie assai lontane, città, capitali e metropoli dall’Estremo Oriente alle Americhe, dall’Europa al continente africano”. Ogni articolo è formato da domanda e risposta (in tutto sono 280) e da uno schizzo emblematico a rappresentare la poetica e funziona in sé (“l’intervista comporta una soggettività”, scrive Irace), con pochi rimandi reciproci.

Più che una restituzione dei temi ricorrenti (tra gli argomenti più discussi i cambiamenti climatici, l’attivismo politico, la dialettica globalizzazione-localismo ma anche la formazione dell’architetto e il ruolo del progettista), pare utile un sintetico quadro di citazioni dalle interviste.

Le parole dei 14 architetti

Renzo Piano: “Oggi, anche per effetto della pandemia, si parla molto di abbandonare le città; io credo invece che città e campagna debbano stare in un rapporto dialettico, che debbano essere collegate meglio, specie in Italia dove le distanze sono brevi e la campagna è fertile. In questo senso le periferie sono luoghi in cui la città perde intensità ma non è ancora campagna, e su queste occorre lavorare perché diventino luoghi di scambio”.

Mario Botta: “Credo all’architettura come organizzazione dello spazio di vita e di aggregazione dell’uomo come fatto collettivo. Questo è il grande valore del costruire: non si tratta mai di un fatto individuale, ma di una componente, anche spirituale e simbolica, del vivere collettivo perché l’uomo ha bisogno di segni significativi all’interno del proprio habitat”.

Emilio Ambasz: “Dobbiamo creare una nozione «a-tettonica» di architettura, che concepisca l’architettura come una componente integrante della natura artificiale che stiamo creando tanto di buona lena quanto inconsapevolmente. È compito dell’architetto riconciliare la natura creata dall’uomo con quella organica che ci è stata data. Nel nostro tentativo di addomesticare la natura ne abbiamo creato una seconda, artificiale, non sempre in armonia con quella che abbiamo trovato. Dobbiamo ridefinire l’architettura come uno dei componenti di quella natura artificiale, ma per fare questo dobbiamo prima di tutto ridefinire il significato che oggi può avere per noi il termine natura”.

David Chipperfield: “Dobbiamo essere chiari sullo stato di confusione e di stallo in cui si trova oggi l’architettura: prima ancora che tu sia chiamato a dare forma a un edificio, molte cruciali decisioni ambientali sono già state prese. Come architetto non sei tu a decidere dove costruire: a te è demandato semmai di chiarire il programma funzionale, ma alla fine sei quasi un decoratore che viene chiamato al termine di un processo. Abbellire edifici con tecnologie verdi è diventato di moda, perché così si può dimostrare in maniera facile una sorta di sensibilità ambientale. Non biasimo chi lo pratica, ma dietro leggo una certa frustrazione”.

Steven Holl: “Come specie umana, siamo in pericolo, e non c’è altro modo di affrontare questo pericolo che utilizzando le armi della riflessione e dell’analisi. Per me l’architettura è uno degli strumenti più efficaci per affrontare questi problemi

Kazuyo Sejima: “Prima pensavo che un edificio avrebbe dovuto sempre interagire con il contesto ed esserne anzi quasi determinato; ora me lo immagino piuttosto come parte del paesaggio, anzi divenire esso stesso paesaggio. Per questo i nostri progetti non definiscono mai confini: interno, esterno, paesaggio sono parte di un unico continuum, favorito appunto dal ricorso a forme astratte”.

Grafton Architects: “Il virus ci ha insegnato che forse le cose non seguono traiettorie lineari, da A a B e poi a C, e che quindi c’è bisogno di uno sguardo più flessibile e sensibile alla trasformazione dei nostri modi di vivere e di accogliere il cambiamento. Insomma, è ora di pensare a come gli edifici possano reagire in maniera diversificata nelle situazioni più diverse”.

Francis Kéré: “L’architettura coinvolge tutti ed è giunto il momento di condividere, di comunicare, di affrontare i risvolti economici e sociali. Come architetti dobbiamo sempre chiederci: come applico la teoria nel mio progetto? Dobbiamo smettere di denunciare la crisi e però continuare ad agire in modo di aggravarla”.

Barclay & Crousse: “Riteniamo fermamente che l’architetto non possa esimersi dall’essere responsabile verso la società per quello che fa, perché esercita un’incidenza sopra le decisioni ambientali e contestuali della città e anche sopra le etiche del lavoro. Per noi la responsabilità, lavorando in Perù, è soprattutto quella di essere onesti con l’ambiente, il clima, gli operai-artigiani, le risorse di cui disponiamo: garantire la pertinenza dell’edificio nel contesto in cui si insedia”.

Bijoy Jain: “Dobbiamo pensare allo spazio come a qualcosa di malleabile, qualcosa che sia in grado di reagire ai cambiamenti, che si dimostri resiliente ed empatico alle trasformazioni. Che vuol dire malleabile? Per me significa qualcosa che si può espandere e contrarre, agile, tattico: sì, tattico mi sembra la parola più appropriata”.

Charles Renfro: “Ci piace pensare che i nostri progetti forniscano più accesso, a più persone, per periodi più lunghi. Ci piace usare questo termine%rer: http://www.sardegnasoprattuon ha nulla a che fare con il voto, si tratta di disporre di spazi a cui tutti possano accedere. È una questione che riguarda la partecipazione più che la democrazia nel senso tradizionale del termine”.

Benedetta Tagliabue: “Secondo me l’architettura sta tornando a un momento femminile molto forte perché la texture come tessuto, come pelle, come parte esteriore, sta diventando una cosa importantissima”.

Odile Decq: “Le città sono molto affollate, quindi è molto complicato viverci quando c’è una pandemia, soprattutto per i poveri. Devi essere in grado di cambiare la città per fornire alle persone luoghi in cui rifugiarsi quando c’è un problema simile, e per il momento non è assolutamente possibile. Dobbiamo fornire a tutti uno spazio all’aperto, sia all’interno degli edifici, sia nelle città, per non restare confinati solo in una piccola scatola”.

Tadao Ando: “Sono convinto che, in questa nostra epoca di computer e tecnologie, gli architetti devono fidarsi ancora del proprio istinto e contare sul potere dell’immaginazione umana. L’architettura è a un punto di non ritorno, in bilico, in un momento in cui sembra prevalere l’idea che gli esseri umani non sono più tanto necessari nel processo progettuale. Con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico siamo davvero a un passo dalla meccanizzazione dell’intero processo progettuale. Tuttavia, mentre l’architettura standardizzata e del «taglia e copia» sarà in grado di produrre velocemente e con un minimo controllo da parte dell’uomo, gli spazi capaci di ispirare speranza agendo sulla fisicità e sulle emozioni non possono essere costruiti con altrettanta facilità e rapidità. […] Ecco allora che l’architettura può aiutarci ad alleviare i grandi problemi della società”.

*Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

**Fulvio Irace e Matteo Vercelloni raccolgono le opinioni di protagonisti dell’architettura e del design sulle sfide che ci attendono

 

 

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