Roberto Capucci e l’arte della piega [di Maria Luisa Ghianda]
https://www.doppiozero.com Al Cartastorie, l’hub culturale dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, situato al 214 di via Tribunali nella città partenopea, fino al 9 gennaio 2022 è ospitata la mostra Pagine di seta, ideata da Rossella Paliotto, presidente della Fondazione Banco di Napoli, e da Enrico Minio Capucci, direttore della Fondazione Roberto Capucci. Vi sono esposti ventuno abiti-scultura di Roberto Capucci (1930), scelti tra quelli da lui realizzati nel periodo compreso tra il 1956 e il 2007, tutti provenienti dall’archivio dell’omonima Fondazione, che ha sede nella Villa Manin di Codroipo, in provincia di Udine. Ciò che colpisce percorrendo il labirinto di questo monumentale archivio bancario (il più ricco del mondo, che occupa quattordicimila metri quadrati, suddivisi in trecentotrenta stanze in cui si snodano ottanta chilometri di scaffalature ricolme di documenti datati dal 1573 ai giorni nostri, “un tesoro di memorie lungo 450 anni”) è il sorprendente connubio tra le opere di carta che conserva e le opere di seta che vi sono esposte: entrambe, infatti, sono fatte di pieghe. Gilles Deleuze, nel suo libro La piega, dedicato a Leibniz e al Barocco (Einaudi, 1998), ha affermato che la piega è la metafora utilizzata dal filosofo e matematico tedesco per illustrare il “labirinto del continuo”. E, lì, nella continuità dello spazio labirintico dei due storici edifici contigui che ospitano il Cartastorie (Palazzo Ricca, del XVI secolo, già sede del Banco dei Poveri e il quattrocentesco Palazzo Cuomo, attribuito a Giuliano da Maiano), sono le pieghe delle carte e le pieghe degli abiti di seta a fondersi e a confondersi nello sguardo del visitatore, in un gioco di rimandi visivi, reso ancor più suggestivo dagli effetti di luci e di ombre ideati da Fabio Donato, mentore Caravaggio, (le cui Sette opere di Misericordia ‘abitano’ a pochi passi da lì, al 253 della stessa via Tribunali). “Un labirinto è detto molteplice, in senso etimologico,” scrive ancora Deleuze “poiché ha molte pieghe. Il molteplice non è soltanto ciò che ha molte parti, ma è anche ciò che risulta piegato in molti modi.” E nel labirinto del Cartastorie le pieghe delle carte trasmigrano nelle pieghe della seta senza soluzione di continuità in un alternarsi di rimandi infiniti e suggestivi: di carta, di seta, di carta, di seta. Roberto Capucci si arrabbia se lo si chiama stilista, e non gli piace neppure il termine couturier. Lui preferisce dirsi sarto. Tutt’al più artista. Ecco, sì, sarto-artista è la definizione che lo connota nel modo più appropriato, poiché dell’uno e dell’altro egli ha la natura e il talento, ma, soprattutto, ne possiede le capacità tecniche e il prorompente estro creativo. Così come fanno gli artisti, egli crea pezzi unici manufatti, abiti-scultura, molti dei quali sono destinati ad essere esposti e non indossati. A parte rare eccezioni, essi non hanno titolo, esattamente come non lo ha la maggior parte delle opere dell’arte contemporanea, alla quale appartengono di diritto. Il suo amore per l’opulenza e la complicata sinuosità delle forme che crea, fanno sì che il linguaggio artistico di Roberto Capucci sia affine a quello barocco, soprattutto lo è per la sua predilezione per la piega. Così Deleuze: “Il Barocco produce di continuo pieghe. Non è una novità assoluta: si pensi a tutte le pieghe provenienti dall’oriente, o alle pieghe greche, romane, romaniche, gotiche, classiche… ma il Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta all’infinito, piega su piega, piega nella piega. Il suo tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga all’infinito.” Capucci, magister plicae, è barocco perché piega e ripiega la seta, la tende e la distende, la contrae e la dilata, la avviluppa e la sviluppa, la involve e la evolve dando origine a volute, a ventagli, a spirali, a vortici la cui lucentezza, accentuata dai bagliori dorati che egli inserisce qua e là nei suoi abiti, si esalta nelle caleidoscopiche cromie da lui impiegate con la perizia di un pittore. “Questa mostra è un omaggio al barocco napoletano. Il barocco è sempre stato per Capucci una fonte di ispirazione primaria”, ha dichiarato il presidente della sua fondazione nella conferenza stampa di presentazione della mostra. Il suo tessuto preferito è la seta, della quale conosce ogni segreto, nelle sue infinite declinazioni, dallo chiffon, al crêpe marocain, dal faille, al gazar, alla georgette, al mikado, al peau de soie, al raso, al pesante reps, al sauvage (la seta selvatica), allo shantung, al taffetà e persino all’ermesino, una seta leggera e frusciante (il cui nome le deriva dalla città persiana di Ormuz dove era anticamente prodotta), della quale ha riportato in auge l’impiego, dismesso da secoli. Ed è proprio la seta il legame fra Capucci e Napoli. La capitale campana, infatti, nei secoli è stata un “centro di eccellenza per la produzione e la lavorazione della seta. Il percorso della sartorialità napoletana di sicuro contribuì alla formazione della haute couture italiana legata al ciclo della seta”, recita il volantino che accompagna la mostra. Tra l’altro, nell’Archivio del Banco di Napoli (un tempo Banco delle Due Sicilie) si conservano alcuni documenti che provano come la lavorazione della seta sia iniziata a Napoli in età aragonese. L’arrivo nella città partenopea dei bachi da seta e degli esperti nella trasformazione della loro bava nel prezioso filato si deve, con molta probabilità, ai contatti diplomatici (anche se burrascosi) tra gli Aragonesi e i Visconti, signori di Milano, nel cui ducato la bachicoltura era largamente diffusa fin dal XIV secolo, ma soprattutto si può ipotizzare che ad implementare questa attività abbiano contribuito le nozze di Ippolita Maria Sforza, figlia di Francesco e di Bianca Maria Visconti (e sorella di Ludovico Maria, nel cui soprannome, Il Moro, ci sarà tutto il suo amore per i gelsi e la seta!), con il figlio di Ferrante d’Aragona, Alfonso II (che diverrà re di Napoli nel 1494). I tessuti auroserici milanesi erano largamente apprezzati dalla nobiltà del tempo che era una vera e propria koiné in cui mode& modi circolavano così rapidamente da far aumentare la richiesta di seta, al punto da rendere opportuno produrla in loco. Ma al Cartastorie ci sono anche molti documenti relativi alla Real Colonia serica di San Lucio, con la Sua Filanda per la tessitura della seta e le annesse tintorie per la sua colorazione. Fondato nel borgo casertano nel 1776 dal re Ferdinando IV di Borbone, su progetto dell’architetto Francesco Collecini, al Setificio Reale di San Leucio (oggi trasformato in un museo, di cui si consiglia una visita) si producevano soprattutto broccati, damaschi e lampassi. Questi tessuti pregiatissimi inizialmente erano destinati a soddisfare il solo fabbisogno della corte dei Borbone ma, di mano in mano che la loro fama crebbe, aumentò in modo esponenziale la loro richiesta anche da parte di tutta l’aristocrazia europea. Alcuni album con i campionari delle antiche sete di San Leucio accompagnano gli abiti esposti in mostra, insieme a ricevute e ad altri documenti di quella storica produzione manifatturiera, in minima parte ancora attiva oggi. Roberto Capucci disegna moltissimo. Tutte le sue creazioni nascono sulla carta, dapprima bidimensionali, in forma di schizzo e di studio, e successivamente prendono vita nei cartamodelli in scala al vero, che gli consentono di ‘costruire’ i suoi abiti-scultura, calibrandone ogni dettaglio, così come fa lo scultore quando imprime la propria idea creativa nel gesso, prima di tradurla nel bronzo o nel marmo. Capucci, invece, dopo la prova in carta, la ‘scolpisce’ nella seta, per questo le sue opere sono state definite sculture di seta. Durante la sua lunga carriera, il maestro romano ha vestito dive quali Gloria Swanson, Esther Williams, Marilyn Monroe, Isa Miranda, Franca Valeri, la soprano Raina Kabaivanska e nobildonne come le principesse Pallavicino, Borghese, Odescalchi e Donna Simonetta Colonna di Cesarò, protagoniste del jet set della capitale negli anni cinquanta e sessanta, per le quali la giornalista Irene Brin coniò addirittura la definizione di “le capuccine”. Persino Rita Levi Montalcini, nelle occasioni ufficiali, indossava solo abiti disegnati da lui: con uno di essi andò a Stoccolma a ritirare il Premio Nobel nel 1986. Capucci ha collezionato molti premi e riconoscimenti internazionali, tra questi c’è anche l’Oscar della Moda – Filene’s Young Talent Design Award – da lui conseguito il 17 settembre 1958 a Boston per la sua linea “a scatola”. Ad essa appartiene uno dei suoi capolavori, il famosissimo abito Nove Gonne, del 1956, ispirato ai cerchi concentrici che si propagano sulla superficie dell’acqua quando viene infranta da un corpo esterno, goccia o sasso che sia. In taffetà rosso si compone di nove gonne sovrapposte in quote a scalare, con tanto di strascico. Sue opere sono esposte in permanenza, in diversi musei del mondo, come la Galleria del costume di Palazzo Pitti a Firenze, il Victoria and Albert Museum di Londra e il Kunsthistorisches Museum di Vienna. In una recente intervista, alla domanda di chi sia lo stilista italiano contemporaneo che predilige, il maestro ultranovantenne ha fatto il nome di Giorgio Armani. Incalzato dal giornalista che sottolineava la profonda differenza tra le loro creazioni, ha risposto, con la poesia che lo contraddistingue: “È vero: lui veste la vita, io i sogni”.
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