Covent Garden [di Franco Meloni]

ho_un_sogno

Sabato sera, fine di una settimana che si vuole lasciare dietro dopo una quantità smodata di birre. La Città cerca svago. La calca si addensa con molli ondeggiamenti e la troppa gente verifica le ultime possibilità di facili acquisti lungo le bancarelle eleganti che espongono oggetti molto al di sopra del valore accentuato da un mercato folle. La Città mostra una delle sue innumerevoli, quasi sempre eccitanti, facce. Scialli colorati e giocolieri con seghe da albero in moto. Il menù è sempre invariabilmente diverso, ma di poco. Quasi mai si trova quello che ci si aspetta. Anche la musica: quartetti di Albinoni e country di ex giovani colpiti da troppe dosi di eccitanti liquidi o sognati. Odori invitanti, prima di cena si è sempre più deboli, dove il classico grasso di montone, prima unico profumo acre della Città, si mischia a mediterranee spezie con influenze tandoori. Tutto, o quasi, secondo copione. Si guarda tutto senza notare niente. È come riposare gli occhi dopo il Battesimo di Piero che assorbe tutta la concentrazione disponibile per un’opera che non si vedrà mai completamente.

Quasi tutto scontato senza la sgradevole aspettativa di vedere tragici aspetti della povertà che segue con triste e rassegnata disperazione i flussi di giapponesi scattanti e di italiani elegantemente disponibili.  Quasi tutto.  L’angolo della lirica, come da copione, produce forti accordi e scale non perfette ma di sicuro impatto su un pubblico che vuole vedere chi ripete arie lontane. Forte potere della lirica, con magari un bicchiere di vino in mano e vicini, questo si che importa, a chi senza sforzo apparente coinvolge con espressioni diverse da quelle abitualmente olograficamente trasmesse. Un inchino e via alla ricerca di qualche moneta, magari preferendo gli spettatori più fermi, meno rapidi nel dileguarsi alla fine del brano. O solo favorevoli a ripagare con poco tantissimi ricordi. Tanta gente che cambia espressione durante e alla fine della musica.

Solo che in più c’è lei. Capelli sciolti e precocemente bianchi. Quasi pettinati e non troppo ambiguamente stopposi. Non vecchia. Forse meno di cinquanta, mal portati. Scialle trascuratamente coprente un gilè che ha visto antichi lucenti colori e una gonna sfrangiata non per moda. Scarpe da tennis, ormai giocato solo da altri, azzurrine con strisce di bianco sporco. Una forchetta in mano che pesca in un lungo, rettangolare contenitore di alluminio. Cibo di dubbia consistenza che viene portato negligentemente alla bocca. Non guarda altro che i cantanti. Vicino a sedicenti signore con borsa griffata ma acquistata da giovani abbronzatissimi venditori in spiaggia, sembra rivivere le sensazioni svegliate dalla Traviata accompagnando i passaggi con lievi movimenti del piede e con un accenno di canto silenzioso con un sorriso svagato.

Gli occhi seguono con dolce e lacrimante sguardo le immagini che la riportano lontano, a speriamo felici istanti di una non lontana giovinezza. Una decisa e ineliminata eleganza la fa muovere esternamente a quanto accade. Mentre Carmen ricorda che l’amore non può essere che totale ed esclusivo, bisogna farsi forza per allontanarsi da una scena troppo coinvolgente. Un po’ di trucco e la mimica hanno ricreato un’altra spezzettatura di vita.

Non bisogna seguirla mentre, girato l’angolo, si dirige verso castelli fatati su zucche che non si trasformano troppo facilmente. Si resta sulla terra, altro sogno per vivere ancora.

*Fisico. Università di Cagliari. Narratore

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