I pericoli dello scientismo. Una controversia su agricoltura biologica, OGM ed ecofemminismo [di Silvana Galassi e Carlo Modonesi]

https://www.micromega.ne t28 Gennaio 2022 Silvana Galassi e Carlo Modonesi criticano alcune affermazioni contenute in un articolo di Silvano Fuso pubblicato su MicroMega (“Mente, pseudoscienza e società”). La replica dell’autore.

In questo travagliato periodo di pandemia ci siamo resi conto di quanto la comunicazione scientifica chiara, obiettiva e indipendente sia merce rara. Cinghia di trasmissione tra sapere scientifico e cultura di massa, la comunicazione della scienza dovrebbe godere di un peso maggiore in tutti i mezzi di informazione, assumendo un ruolo di formazione e aggiornamento permanenti.

Sebbene non sia facile prendere le distanze dalle proprie convinzioni ideologiche e da visioni di parte, è auspicabile che coloro che comunicano il sapere scientifico facciano uno sforzo di obiettività basata su fatti documentabili, evitando le conclusioni affrettate dovute a mancanza di evidenze consolidate o a informazioni non aggiornate, evitando di fomentare pregiudizi e contrapposizioni come quelli che hanno connotato il dibattito sui più svariati argomenti, buon ultimo in ordine temporale quello della pandemia.

Ogni contrapposizione, in fondo, nasce dalla convinzione della propria superiorità rispetto alla controparte del momento. Alla radicalizzazione dei dualismi contribuiscono sia le cosiddette fake-news sia l’atteggiamento scientista di molti professionisti che si ergono a “esperti” competenti in qualunque materia. Gli scientisti hanno una concezione dogmatica della scienza e considerano pseudoscienze tutte le espressioni di conoscenza che contrastano con le loro convinzioni.

Avere un atteggiamento scientista significa coltivare un’idea statica e trascendente della scienza: in pratica, una sorta di caricatura della realtà che porta a percepire come “immutabili” conoscenze e spiegazioni scientifiche superate non solo dal tempo ma anche dal buon senso (che nella scienza è essenziale) e si accontenta di perseguire un’immagine de-problematizzata del lavoro di ricerca, arrivando a banalizzarne contenuti e metodi. Naturalmente, questo non implica che ciò che è nuovo sia automaticamente giusto e ciò che è vecchio sia automaticamente sbagliato.

Si tratta piuttosto di imparare a discriminare tra “giusto” e “sbagliato” guardando alla qualità del lavoro scientifico, ovvero cercando di attivare capacità critica e obiettività per metterle al servizio di una vera cultura scientifica, individuale o collettiva che sia. In fondo, questo atteggiamento è molto simile a quello che si riserva alle arti, alla letteratura, a molte discipline sportive, e sempre più spesso al lavoro dell’idraulico, del falegname o di qualsiasi altro artigiano. In altre parole, se un lavoro è ben fatto (un tempo si utilizzava la formula “a regola d’arte”) resta ben fatto a prescindere da quando è stato realizzato e dalla categoria di attività a cui fa riferimento (arte, scienza, letteratura, artigianato, ecc).

Il tasto dolente è che nel mondo scientifico lo scientismo imperversa ancora ovunque e sembra essere perfettamente a suo agio nel suo ruolo di ideologia portante del mondo globalizzato, in altri termini, del mondo svuotato dalle sue molteplici identità e dalla sua complessità. A ben guardare, lo scientismo non è altro che una distorsione cognitiva della scienza, che è tipica di chi è rimasto per troppo tempo chiuso nella propria “stanza” scientifica e si è scordato perché vi è entrato, con il risultato che ora confonde quella stanza con il mondo reale. Come ricercatori ma anche come semplici cittadini, alle pretese della vulgata “scientista” della scienza ci piace replicare con le parole del grande filosofo e matematico Pavel Florenskij, che nel suo saggio Lezione e Lectio (1917) scriveva:

Quanto alla fermentazione della psiche, essa consiste nel gusto per il concreto acquisito per contagio; consiste nella scienza di saper accogliere con venerazione il concreto, nella contemplazione amorosa del concreto. Del resto quest’ultimo, il concreto, è inteso qui nel senso dell’oggetto stesso della ricerca scientifica diretta, nel senso di fonte prima, che si tratti di una pietra o di una pianta […]. Questa gioia del concreto, questo realismo si manifesta in negativo come insoddisfazione interiore (non formale) per qualsiasi opinione intermedia sull’oggetto, che congeli l’oggetto e cerchi in ogni modo di spingere l’oggetto lontano dal centro dell’attenzione per mettersi al suo posto. L’aspirazione a vedere con i propri occhi, a toccare con le proprie mani la fonte prima è ciò che fa nascere, appunto, l’atteggiamento scientifico, che è ben diverso dall’erudita dossografia, la descrizione delle opinioni altrui.

Data questa premessa, riteniamo doveroso confutare alcune affermazioni contenute nell’articolo di Silvano Fuso, apparso sul n.6 del 2021 di MicroMega dal titolo “Mente, pseudoscienza e società”, in cui sono stati trattati molti argomenti di grande attualità con l’obiettivo di tracciare una linea di demarcazione tra scienza e pseudoscienza. Curiosamente, pur riconoscendo che a causa del bias di conferma si è spesso portati a considerare prevalentemente le evidenze che confermano le nostre idee pregresse, l’Autore sembra cadere proprio nella stessa trappola quando affronta gli argomenti dell’agricoltura biologica, degli OGM e dell’ecofemminismo.

Nel primo caso, a supporto dell’ipotesi della scarsa efficienza delle coltivazioni biologiche rispetto a quelle industriali, porta l’esempio della decisione del governo dello Sri Lanka di convertire al biologico le coltivazioni di cannella e tè che avrebbe determinato un disastro economico.

Per quanto ne sappiamo, la messa al bando dei fertilizzanti e dei pesticidi di importazione fu una decisione repentina del Presidente Gotabaya Rajapaksa che intendeva favorire il turismo creando l’immagine di un Paese pesticide free, senza tuttavia avere calcolato che per passare dall’agricoltura industriale a quella basata su metodi biologici servono anni di paziente attesa e competenze adeguate: due proprietà che evidentemente difettano nei programmi politici di gran parte degli stati a livello mondiale. Ciò senza contare che la crisi prodotta dalla pandemia di COVID-19 ha sicuramente contribuito al disastro economico del paese mettendo in ginocchio soprattutto il settore turistico.

Potremmo portare numerosi esempi di successo di introduzione di pratiche di agricoltura organica o biologica, ma riteniamo che l’obiezione più solida da rivolgere a coloro che si ostinano a sottovalutare queste pratiche consista nel ricordare che le agricolture biologiche e contadine sono quelle che attualmente nutrono il 70% della popolazione mondiale.

Esse si ispirano a modelli di produzione a “basso impatto”, che misurano la propria efficienza impiegando criteri di sostenibilità, che risparmiano risorse importanti come l’acqua e l’energia, e non distruggono i prodotti della terra per tenere alti i prezzi come facciamo noi occidentali. Il principio sta quindi nel capire qual è il rapporto tra gli input esterni (lavoro, energia sussidiaria, acqua, fertilizzanti, pesticidi, ecc.) e le rese.

Anche se per la maggioranza degli europei e dei nord-americani l’idea di agricoltura coincide con quella dell’agricoltura industriale (detta anche “convenzionale”), esiste ormai una notevole casistica di agricolture altamente efficienti e produttive che nel complesso vanno sotto il nome di agricoltura ecologica o agroecologia.

L’agroecologia fornisce semplici criteri di base per adattare le colture ai territori in tutte quelle aree del mondo che promuovono la sovranità e la sicurezza alimentare, mettendo in cima agli obiettivi la lotta alle cause primarie della denutrizione e della malnutrizione. Si tratta dunque di agricolture non formalizzate e slegate dai circuiti convenzionali di quell’agribusiness le cui filiere si fondano su modelli produttivi mutuati dalla produzione industriale.

Dove praticate, queste agricolture hanno sempre dimostrato un alto livello di sostenibilità sul lungo periodo perché hanno una minore dipendenza dagli input esterni dell’agricoltura convenzionale, incluse le relative procedure di miglioramento genetico delle piante. L’agroecologia, inoltre, evidenzia una performance decisamente migliore rispetto all’agricoltura convenzionale nel contrasto alla povertà delle zone rurali dei paesi poveri, garantendo peraltro una minore vulnerabilità alle fluttuazioni economiche e all’instabilità climatica.

La presa di coscienza del contributo fondamentale che l’agroecologia può fornire alla sicurezza alimentare nell’ambito di scenari di cambiamento climatico e di emergenza economica ed energetica ha permesso di raccogliere un largo consenso in tutti i continenti, attirando l’attenzione di istituzioni e centri di ricerca. Fonti ufficiali internazionali affermano che per sfamare i circa 10 miliardi di persone che vivranno sulla Terra nel 2050 vi è un urgente bisogno di adottare sistemi di produzione agricola più efficienti e meno dispendiosi in termini di consumo di materia ed energia.

Una sfida essenziale del futuro sarà quella di impiegare strumenti, procedure e tecnologie di coltivazione delle piante e di allevamento degli animali coerenti con la crescente domanda di equità sociale e di contrasto al cambiamento climatico. Alla luce dei dati disponibili a oggi, che mostrano un mondo caratterizzato dalla diminuzione di terre coltivabili e dal loro utilizzo mirato prevalentemente alla produzione di biocarburanti e di mangimistica zootecnica per la produzione di carne destinata ai paesi ricchi, oggi si può ben dire con spirito pragmatico che il modello produttivo agroecologico è quello dotato dei migliori requisiti di efficienza e sostenibilità per soddisfare le esigenze alimentari, le sfide sociali e i problemi ambientali del futuro.

In un altro passaggio, che ha destato la nostra attenzione insieme a non poche perplessità, Fuso afferma che “l’opposizione agli OGM appare totalmente ideologica, priva di evidenze fattuali e animata unicamente da un sentimento di sacralità della natura che ha un che di fideistico e metafisico: la natura è perfetta e guai a modificarla”. Al di là della constatazione che quello della sacralità della natura non appare affatto un sentimento così deprecabile, non è dato sapere quali siano i pilastri del pensiero antropologico e sociologico a supporto di asserzioni così granitiche come quelle riportate nell’articolo di Fuso.

Quello che invece risulta molto chiaro e al tempo stesso disarmante è la loro distanza siderale da un dibattito sugli OGM molto serio e profondo che parte negli anni Settanta, guarda caso su iniziativa della comunità scientifica, e che grazie all’onda lunga della Conferenza di Asilomar (1975), della Convenzione sulla Biodiversità di Rio de Janeiro (1992) e del Protocollo sulla Biosicurezza di Cartagena (2000), non si è mai sopito e ancora oggi è di grande attualità. Gli elementi di concretezza trascurati dall’Autore, dunque, paiono un po’ troppo numerosi e un po’ troppo importanti per prendere sul serio le sue valutazioni sulle “motivazioni ideologiche” di chi si dichiara contrario alle coltivazioni transgeniche e sulle “evidenze fattuali” in materia di OGM.

Oltretutto, se è vero che sugli OGM incombono incertezze e perplessità che non sono ancora state definitivamente sviscerate (per esempio la questione della brevettabilità dei semi ingegnerizzati e le relative ripercussioni giuridiche, scientifiche, economiche, sociali, ecc.), è vero anche che attualmente possiamo contare su una letteratura specialistica piuttosto ricca e di eccellente livello che documenta una serie di impatti negativi dovuti al rilascio in ambiente aperto di piante transgeniche.

D’altra parte, se il settore agroalimentare dovesse fare affidamento sulle promesse future delle monocolture transgeniche, avremmo perso l’occasione (forse l’ultima!) per trasformare concretamente l’agricoltura in un’attività sostenibile sotto molti punti di vista, capace cioè:

– di fornire cibo nutriente e genuino in ogni angolo della Terra,
– di abbattere gli enormi costi ambientali e sanitari delle coltivazioni industriali e geneticamente modificate,
– di affrancare gli agricoltori e il territorio dall’impressionante carico di input chimici, idrici ed energetici,
– di ridurre significativamente le emissioni climalteranti,
– di invertire il trend di grave erosione della biodiversità che coinvolge ormai le aree naturali dell’intero pianeta.

Immessi sul mercato negli anni Novanta con la promessa di debellare la fame nel mondo, i semi geneticamente modificati (GM) hanno in gran parte disatteso le aspettative perché soia e mais, le principali produzioni edibili, sono oggetto di scambio sui mercati internazionali dominati da grandi imprese multinazionali certamente più interessate ai loro profitti che alla lotta alla fame nel mondo e alla sostenibilità delle filiere agricole. Gran parte della soia, che da sola occupa il 78% della superficie coltivata con piante GM, non finisce nel piatto dei poveri del Sud del mondo ma è destinata alle forniture mangimistiche dell’allevamento industriale.

Il Golden rice, un’altra pianta GM alla quale fa riferimento Fuso nel suo articolo, avrebbe dovuto risolvere il problema della VAD (Vitamin A Deficiency), una forma di cecità dovuta alla carenza di vitamina A di cui soffrono milioni di bambini nei paesi asiatici. Con tecniche di ingegneria genetica sempre più evolute si è cercato di introdurre nel riso il gene per la sintesi del ß-carotene, precursore della vitamina A.

Tuttavia, piantagioni su vasta scala di queste varietà di riso GM non sono ancora state avviate, non solo per l’opposizione degli ambientalisti e dei contadini che intendono difendere le piante autoctone, ma anche per il fatto che la carenza di vitamina A è solo uno dei sintomi della malnutrizione di cui soffrono molti bambini di quella parte del mondo. Nel 2021 il governo delle Filippine ha autorizzato la coltivazione e il commercio del Golden Rice. Staremo a vedere con quali risultati.

Queste piante non possono essere coltivate nel nostro Paese, mentre nella maggior parte dei Paesi del mondo in cui è possibile coltivarle esse sono regolamentate e valutate per tutelare la cosiddetta safety umana, animale e ambientale. Onde evitare i rischi di ricadute ambientali e sanitarie dovute alle coltivazioni GM, la normativa dell’Unione Europea prevede formalmente l’applicazione del Principio di Precauzione.

Va osservato che i rischi generati dal rilascio in ambiente aperto di dispositivi biotecnologici per i quali le nostre informazioni sono scarse implicano inevitabilmente un alto livello di incertezza. Accettare l’incertezza significa essere consapevoli che non è possibile prevedere il comportamento di un fattore di rischio con una precisione soddisfacente, soprattutto se il danno potenziale non ricade in nessuna delle categorie di rischio storicamente conosciute. In altre parole, l’incertezza dipende sia dall’indeterminatezza intrinseca dell’eventuale fattore perturbante, sia dalla possibile fallacia delle nostre conoscenze nel prevedere gli eventi futuri.

La maggior parte delle piante GM viene coltivata negli Stati Uniti dove il Principio Precauzionale ha avuto scarsa applicazione in campo agronomico. Anche per l’adozione delle soglie di sicurezza dei fitofarmaci nelle acque destinate al consumo umano la Commissione Europea si ispirò al Principio di Precauzione, fissando concentrazioni soglia che erano le più basse possibili, compatibilmente con le capacità di rilevamento analitico. L’intendimento era quello di salvaguardare le risorse idriche e di garantire la massima protezione della salute dei cittadini. Negli Stati Uniti furono fissate concentrazioni soglia composto per composto, alcune delle quali risultarono notevolmente più elevate di quelle in vigore in Europa.

Per quanto riguarda l’ecofemminismo, è vero che Carolyn Merchant, Vandana Shiva, Maria Mies e molte altre autorevoli esponenti di questa corrente di pensiero criticano il modello capitalista patriarcale dominante nei Paesi industrializzati, ma non è vero che vi contrappongono un ritorno all’economia di sussistenza, come afferma Fuso. Ritengono, piuttosto, che l’applicazione del modello occidentale ai Paesi del Sud del mondo abbia causato enormi danni ambientali che hanno avuto ripercussioni negative soprattutto sulle donne che maggiormente praticano l’economia di sussistenza.

Siamo convinti che il progresso scientifico-tecnologico ha portato molti vantaggi alle donne della parte più ricca del Pianeta, ma l’uso degli strumenti della tecnologia in modo acritico e irrispettoso dell’ambiente ha contribuito ad aumentare le disuguaglianze di genere e tra Nord e Sud del mondo. Non si tratta di contrapporre visioni pseudoscientifiche al progresso tecnico-scientifico ma di considerare che esistono molteplici saperi e che andrebbero valorizzati non solo quelli funzionali all’economia capitalista-patriarcale ma anche quelli sperimentati da popolazioni che hanno trovato il modo di vivere in maggiore armonia con la Natura.

Abbiamo voluto scrivere questo articolo non per amore di polemica ma perché, in questo periodo di pandemia da coronavirus ci stiamo sempre più convincendo dell’importanza della limpidezza della divulgazione scientifica. Se i cittadini fossero informati correttamente e stimolati a documentarsi su argomenti di interesse comune, come quelli riguardanti la salute, l’ambiente e l’agricoltura, sarebbero maggiormente motivati ad adottare comportamenti virtuosi e responsabili a beneficio proprio e della collettività di cui fanno parte.

***

La replica di Silvano Fuso

Ringrazio innanzitutto i due lettori, Silvana Galassi e Carlo Modonesi, per l’attenzione che mi hanno dedicato e per la cortesia con la quale espongono le loro osservazioni.

Sulla parte introduttiva del loro intervento, non posso che essere d’accordo al 100%. Lo scientismo è una degenerazione di quello che dovrebbe essere il vero spirito scientifico. Considerare immutabili le affermazioni scientifiche significa non aver compreso cosa la scienza sia e aver completamente perduto di vista la prospettiva storica in cui essa si sviluppa. Si tratta di tematiche nei confronti delle quali sono molto sensibile e alle quali ho sempre cercato di prestare la massima attenzione nella mia opera di docente e di divulgatore.

Sono inoltre perfettamente consapevole del fatto che nessuno di noi (e quindi io per primo) è immune dal bias di conferma che tende a farci attribuire maggior peso a ciò che conferma le nostre convinzioni e a trascurare invece ciò che le contrasta. Proprio questa consapevolezza mi induce a sforzarmi di cercare di essere il più obiettivo possibile nella costruzione e nell’esposizione del mio pensiero. Ritengo inoltre che, a questo proposito, sia estremamente utile uno scambio di idee onesto e civile come quello che stiamo attuando.

Detto questo, non credo che definire pseudoscientifiche certe posizioni derivi “dalla convinzione della propria superiorità rispetto alla controparte del momento” o dal fatto che tali posizioni contrastino con le proprie. Come ho scritto nell’articolo “Mente, pseudoscienza e società”, al di là del difficile problema epistemologico della loro demarcazione, ciò che può aiutare a distinguere tra affermazioni scientifiche e pseudoscientifiche è il controllo della loro efficacia. E per controllare l’efficacia l’unica strada percorribile è il confronto con i fatti.

Prima di entrare nel merito degli argomenti sui quali i lettori esprimono le loro obiezioni (agricoltura biologica, OGM ed eco-femminismo), consentitemi un’osservazione. Galassi e Modonesi, a un certo punto ed en passant, affermano “che quello della sacralità della natura non appare affatto un sentimento così deprecabile”. Secondo me questo è un punto importante e dirimente. Se si accetta la legittimità della sacralizzazione di qualche cosa, diventa infatti estremamente difficile instaurare una discussione razionale e si cade inevitabilmente nell’ideologia.

Personalmente ritengo che quando si parla di questioni ambientali questo rischio sia purtroppo piuttosto diffuso. La tutela dell’ambiente è una cosa importantissima, ma deve essere basata su argomentazioni razionali, senza sacralizzazioni e senza ideologie. Vorrei citare a questo proposito l’onestà intellettuale dell’ultracentenario punto di riferimento ambientalista James Lovelock (n. 1919). Il padre dell’ipotesi di Gaia, dopo aver assunto in passato posizioni molto radicali nelle battaglie ambientaliste, in una intervista del 2012, con molta onestà intellettuale, ha fatto autocritica, dichiarando:

Accade che la religione verde abbia preso il posto della religione cristiana. […] Non credo che la gente se ne sia accorta, ma essa ha acquisito la terminologia tipica delle religioni. I verdi usano il concetto di colpa. Questo mostra il loro carattere religioso. […] Una cosa che essere scienziato mi ha insegnato è che non si può mai essere certi di nulla. Non si conosce mai la verità. Ci si può solo avvicinare e io spero, ogni volta, di avvicinarmi un po’ a essa, in un processo iterativo [1].

Premesso questo, veniamo alle obiezioni espresse da Galassi e Modonesi sui singoli argomenti (mi scuso per l’inevitabile sinteticità delle mie repliche, ma resto disponibile per eventuali ulteriori approfondimenti).

1) Riguardo all’agricoltura biologica, nell’articolo, per evidenti ragioni di spazio, mi sono limitato ad alcuni cenni. Ma le obiezioni razionali che si possono fare all’agricoltura biologica sono numerose. Ho cercato di sintetizzarle in questo altro mio articolo. Al di là dell’esempio dello Sri Lanka da me citato, di per sé piuttosto significativo, nell’articolo “Mente, pseudoscienza e società” facevo riferimento anche al recente studio della Commissione Europea circa le conseguenze della cosiddetta strategia Farm to Fork (F2F).

Questo studio mostra chiaramente l’insostenibilità dell’agricoltura biologica e rende del tutto improponibile pensare di convertire il 25% dell’agricoltura europea ad agricoltura biologica. Figuriamoci cosa accadrebbe se lo si facesse a livello mondiale, come auspicato da molti. Per un commento approfondito (scritto da esperti del settore agronomico) sullo studio europeo, rimando i lettori a questo link.

Francamente stupisce leggere che Galassi e Modonesi credano davvero “che le agricolture biologiche e contadine sono quelle che attualmente nutrono il 70% della popolazione mondiale”. Si tratta di un’affermazione fuorviante che può creare una grossa confusione in chi legge. Può infatti indurre a pensare che l’agricoltura biologica nutra il 70% della popolazione mondiale. Niente di più falso!

È vero che la FAO afferma che le aziende “a livello familiare rappresentano oltre il 90% di tutte le aziende agricole mondiali e producono circa l’80% – in termini di valore – del cibo consumato al mondo”[2]. Le aziende familiari però non necessariamente sono piccole: possono anche essere di decine, centinaia o migliaia di ettari. “Agricoltura contadina” è poi una curiosa tautologia, come dire “agricoltura agricola”.

Se con tale espressione si intendono le piccole aziende (con superficie inferiore a 2 ettari), esse occupano il 24% della superficie agraria lorda mondiale e contribuiscono per il 28-31% alla produzione agricola mondiale[3]. Le aziende che producono biologico occupano l’1,5 % della superficie agricola[4]. Si può ragionevolmente dedurre che le aziende bio contribuiscono per meno dell’1% al cibo globale!!

Ricordo infine a Galassi e Modonesi che la percentuale della popolazione mondiale al di sotto della soglia di sicurezza alimentare è scesa dal 50% del 1945 al 10% odierno. La causa di questo vistoso calo? La cosiddetta rivoluzione verde di Norman Ernest Borlaug (1914-2009), che venne insignito del premio Nobel per la pace nel 1970 con la seguente motivazione: “Più di ogni altra persona del nostro tempo ha aiutato a dare il pane ad un mondo affamato. Noi abbiamo fatto questa scelta nella speranza che provvedendo al pane si darà pace a questo mondo”.

I cali di resa nella produzione biologica vanno dal 20 al 70% (a secondo della coltura) e si ripercuotono inevitabilmente sui costi finali pagati dai consumatori. Inoltre, per garantire la stessa produzione finale, occorrerebbe aumentare a dismisura le superfici coltivate, con inevitabile impatto sull’ambiente naturale.

2) A supporto delle mie affermazioni sugli OGM non vi è alcun “pilastro del pensiero antropologico e sociologico”, ma semplicemente una sintesi dei dati scientifici, disponibili proprio nella “letteratura specialistica piuttosto ricca e di eccellente livello” di cui parlano Galassi e Modonesi. Dati estremamente abbondanti, visto che, come ricordano correttamente Galassi e Modonesi, il dibattito sugli OGM è iniziato fin dagli anni settanta. Se i lettori volessero approfondire la conoscenza di questi dati, oltre al testo di A. Meldolesi da me già citato nell’articolo (uno dei primi ad affrontare razionalmente l’argomento), posso consigliarne altri due, molto ben documentati: Defez, Il caso OGM. Il dibattito sugli organismi geneticamente modificati, Carocci, Roma 2016 e D. Bressanini, OGM tra leggende e realtà. Alla scoperta delle modifiche genetiche nel cibo che mangiamo, Zanichelli, Bologna 2018. Questi dati, condivisi dalla comunità scientifica, confermano ampiamente che l’opposizione agli OGM è puramente ideologica.

3) Riguardo all’eco-femminismo, non posso che confermare quanto già ho espresso nell’articolo, sia pure sinteticamente. Credo inoltre che sia sotto gli occhi di tutti un’evidenza inconfutabile: i paesi nei quali le donne hanno raggiunto il maggior livello di emancipazione sono quelli a maggior sviluppo tecnologico ed economico.

Riguardo ai “molteplici saperi” “sperimentati da popolazioni che hanno trovato il modo di vivere in maggiore armonia con la Natura”, non dubito che in certe realtà geografiche alcune popolazioni abbiano sviluppato conoscenze e strategie di sopravvivenza consone al loro ambiente naturale. Ma si tratta di modalità di sopravvivenza e standard di vita che difficilmente potrebbero essere accettate dal resto del mondo. Ad esempio, la loro aspettativa di vita alla nascita è incomparabilmente più breve della nostra che, grazie al progresso tecnologico, è quasi raddoppiata negli ultimi cento anni.

Evocare modelli di vita del passato appare un’anacronistica riproposizione del mito del buon selvaggio, corrotto dalla società e dal progresso. Anche se può apparire suggestivo e se periodicamente ricompare nella storia, si tratta appunto di un mito che non corrisponde a nessuna situazione reale né passata, né presente.

NOTE

[1] L. Goldstein, “Green ‘drivel’ exposed. James Lovelock is a world-renowned scientist and environmentalist”, Toronto Sun, 23 giugno 2012: http://www.torontosun.com/2012/06/22/green-drivel;

[2] https://www.fao.org/news/story/it/item/1195931/icode/;

[3] Si veda: V. Ricciardi et al., “How much of the world’s food do smallholders produce?”, Global Food Security 17, 64-72, 2018: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2211912417301293 (Ringrazio Luigi Mariani per la segnalazione);

 

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