A proposito della discussione tra Murgia e Tagliagambe [di Stefano Puddu Crespellani]

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È importante non perdere di vista quale è l’obiettivo ultimo del confronto dialettico: che è, per un verso — come giustamente ricorda Silvano Tagliagambe —, quello di avviare processi che favoriscano una “comunità coesa”, sulla base di valori condivisi; ma è anche, e soprattutto, quello di affrontare una situazione estremamente degradata, di sofferenza fortissima, sul piano sociale, economico e politico, che vive il nostro popolo, per poter formulare idee e proposte valide, che però non siano la riproposizione stanca e rituale di vecchie ricette ormai note, i cui risultati sono appunto lo sfacelo che stiamo contemplando.È pur vero che le politiche concrete dei governi regionali si sono mantenute, fino ad oggi, al di sotto dei margini di azione consentiti dal testo statutario; in questo senso, ci sarebbe un potenziale di miglioramento perfino all’interno di questa prospettiva. Il problema è capire quanto sono ampi questi margini, ovvero a quali inciampi legislativi e burocratici sono soggetti, e in che misura, soprattutto, sono in grado di rispondere alle necessità dei sardi.


Come è risaputo, le pastoie sono dei legacci che non impediscono del tutto all’animale di muoversi; gli consentono altresì dei piccoli spostamenti, generalmente lenti e disagevoli, nel perimetro della recinzione che gli è stata predisposta, ma escludono la corsa e il salto, cioè le uniche forme di movimento che, a buon diritto, per un animale possono chiamarsi libere. C’è poi quel curioso fenomeno per il quale un capo di bestiame, se viene tenuto impastoiato in modo permanente per un periodo sufficientemente lungo, alla fine introietta questo impedimento nel proprio schema corporeo, per cui rinuncia a correre e a saltare anche nel caso in cui le pastoie gli vengano tolte.

La riflessione di Michela Murgia sulla struttura dei vincoli, cioè sulle “regole del gioco” —i meccanismi di potere all’interno di una relazione, anche istituzionale—, ci aiuta a capire due cose: la prima, che in una situazione strutturalmente caratterizzata dalla dipendenza, parlare illusoriamente di autonomia serve piuttosto a disattivare il potenziale di autostima e le capacità di autogoverno di quella comunità, sfociando nell’arrivismo, nell’uso clientelare del potere, nell’inefficacia e nel cinismo da parte di chi (s)governa, e nel fatalismo, nel disincanto, nella passività e nella rabbia da parte di chi si sente politicamente abbandonato e escluso —sentimento ormai condiviso da una maggioranza—. (Il quadro deprimente offerto dall’assessore Maninchedda è un ritratto della fase terminale di questo lungo processo di degradazione sistemica vissuto dalla Sardegna, che non potendo essere “autopoietica” diventa autodistruttiva).

La seconda, altrettanto rilevante, è che l’idea di “autonomia”, pur correttamente intesa (in senso autopoietico), non è sufficiente, da sola, a invertire la tendenza e offrire alla comunità una prospettiva di riscatto, se non vengono rinegoziate le regole su cui si basa lo squilibrio gerarchico. E per rinegoziare queste regole, è certamente di grande aiuto disporre di una prospettiva teorica che si ponga “oltre” il sistema delle regole, per noi definite dal quadro statutario attuale. Mi sembra che stia qui l’elemento di interesse che l’ipotesi indipendentista può offrire: perché, nel processo di negoziazione delle regole, si può anche stare, per un tempo, con i piedi dentro il campo di gioco; ma la mente deve essere già fuori.


Comunque sia, l’idea del “non dipendentismo”, cioè la volontà di ridurre le dipendenze della Sardegna rispetto all’Italia su una serie di problematiche concrete, indica un percorso su cui è possibile trovare dei consensi inediti tra un ampio numero di sardi. Per farlo, però, bisogna essere disposti ad uscire dalle proprie “zone di confort”, dai recinti di sicurezza a cui abbiamo ristretto il nostro raggio d’azione. Per me implica anche l’abbandono delle ali protettrici delle grandi coalizioni politiche italiane che, con larghissimi margini di intesa, hanno fatto scempio della Sardegna e del suo territorio fisico e politico negli ultimi decenni.

Forze che si sono blindate all’interno delle istituzioni e a cui i sardi, non si sa se per rassegnazione o per ottundimento, continuano ad affidare le proprie sorti. Anche di questo bisogna continuare a parlare. E bisogna farlo in spazi esterni ad esse, perché non abbiamo ancora visto, né a destra né a sinistra, alcuna dirigenza politica capace di assumere i propri errori e di farsi da parte, volontariamente, per favorire nuovi processi che possano giovarsi della loro assenza per riuscire a svilupparsi favorevolmente.

One Comment

  1. RITA PIRISI

    Discorso giusto da seguire ,e rispettare,soltanto tutti uniti potremo fare grandi cose.

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