Oltre la questione curda, le pretese di Erdogan [di Nicolò Migheli]

I Paesi con un passato imperiale vivono di eccezionalismo. Si sentono portatori di una missione che vorrebbe essere universale. Non accettano le sconfitte che la Storia ha inferto loro, lo spirito revanscista è parte della loro cultura. Perché questa viva deve nutrirsi di vittimismo, loro sono stati privati dalla grandeur per colpe altrui. Non è un problema che riguarda solo le élite, è un sentimento popolare diffuso, nutrito da una pedagogia che ha nel nazionalismo e in quell’eccezionalismo, il valore fondante.

Vale per Erdogan come per Putin, che anche se dovessero sparire dalla scena politica, altri li sostituirebbero con le stesse narrazioni. Le analisi sul memorandum trilaterale formato da Finlandia, Svezia e Turchia con cui Ankara ha rimosso il suo veto per l’adesione degli scandinavi alla Nato, hanno posto l’accento sull’ennesimo tradimento occidentale verso i curdi. Tradimento che è cominciato 99 anni fa con la costituzione della Turchia moderna. Un popolo, quello curdo, di 60 milioni di abitanti, senza Stato, diviso tra Turchia, Iraq, Siria e Iran. Tradimento ancor più doloroso oggi, perché avviene dopo che nel Rojava si sono sacrificati combattendo lo Stato Islamico armato e finanziato dai turchi in funzione anti Assad e anti curda. Ankara ne nega persino l’esistenza li definisce turchi della montagna negandone lingua e tradizioni.

Nelle richieste agli scandinavi vi è anche la richiesta di estradizione degli appartenenti al movimento di Fethullah Gülen accusati di aver promosso e attuato il golpe del 2016. Gülen risiede negli Usa che, neanche sotto Trump, ha mai pensato di consegnarlo ai turchi. Per certi versi la questione curda nasconde le ambizioni a tutto campo di Erdogan. Le pressioni su Svezia e Finlandia è solo l’ultimo capitolo.

L’autocrate turco ha davanti a sé una scadenza. Il 2023 è il centenario della fondazione della Turchia. Per quella data era stato immaginato un programma economico che avrebbe consacrato il Paese anatolico nel rango delle grandi potenze. Le varie iniziative militari, dalla guerra in Siria in poi, si sono scontrate con la crisi del tessuto economico. Il potere del Reïs è indebolito da più ragioni.

La condizione economica della Turchia è la peggiore degli ultimi vent’anni. L’inflazione su base annua è arrivata al 69,97% toccando il 7,25 ad aprile rispetto al mese precedente. Sono dati dell’istituto di statistica di Ankara. I numeri reali sarebbero più alti. La presenza di milioni di rifugiati siriani, anche a causa della crisi economica, sta comportando reazioni esasperate in tutto il Paese, tanto che tutti i partiti vorrebbero che in qualche modo rientrassero in patria, anche se questo, per ora, non pare possibile. Erdogan vive una crisi si consensi. L’attivismo in politica estera ha una grande ripercussione in quella interna.

Le questioni aperte con l’Occidente sono molte. Dalla Libia al gas. Il contenzioso con Grecia e Cipro. Il controllo del Mediterraneo Orientale che gli mette contro Francia, Italia, Grecia, Egitto e Israele. Quando la Turchia decise di acquistare i missili S-400 dalla Russia, venne estromessa dal programma degli F-35, inoltre gli vennero applicate dal Congresso Usa le sanzioni che comprendono il bando di tutte le licenze di esportazione nei confronti delle industrie di difesa turche (Sbb). Sanzioni che comportano il divieto di visto per il suo capo Ismail Demir e per altri tre dirigenti dell’ente.

Con lo stesso atto gli Usa hanno bloccato i ricambi per elicotteri e gli F-16. Nel settore della difesa vi è anche un divieto della Germania che in seguito alla guerra in Siria, si è rifiutata di aggiornare i Leopard 2 dell’esercito turco; ha cancellato la vendita dei motori Mtu per il carro Altay. Durante la crisi ucraina Erdogan ha seguito la sua agenda nella speranza di essere il mediatore del conflitto. Da una parte lui non ha smesso di trattare con Putin, le sanzioni sono solo di facciata, l’unica importante è aver bloccato i Dardanelli alle navi miliari russe, applicando la convenzione di Montreux del 1938.

Dall’altra ha continuato a vendere a Kyviv i droni Bayraktar prodotti dall’industria aeronautica del genero. Per l’ultimo motivo l’amministrazione Usa vorrebbe cancellare le sanzioni sugli F-16, ma c’è lo scoglio del voto del Congresso che non sembra propenso alla vendita. Se gli armamenti sono importanti per le ambizioni geopolitiche di Ankara, il punto più delicato è il ritorno degli investimenti americani ed europei.

Il Paese anatolico è strategico per la Nato, anche volendo non può essere cacciato, non vi è articolo che lo preveda. Però bisognerebbe avere il buon senso di ammetterlo e di escludere, in questo caso, la narrativa sui valori visto che il rapporto è transazionale. La Nato, ritrova la sua missione tradizionale, il contenimento della Russia, oggi allargato anche alla Cina con il coinvolgimento delle potenze anticinesi del Pacifico.

I giornali italiani usano toni trionfalistici ma i penalizzati sono i Paesi mediterranei come Italia, Spagna, Francia e Grecia. In Mediterraneo si allarga l’arco della crisi che riguarda le tensioni tra Marocco e Algeria, tra Spagna e Algeria, tra Grecia e Turchia. La Libia e tutto l’entroterra del Sahel sottoposti a pressioni terroristiche e migratorie. La Nato universale, più che un trionfo, è ammettere il declino dell’Occidente a cui si vuole reagire rafforzando strumenti militari ed economici.

Siamo entrati in un mondo multipolare, più insicuro di prima, la concorrenza sulle materie prime, sulle fonti del cibo e sull’acqua si sta facendo più forte che mai.

Occorrerebbero strumenti internazionali di regolazione dei conflitti, ma non sembra il tempo. Il pericolo è la guerra continua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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