L’arte nel cuore: la sindrome di tako-tzubo [di Carla Deplano]

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 “Heartbreak (in Italiano “rottura di cuore”) è una metafora comunemente impiegata per descrivere l’intenso dolore emotivo che si può provare in seguito alla perdita di una persona cara. A parte il significato metaforico esiste, d’altra parte, una condizione conosciuta come brokenheart syndrome, in cui un trauma attiva il cervello per distribuire i prodotti chimici che debilitano il tessuto cardiaco. I sintomi di un “cuore rotto” possono manifestarsi attraverso la sofferenza psicologica, ma per alcuni l’effetto è anche fisico. Ecco cosa si prova esattamente: stretta al torace, sensazione di vuoto completo, inappetenza, insonnia, astenia, nausea, rabbia, nostalgia, apatia, solitudine, perdita di amor proprio e di autostima, depressione, pensieri suicidi. In casi estremi, morte” (da Il vuoto, 2013).

Il cuore, ovvero il grande assente della mostra Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale. Henry Ford Hospital (1932), Il cuore (1937), Le due Frida (1939), Autoritratto con il Dottor Jan Farril (1951): non pervenuti. Sono quelle opere che, insieme alla Colonna rotta, appaiono maggiormente denotative della sofferenza psico-fisica di un’artista che ha saputo sublimare il dolore attraverso un’arte di straordinaria potenza espressiva. Una per tutte, forse in assoluto la più popolare: Le due Frida. La sintesi plastica della rappresentazione stilizzata e aprospettica condensa qui tutto il simbolismo di uno stile personalissimo che mescola l’arte naif e popolare di retablos ed ex voto messicani con le suggestioni europee derivanti dall’avanguardia surrealista e dal primitivismo roussoiano.

Risalente al periodo della separazione dal marito Diego Rivera, è un chiaro rimando all’azione catartica dello sdoppiamento, con l’assimilazione del corpo di Frida al Messico: laddove il popolo è spaccato in due da povertà, rivoluzione e speranze, Frida vive il proprio corpo lacerato, tra la fragilità e la forza, la ricerca d’amore e i pensieri di morte, un cuore pulsante ed uno spezzato. Le due Frida incarnano le sue personalità, quella occidentale e quella messicana. Una indossa abiti di stile europeo, l’altra un costume tehuano, in accordo con lo spirito nazionale che si consolida sempre maggiormente attraverso la rivalutazione della cultura india. Quest’ultima, ancora oggetto dell’amore del marito, porta un medaglione con una foto di Rivera da bambino; l’altra, tradita e abbandonata, sembra bloccare il flusso del sangue con una pinza emostatica come a voler mettere fine al dolore. Invano.


Le due Frida non si guardano, ma si tengono per mano in un gesto confortante e consolatorio, mentre una vena collega i loro cuori esposti, dipinti con dovizia di particolari anatomici. La vita e l’opera appaiono intimamente legate: l’una rimanda costantemente all’altra svelando un dramma personale imperniato sul connubio eros-thanatos. Lo sdoppiamento è il comune denominatore della sua poetica. La dicotomia dell’universo, evidenziata nell’autoritratto con una parte chiara – il giorno – ed una scura – la notte – ovvero il principio maschile e quello femminile (assimilabili ai cinesi Yin e Yang), si ritrova nella sua persona scissa in due figure. E rimanda ai feticci dei riti preispanici dell’antica mitologia messicana, ovvero al dualismo atzeco della lotta tra il dio bianco (personificazione del giorno, dell’estate, del sud e del fuoco) e il suo avversario, il dio nero delle tenebre (personificazione della notte, del cielo stellato, dell’inverno, del nord e dell’acqua), che garantisce l’equilibrio del mondo.


Emerge prepotentemente una scissione psichica tra la Frida che soffre e la Frida che guarda. Le maschere ieratiche ci rivolgono uno sguardo serrato in un mutismo di immagini fortemente espressive che anestetizzano la drammaticità del travaglio interiore attraverso un dialogo silenzioso che non riduce, peraltro, la persona al suo dolore, neanche quando è proprio il dolore il messaggio più esplicito dell’opera. Attraverso la trasfigurazione del dolore nell’arte, una vita disastrata assurge infatti a  celebrazione del dolore stesso in forma di sfida; nella condizione personale riflessa in quella collettiva alla fine siamo sempre restituiti a noi stessi. E come davanti a uno specchio, il sé più intimo si fonde con il sé pubblico.

 

L’essenza e la forza degli autoritratti cancellano il pregiudizio che assimila autoriflessione a vanità, offrendo immagini del sé ben lontane da quella visione  patriarcale che inquadra le donne in primo luogo in termini sessuali. Frida mette in scena sulla tela la realtà interiore soggettiva – il rapporto con il marito, la visione della vita e della morte, il dolore – attraverso l’oggettivazione delle proprie angosce e trasforma la sofferenza privata in una dimensione extrapersonale. La sua interiorità emerge come in un processo catartico di autoanalisi, attraverso la rappresentazione animista di emblemi e metafore di cui si caricano oggetti come i nostri cuori.

*Storica dell’arte

**Foto: Frida Kahlo, Le due Frida (1939)

One Comment

  1. Mariano Bozzaotre

    Penso che tutti noi abbiamo una sorta di doppia personalità e come nel dipinto una parte di noi partecipa al dolore o alla gioia della vita, mentre un’altra parte è più fredda e distaccata.
    Comunque il commento al dipinto è molto bello ed interessante.

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