Un Campiello veronese [di Franco Masala]
No, Venezia non ha trasferito la sua struttura urbana – campielli calli rii – nella città scaligera. Più semplicemente, il teatro Filarmonico di Verona ha messo in scena Il Campiello di Ermanno Wolf-Ferrari, tratta dalla famosissima commedia di Carlo Goldoni. Rappresentata per la prima volta alla Scala di Milano nel 1936, l’ultima composizione del musicista, che ha sempre prediletto il teatro del suo concittadino del Settecento, è un garbato addio a Venezia e alla sua storia come ha sottolineato la messinscena veronese. Quello di Wolf-Ferrari non è però un Settecento di maniera o imitato pedissequamente, bensì un momento storico e musicale filtrato attraverso le novità del primo Novecento e, soprattutto, con riferimento al Falstaff verdiano. Anche qui, infatti, una commedia corale dove nessuno è protagonista ma interagisce di continuo sullo sfondo di baruffe che si risolvono nel finale, caratterizzato dalla struggente melodia di “Bondì, Venezia cara” che ritorna più volte nel corso dell’opera con strumenti e scrittura differenti. Il maestro Francesco Ommassini, veneziano doc, ha appena diretto a Cagliari il giovanile Segreto di Susanna, dimostrando grande congenialità con la musica di Wolf-Ferrari così da metterne in luce raffinatezze strumentali e melanconie vocali e governare benissimo le frequenti scene d’insieme. La compagnia di canto è adattissima alla coralità della vicenda e annovera anche diversi cantanti di madre lingua veneta con una resa perfetta del testo. Le tre ragazze da marito sono Bianca Tognocchi, Sara Cortolezzis e Lara Lagni, capaci di finezze vocali e di recitazione disinvolta. Ad esse corrispondono i tre innamorati impersonati da Gabriele Sagona, Matteo Roma e Biagio Pizzuti (questo canta in italiano in quanto “straniero” rispetto a Venezia) che disimpegnano i loro ruoli con voce e presenza di grande pregio. Ottima la prestazione di Guido Loconsolo quale Fabrizio de’ Ritorti, anch’egli cantante in lingua italiana. Ultime ma non le ultime le tre madri in un insolito terzetto che prevede un mezzosoprano, la valente Paola Gardina, e due tenori en travesti, Leonardo Cortellazzi e Saverio Fiore, bravissimi sia nel canto sia nella caratterizzazione delle due vecie vedove ancora vogliose, rese con grande gusto e, soprattutto, senza mai eccedere in volgarità. Orchestra della Fondazione Arena e coro presente soltanto nel finale, istruito adeguatamente da Roberto Gabbiani. Il regista Federico Bertolani firma uno spettacolo che funziona perfettamente, curando la recitazione dei singoli e governando con perizia le scene di baruffa che coinvolgono tutti i personaggi. Sulla scena unica di Giulio Magnetto, evocante un angolo veneziano con tanto di caratteristico ponticello, si apre durante gli intervalli strumentali uno spazio centrale che attraverso tableaux vivants percorre la storia di Venezia dalla Commedia dell’arte all’acqua alta, Mose compreso, per terminare con la inquietante sagoma di una devastante nave da crociera che suggella il finale, quasi a sottolineare la progressiva deriva turistica della città lagunare. Costumi di Manuel Pedretti di grande riuscita sia per quelli settecenteschi della vicenda sia per quelli legati alle diverse epoche storiche, compresi gli sbracati turisti che accompagnano il finale. Suggestive le luci di Claudio Schmid. Pubblico festante e convinto del sicuro successo, forse anche inaspettato.
*foto Ennevi per Fondazione Arena
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