La schiforma Calderoli e la fine della autonomia sarda [di Carlo A. Melis Costa]

Nel 2006 Calderoli, colto all’uscita di un ristorante, diceva alle telecamere “Prodi mi telefoni e dividiamoci l’Italia”. Ci sono voluti diciotto anni, ma ci siamo arrivati.  Quella approvata dal Senato e in discussione alla Camera è la legge quadro dentro cui realizzare la devoluzione alle Regioni di 23 materie e oltre 500 funzioni – scuola, energia, ambiente ecc. – prevista dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, maldestra manovra del maldestro centro sinistra rutelliano nel maldestro tentativo di togliere armi alla Lega.

In sostanza definisce la procedura delle intese tra governo e giunte regionali (di durata almeno decennale) su quale e quanta autonomia concedere insieme a personale, infrastrutture e soldi relativi. Questi patti a due alla fine vanno in Parlamento, che non può modificarli: solo approvarli o respingerli a maggioranza assoluta. Al centro di tutto ci sono i soldi giacché per gestire le nuove materie le Regioni otterranno una quota di gettito di un’imposta (Irpef, Iva, etc) corrispondente al fabbisogno: i dettagli li decideranno le singole intese e il controllo sarà affidato a una commissione paritetica Stato-Regione. Lo Stato in effetti rinuncia al controllo delle entrate.

Le tre Regioni che hanno già chiesto l’autonomia – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – hanno dinamiche del gettito superiori alla media nazionale. Loro si arricchiscono, gli altri impoveriscono dietro la foglia di fico dei Lep che sono i “livelli essenziali delle prestazioni”, citati nel Titolo V del 2001, che lo Stato deve garantire a tutti.

Il governo li dovrà definire in 14 delle 23 materie “devolubili ” sulla base del lavoro di una Commissione presieduta dal giurista Sabino Cassese e col supporto della Commissione tecnica sui fabbisogni standard (presieduta da una componente della delegazione veneta per l’autonomia). Anche qui Parlamento esautorato: i Lep saranno approvati via Dpcm. Cioè, con decreto della Meloni che ha preteso che prima si finanzino i Lep, poi arriverà l’autonomia. Si vedrà al momento giusto, ma il ddl Calderoli dice che il tutto avverrà “senza nuovi o maggiori oneri”.

Potenzialmente potremmo ritrovarci con 21 diversi sistemi di rapporti tra Stato e Regioni, 21 normative diverse in competizione tra loro: “Non si può escludere uno scenario fortemente frammentato”. Siamo alla fine della autonomia speciale, della solidarietà tra regioni e davanti ad un furto a favore delle regioni del Nord.

L’articolo 5 originario indicava che le risorse per la spesa decentrata sarebbero derivate da “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”. Le ultime quattro parole erano fondamentali: “maturato nel territorio regionale”. Cosa vuol dire? Supponiamo che la Lombardia, per esempio, chieda l’autonomia per l’istruzione e che questa costi nella regione dieci miliardi. In pratica, la Lombardia avrebbe inizialmente ricevuto una quota, per esempio, dell’IRPEF pagata dai cittadini lombardi, per un importo pari a dieci miliardi.

Supponiamo che tale quota fosse del 30%. Da lì in poi, a parità di aliquota, se reddito dei lombardi e relativa Irpef fossero cresciute più rapidamente di quelle delle altre regioni, più soldi sarebbero rimasti in Lombardia. In tal modo, si violava il principio di solidarietà tra le regioni a statuto ordinario per cui tutte (o quasi) le tasse pagate vanno a Roma che le redistribuisce poi su tutto il territorio nazionale.

Se i cambiamenti di aliquota di compartecipazione saranno frequenti, il sistema potrebbe diventare simile a quello della sanità in cui si decentralizza solo la gestione delle risorse, ma non la loro provenienza.

La versione attuale della legge consentirà alla Lega di brindare all’autonomia differenziata, e, al tempo stesso, a Fratelli d’Italia di sostenere che i cittadini di tutte le regioni restano fratelli. Ancora una volta, gli interessi di facciata dei partiti politici hanno prevalso sull’esigenza di avere una legislazione semplice e chiara.

Davvero un ginepraio dove l’autonomia speciale finisce a gambe all’aria. Ma mentre la Sicilia cade in piedi, grazie al suo statuto per impedisce che anche un solo centesimo del reddito prodotto nell’isola passi lo stretto di Messina, la Sardegna subirà uni shock tale da mandare all’aria i servizi essenziali.

Senza contare che senza una riforma dello Statuto, la versione attuale dell’autonomia, infantile e sorpassata, risulta ormai erosa dall’autonomia delle regioni a statuto ordinario .

 

 

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