Perché la nonviolenza riguarda il femminismo [di Monica Lanfranco]

https://www.micromega.net/12 Luglio 2024. Introduzione al libro “Donne che disarmano. Come e perché la nonviolenza riguarda il femminismo”. “Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone.». La frase, contenuta in “Age, Race, Class and Sex: Women Redefining Difference”, è datata aprile 1980, e a pensarla e scriverla, consegnandola a noi, è la poeta attivista femminista nordamericana Audre Lorde. Si tratta di dodici parole, sistemate in questa breve locuzione, che racchiudono il senso profondo della pratica e della visione filosofica e politica della nonviolenza, che Lorde ha sempre intimamente collegato al pensiero incarnato del femminismo. Prendo ancora a prestito un brano del saggio appena citato, perché la riflessione di Lorde, che arriva da oltre quarant’anni fa, illumina un presente che ha enorme necessità di ispirazione:

Il futuro della nostra terra può dipendere dalla capacità di tutte le donne di identificare e sviluppare nuove definizioni di potere e nuovi modelli di relazionarsi attraverso la differenza. Le vecchie definizioni non ci sono servite, e neanche la terra che ci sostiene. I vecchi schemi, non importa quanto riarrangiati intelligentemente per imitare il progresso, ci condannano ancora a ripetizioni modificate superficialmente degli stessi vecchi scambi, della stessa vecchia colpa, odio, recriminazione, lamento, sospetto. Perché abbiamo, costruiti dentro di noi, vecchi tracciati di aspettative e risposte, vecchie strutture di oppressione, e queste devono essere modificate nello stesso momento in cui modifichiamo le condizioni di vissuto che sono un risultato di quelle strutture. Perché gli strumenti del padrone non potranno mai smantellare la casa del padrone. Come mostra così bene Paulo Freire in Pedagogia degli oppressi, il vero obiettivo del cambiamento rivoluzionario non è mai semplicemente la situazione oppressiva da cui cerchiamo di scappare, ma quel pezzo di oppressore che è piantato in profondità dentro di noi, e che conosce le tattiche dell’oppressore, le relazioni dell’oppressore. Cambiamento significa crescita, e la crescita può essere dolorosa. Ma affiliamo la nostra auto-definizione quando ci esponiamo nel lavoro e nella lotta insieme a chi definiamo diversi e diverse da noi, anche se condividiamo gli stessi obiettivi. Per donne nere e bianche, vecchie e giovani, lesbiche ed eterosessuali, allo stesso modo, questo può significare nuove strade per la nostra sopravvivenza.

È inutile negare che queste parole, per molte donne e uomini, suonano belle, sì, ma utopistiche, come quelle ormai famose di Christa Wolf, adottate in molte occasioni dai movimenti per la pace, in particolare da Donne in Nero: «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere». Bisogna essere realisti, si dice; in certi casi non è possibile evitare il ricorso alla violenza, che peraltro è radicata nell’indole della natura umana. Homo homini lupus, sentenziò Plauto nel secondo secolo, ripreso poi nel Seicento da Hobbes, che promosse il pensiero dello stato di natura in cui non c’è spazio per la modifica della ferrea piramide del dominio, nel quale, ovviamente, l’uomo domina sulla donna e sul resto del mondo vivente.

Avere fiducia, avere pazienza, guardare al di là del momento e valutare le conseguenze delle risposte immediate prima di metterle in atto, fare spazio all’attesa, frenare la fretta, non farsi guidare dalla rabbia: questi atteggiamenti non sono maggioritari nella contemporaneità, nutrita quotidianamente da impazienza, iperreattività tecnologica, narcisismo, smemoratezza e ignoranza del passato, anche di quello recentissimo.

Viviamo un presente velocissimo, immemore e senza radici, e per questo sempre più povero, impoverito e pericoloso. In questo libro cercherò, al contrario e in controtendenza, di raccontare fatti, storie e situazioni, lontane e vicine nel tempo, in cui è stato dimostrato dalla fantasia, dal coraggio e dalla tenacia di alcune donne che evitare la violenza sia non solo possibile, ma anche più efficace e vantaggioso per tutte le parti in causa.

L’assunto di base è il seguente: smantellare la logica amico/amica, nemico/nemica. Lo si può fare, ma è necessario studiare, trasmettere, comunicare, ascoltare, usare fantasia e competenze. Le azioni da praticare sono varie: per esempio le strade di dialogo e di conflitto generativo pensate da Donne in Nero; dai movimenti Not in My Name, iniziati dopo l’attentato alle torri gemelle; dalle attiviste indiane seguaci di Vandana Shiva; dalle suore incarcerate in Inghilterra che si opposero alla costruzione dei caccia Hawk 955 a fine anni Novanta del Novecento; da Lisistrata (unica figura femminile nel teatro greco non destinata alla morte e al sacrificio) che fonda la diplomazia contro la guerra maschile e patriarcale partendo dal gesto di filare la lana.

La metafora della tessitura è, ai giorni nostri, usata comunemente per indicare le reti dell’attivismo, della collaborazione sociale, culturale e politica. Ma è rarissimo che si rammenti, anche in ambienti colti e accademici, che la prima a parlare di “tessere reti” è stata proprio Lisistrata, colei che sfidò gli uomini armati perché si sciogliessero gli eserciti e si costruisse la tela della socialità: un tessuto che serve ai corpi reali come, nel simbolico, per la condivisione dello spazio comune.

C’è poi l’interposizione tra le parti in lotta, che mette in gioco i corpi, l’uso di simbologie inoffensive, la resistenza passiva e attiva, il silenzio e l’immobilità a oltranza, il coinvolgimento della popolazione nella difesa popolare nonviolenta del territorio dall’invasione armata, solo per citare alcuni esempi. Ci sono molteplici azioni da intraprendere, e le vedremo insieme.Sono convinta che aperture, più o meno ambigue o possibiliste, verso l’uso della forza o della violenza, giustificata in certi ambiti, siano pericolose perché generano derive incontrollabili, e avallano la possibilità “virtuosa” di una certa dose di violenza “giusta”.

È necessario fare molta attenzione. Un luogo comune, per esempio, è quello secondo cui la violenza che fai tu è quella giusta, una violenza legittima generata dalla rabbia per gli abusi subìti. Riguardo alla “modica quantità” di violenza i fondamentalisti di tutte le religioni la ritengono utile per tenere in riga le donne. Persino nella giurisprudenza si ammette la legittimità di una moderata forzatura sulla donna nel rapporto sessuale, considerando enigmatico il desiderio femminile: vis grata puella, si dice dai tempi dell’impero romano, e quella verità patriarcale è ancora ben radicata nel comune sentire di oggi.

Conservo, in un armadio, da oltre vent’anni, i grandi fogli di carta arrotolati con gli appunti e le mappe delle riunioni dei giorni assolati dell’estate 2001, in cui Hilary McQuie, attivista pacifista usa, ci mostrò, in stridente contraddizione con i proclami testosteronici degli assedi e degli assalti alla zona rossa delle Tute Bianche, che alcune pratiche considerate “molli”, deboli – in definitiva, femminili – erano, nel mondo, le più efficaci, fortemente simboliche e spesso pericolose.

Per esempio: stare in assoluto silenzio, in piedi, in abito scuro, di fronte a monumenti significativi delle città, come nella pratica di Donne in Nero, che in Israele iniziarono così la protesta pacifica e di grande impatto contro l’occupazione militare da parte del loro paese nei territori palestinesi. Dal 1988, ossia dalla loro prima apparizione pubblica, la pratica di Donne in Nero è stata studiata e considerata fondativa ed efficace nel peacekeeping internazionale. Alla base di quella scelta di posizionamento c’è, infatti, il ribaltamento della logica mors tua, vita mea, dove alla vendetta del sangue si sostituisce l’empatia del sangue: vita tua, vita mea.

«Tra uccidere e morire scegliamo la terza via: vivere.». La citazione di Christa Wolf, eletta a sintesi della pratica nonviolenta di Donne in Nero, fu anche il leitmotiv di Punto G (la due giorni femminista a Genova, di cui racconto in Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo) in quel 2001 dove, invece, prevalsero la logica dello scontro e del combattimento. Ma in quante e in quanti veniamo a conoscenza di queste storie, di queste azioni che divergono dalle pratiche aggressive?

Uno dei problemi alla diffusione delle modalità nonviolente, e del pensiero che le sottende, è che l’informazione e la formazione, dalla famiglia alla scuola ai social, raramente, e solo in parte, le raccontano, descrivono e valorizzano, ed è anche per questo che ciò che noi apprendiamo maggiormente sono i progressi impressionanti delle pratiche del dominio e della logica della potenza. Trasmettiamo la logica del dominio, e la facciamo nostra, perché abbiamo pochi elementi per scegliere altre strade, pratiche e visioni.

Se cresciamo figli e figlie, alunne e alunni nella convinzione che la violenza sia l’unico modo per difenderci e ottenere giustizia ecco che la violenza sarà lo strumento principale per primeggiare, affermarsi e relazionarsi. E di frequente insegniamo la violenza in modo inconscio, non facendo attenzione alle parole che usiamo. «Una parola è morta quando viene detta, dicono alcuni. Io dico che comincia a vivere soltanto allora» è il verso di una poesia di Emily Dickinson, che di parole, e del loro uso, si intendeva parecchio.

In questo libro, che vuole mostrare e riflettere su pratiche e pensiero femminista nonviolento, ci sarà molto spazio per le parole. Per l’importanza del loro uso, del loro abuso, di come a esse sia affidato lo straordinario compito di fare o disfare le cose, creando o distruggendo, costruendo pace o guerra; della responsabilità che spesso, senza che ce ne accorgiamo, le parole hanno nella distruzione della nostra e altrui umanità. Di come alle parole, che sembrano talvolta inoffensive ma non lo sono, seguano azioni in grado di portare grande distruzione o grande riparazione e costruzione. Ci sarà un motivo per il quale moltissime storiche, antropologhe, filosofe, giornaliste, scrittrici, studiose femministe focalizzano l’attenzione sull’uso delle parole, e mettono in guardia sulla stretta connessione tra violenza del linguaggio e violenza reale, nelle relazioni quotidiane come nella politica, nella comunicazione mediatica e quindi nel tessuto sociale.

Questo riguarda anche il modo in cui è scritta la parola nonviolenza. Se cercate sul vocabolario la troverete scritta in un solo lemma o anche staccata, con la negazione seguita dalla parola, o magari con un trattino, perché non è scontato che non abbia elementi di separazione. Ma il fatto che sempre più di frequente sia indicata come parola unica è indice di una rivoluzione semantica e simbolica di immensa portata. Coniare una parola con la negazione dinanzi, che quindi contenga anche la sua opposizione: è ciò che accade quando si usa la parola nonviolenza. Comunque la si scriva, nel suo concetto la violenza è presente perché non la si nega: un uomo o una donna che si dicano, sinceramente, nonviolento o nonviolenta vi diranno che il lavoro più duro non è contrastare la violenza esterna, ma la propria.

La parte più difficile è proprio questa. Come lo è stato, e per ogni nuova generazione di donne lo è, appropriarsi della consapevolezza che il privato (di solito la sfera destinata alle donne perché correlata alle relazioni, ai sentimenti, all’emotività) è politico, e far diventare questa verità un dato condiviso anche con gli uomini. La pratica della nonviolenza inizia da casa, dalle relazioni intime e famigliari, prima ancora che nello spazio pubblico. In un paese come l’Italia dove, in media ogni tre giorni, un uomo uccide una donna con la quale aveva una relazione famigliare e affettiva questa considerazione è di grande importanza.

Nonostante le radici delle varie scuole di pensiero nonviolento affondino negli albori della storia umana, e ogni epoca storica e cultura a qualunque latitudine abbia visto uomini e donne cercare soluzioni pacifiche ai problemi che inevitabilmente le relazioni umane creano e vivono, la nostra è una civiltà giovane e ancora immatura di fronte a questo tema.

Giovane ed estremamente fragile: perché la nonviolenza è un percorso, e se persino uno dei padri del pensiero nonviolento italiano, Aldo Capitini, si diceva tendenzialmente nonviolento, lasciando così intendere che questa strada non è mai tracciata una volta per tutte ma che esiste, e ha senso, nella dimensione di ricerca quotidiana, tra acquisizioni e cadute, ecco che si capisce l’immane lavoro che abbiamo di fronte. Che riguarda ogni essere umano, donne e uomini, ma non può prescindere dal nostro essere persone con un corpo sessuato.

Ed eccoci al punto. Le domande che, tra le altre, sottendono questo libro sono: essere donne aiuta nella scelta nonviolenta, costituisce un vantaggio rispetto all’essere uomini, visto che in media le donne hanno meno muscoli e forza rispetto alla media dei maschi e sono molto meno protagoniste attive di azioni violente e criminali? Le donne sono più portate alla nonviolenza perché (considerate) meno aggressive e quindi più miti, dato che la natura le ha dotate di un corpo che può dare la vita e nutrire i cuccioli?

Questo libro prova ad affrontare tali domande e anche ad offrire delle risposte. La storia, quella passata e quella presente, ci consegna figure femminili violente, conniventi con la barbarie maschile e talvolta protagoniste in prima persona di teorizzazioni e concrete azioni di straordinaria spietatezza. Nell’antichità le donne sono state anche guerriere, e quelle che non belligeravano uccidevano le figlie, considerate un peso, una bocca in più da sfamare, mentre i figli maschi erano i benvenuti. Quello dell’infanticidio delle bambine, gesto che noi oggi troviamo quasi impensabile e purtroppo ancora diffuso in alcune zone povere del mondo, era ed è precipuo compito femminile, così come le mutilazioni genitali.

Le soldate delle guerre passate e in corso, le aguzzine di Abu Ghraib, le kamikaze islamiche ci parlano di una adesione ai modelli di morte della cultura maschile del dominio da parte di alcune donne.

Su questo aspetto pagine dure e drammatiche sono state scritte da Karima Guenivet in Stupri di guerra. Nel libro, accanto alla denuncia dell’uso sistematico della violenza carnale come arma, condivisa dai comandi militari e in qualche caso dai governi, per esempio nelle guerre del Kosovo, in Afghanistan e in Ruanda, l’autrice descrive il consenso di alcune donne verso la pulizia etnica ai danni di loro simili, consenso accertato nel caso del Ruanda.

Ogni generalizzazione è pericolosa, e la metà del mondo di sesso femminile lo sa bene. Solo per il fatto di avere ricevuto alla nascita un corpo potenzialmente atto alla riproduzione tutte le culture, laiche o religiose che siano, considerano questa funzione vincolante e preponderante nel costituire l’inadeguatezza femminile nella gestione del potere. Ovviamente il discorso è complesso e difficile, e molto ha a che fare con la questione del corpo e della sessualità: come non concordare con il lavoro coraggioso, e dolorosamente attuale, proposto da Robin Morgan nel suo Il demone amante, dove non è casuale il sottotitolo – nell’edizione inglese e nella prima edizione italiana – Sessualità del terrorismo?

Uno degli spunti più interessanti della ricerca di Morgan è proprio il non sottrarsi a definire, e descrivere, le connessioni e le complicità femminili nella costruzione del sistema del dominio e della violenza. Molte donne, oggi, specie le giovani ma non solo, considerano un elemento di parità scontata, e spesso anche un prodotto del femminismo, la possibilità di far parte dell’esercito e di corpi militari, di partecipare ad azioni umanitarie ma anche di fare la guerra come gli uomini, il che significa uccidere ed essere uccise.

Anche all’interno dei movimenti contro il neoliberismo che si oppongono al crescente, e ormai permanente, uso della guerra come strumento legittimo in caso di dissidi nazionali e internazionali, spesso il linguaggio e le metafore usate sono mutuate dal bagaglio bellico: come dimenticare la “dichiarazione di guerra” ai potenti della terra lanciata da Genova, nel luglio 2001, dalle Tute Bianche?

Durante l’epidemia Covid, e in generale quando si parla di lotta a qualche malattia, non è infrequente che si parli di guerra, battaglia, scontro, attacco. Fa pensare che le stesse parole siano usate per raccontare l’amore: la tenzone amorosa, l’espugnare il cuore dell’amata, forzare le difese, conquistare le donne e via così. Forse è bene rivedere il linguaggio, insieme alle pratiche.

Per questo lavorare per la diffusione della nonviolenza significa che, per cambiare il mondo, bisogna partire da sé, iniziando dalla pratica femminista che agli albori degli anni Settanta del Novecento sosteneva che il privato è politico, ed è quindi necessario in primo luogo modificare il proprio modo di guardare alle cose.

L’essenziale, è scritto nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, è invisibile agli occhi. Quanto è invisibile proprio a noi stesse che siamo il primo laboratorio essenziale per eliminare la violenza dalla vita? Il più delle volte questa verità è lì, davanti a noi, o dentro di noi, in attesa di essere finalmente scorta. Rivolgere lo sguardo intorno e trarre insegnamento dalla quotidianità aiuta nella riflessione e nella scoperta delle potenzialità insite nel genere umano di trarre spunti per pratiche nonviolente ben più che ascoltare, o teorizzare, dotte dissertazioni.

I giardinetti, per esempio, di un qualunque giorno: la popolazione è in maggioranza composta da persone anziane e da donne con bambini e bambine di varie età. Se vi soffermate a osservare le donne con i loro figli e le loro figlie non vi sfuggirà come, senza grandi corsi di formazione, questa piccola comunità sia gestita dalle donne mediando ogni momento conflitti di varia natura: i piccoli e le piccole sono in continua tensione, ricerca e scoperta, e il ruolo delle madri, o delle tate, è quello di amministrare con la massima saggezza possibile, evitando ingiustizie e frustrazioni, la giustizia e il soddisfacimento dei bisogni e dei desideri che via via si esprimono.

Non crediate che la pratica nonviolenta sia davvero molto differente da ciò che le donne fanno, da sempre, con i cuccioli della specie. Il problema è che sono le persone adulte, siamo noi persone cresciute che non ricordiamo il buon senso e la saggezza insita nell’ascolto e nell’empatia per risolvere i problemi, anche i più (apparentemente) gravi e indirimibili.

Il trucco, anche se ovviamente non è l’unico fattore vincente, è l’esercizio della pazienza, dell’ascolto, della condivisione e della considerazione delle emozioni, tutti strumenti che sono alla base della buona risoluzione di ogni potenziale conflitto: un incontro di lavoro, un negoziato in politica, o con la polizia in una situazione di tensione, o in centinaia di altre situazioni critiche. Senza fare alcun panegirico della funzione di accompagnamento nella prima fase della vita, delegata quasi totalmente alle donne, varrebbe la pena di riflettere su questa modalità di guardare ai problemi e alla loro soluzione.

Non è casuale che, in epoca remota (siamo nel 411 a.C.), un uomo non certo femminista come Aristofane abbia messo in bocca alla protagonista dell’unica opera del teatro greco nel quale una donna non è vittima (o destinata a diventarlo) parole potenti e autorevoli di divertita superiorità femminile verso l’incapacità maschile di trarre dal quotidiano le lezioni utili anche nei conflitti più sanguinosi.

Si tratta di Lisistrata, il cui nome significa “colei che scioglie gli eserciti”: scioglie, non distrugge. Ecco cosa afferma la sagace e ironica ateniese di fronte ai nerboruti (e armati fino ai denti) concittadini, in lotta contro i fratelli spartani:

Se aveste cervello trattereste i conflitti come si fa con la lana. Come quando la matassa è ingarbugliata, la prendiamo e la dipaniamo sui fusi, tendendola da una parte e dall’altra così, se ci lasciate fare, sbroglieremo la guerra, lavorando da una parte e dall’altra, con le ambascerie. Prima di tutto, come si fa con la lana, togliendo via con un bagno il sudiciume dalla città. Poi, stendendola su un letto, toglieremo di mezzo con un bastone spine e malanni. Poi carderemo quelli che tramano in società per le cariche, e gli speleremo bene la testa. Poi, in un paniere, mescoleremo la concordia comune e la pettineremo, mettendo insieme i meteci, gli stranieri che ci sono amici e i debitori dello stato. E le città dove abitano coloni ateniesi dovete considerarle come i bioccoli caduti per terra, lontani gli uni dagli altri. Bisogna prenderli e raccoglierli insieme e farne un solo grande gomitolo, da cui tessere un’unica tunica per il popolo.

Più in là nel tempo emergono le parole di una donna in carne e ossa, Rosa Luxemburg, che pur non avendo mai apertamente parlato di nonviolenza, in una lettera indirizzata a Mathilde Wurm il 28 dicembre 1916, riflette a partire dal quotidiano e dall’esperienza dell’emozione condivisa per arrivare a dire, alla domanda su come arginare la guerra e l’orrore della violenza:

Procura allora di rimanere un essere umano. Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere saldi e chiari e sereni, sì, sereni malgrado tutto, perché lagnarsi è segno di debolezza. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita “sulla grande bilancia del destino”, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola. Ah, non so scrivere una ricetta per esseri umani; so soltanto come si è umani e anche tu lo sapevi sempre, quando andavamo a spasso per ore insieme nel Südender Feld e sul grano si stendeva la luce rossa del tramonto.

Questo non è un mondo accogliente, capace di ascoltare e di affrontare i conflitti in modo nonviolento e con pazienza: purtroppo i nostri sono tempi che definire drammatici e terribili è poco. Magari un piccolo contributo potrà venire da queste pagine, che vogliono trasmettere e rendere accessibili parte dei materiali prodotti in molti anni di lavoro, incontri e pensieri per infittire quella rete che c’è, tra donne, e tra donne e uomini, che credono che l’unico modo per costruire, qui e ora, un mondo diverso possibile sia usare la forza della nonviolenza, non la forza e basta. Sempre.

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