Mito dell’età dell’oro e neoisolazionismo sardo [di Pietro Ciarlo]
Nell’affrontare il futuro della Sardegna è indispensabile aggredire alcuni nodi cruciali della nostra cultura politica regionale. Innanzitutto bisogna chiedersi se la Repubblica sia veramente stata una matrigna per la nostra regione. In generale a tutti, e in particolare ai giovani, deve essere ricordato l’articolo 5 della Costituzione: “La Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali, attua il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Dunque la Costituzione stabilisce che la Repubblica deve adeguare la sua propria legislazione ai principi autonomistici, non il contrario. Si potrà obiettare che si tratta solo di una norma scritta sulla Carta, e che essa non ha mai avuto effettiva attuazione, ma non è vero. Nel 1946 le amministrazioni comunali tornarono ad essere elettive. Fu eletta la Costituente. Votarono le donne. Per la prima volta il suffragio elettorale fu veramente universale. Furono adottati gli statuti speciali per la Sardegna, la Sicilia, il Trentino Alto Adige e la Val D’Aosta. Con le elezioni amministrative del 1951 per la prima volta furono eletti i consigli provinciali. L’avvento della Repubblica, rispetto al passato non solo fascista, determinò una straordinaria immissione di democrazia e di autonomia fondata sullo sviluppo della rappresentanza territoriale. Il centralismo autoritario appartiene a precedenti stagioni della storia nazionale, non alla Repubblica. Nel 1970 furono istituite le regioni ordinarie e l’ ordinamento regionale divenne generale. Fino ai primi anni ’90 le regioni speciali hanno vissuto una straordinaria stagione, rappresentando il regionalismo più maturo e “utile”. Oltre le quattro già istituite, nel 1963 si aggiunse la quinta regione speciale: il Friuli Venezia Giulia. Ad esse, fin dal primo momento, fu indirizzato un vero e proprio fiume di risorse economiche e culturali. In Piemonte servirono per risolvere i problemi della minoranza francofona della Val d’Aosta, in Alto Adige ad integrare la minoranza tedesca in Italia. Il terrorismo indipendentista alla Georg Klotz, “il martellatore della Val Passiria”, fu sconfitto per via politica. Simbolicamente, sua figlia Eva è stata una sonnacchiosa consigliere regionale in Trentino per tempo immemorabile. La regione Friuli dal canto suo ha contribuito a stabilizzare il nostro confine orientale. Anche la Sardegna, con i suoi Piani di rinascita e di grande trasformazione sostenuti da un ampio sforzo finanziario della Repubblica, fu un interessantissimo laboratorio autonomistico, che noi oggi disprezziamo con un giudizio tanto sommario quanto ingiusto. Naturalmente è andata come è andata, quel tipo di industrializzazione è passato. Furono commessi errori strategici che peraltro non riguardarono solo la Sardegna, ma tutto il Paese, basti ricordare il progetto del Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro fortunatamente fermato all’ultimo minuto. Tutti in Italia e in particolare nel Mezzogiorno si contendevano gli investimenti siderurgici e chimici delle partecipazioni statali. Parlamentari, Ministri e Sottosegretari facevano a gara nello strappare queste risorse per i propri collegi elettorali. In Sardegna la storia fu parzialmente diversa perché c’era un soggetto in più: la Regione. Il protagonismo autonomistico della Regione segnò profondamente quella grande esperienza di modernizzazione, creando una soggettività politica e identitaria in grado di dialogare efficacemente con le istituzioni centrali. Forse senza la Regione di quel tempo, oggi saremmo un po’ meno sardi. Viceversa, negli ultimi anni una politica regionale povera di cultura e di slanci genuini, incapace di mostrare il futuro, ha preferito cercare il consenso spargendo a piene mani diffidenza e risentimento contro la Repubblica. Dal canto loro i governi ad egemonia leghista, ispirandosi a visioni secessioniste, hanno rappresentato il Sud e le Isole come un ingombrante fardello di cui liberarsi. Molti hanno voluto trasformare l’insoddisfazione per il parziale insuccesso delle politiche di sviluppo in una perniciosa ideologia del fallimento. A partire da queste frustrazioni la peggiore politica locale ha prospettato l’esistenza di un grande e permanente complotto ordito dallo Stato italiano ai danni della Sardegna. Su queste basi si è diffusa un’ altra falsa credenza quella secondo cui noi sardi saremmo piccoli e neri. Non siamo piccoli e neri. La Sardegna è la terza Regione italiana quanto a superficie, quasi alla pari con le prime due, la decima per popolazione: abbiamo più abitanti della Liguria! E infine, udite udite, anche dal punto di vista del P.I.L non siamo messi benissimo, ma neanche malissimo, siamo anche in questo caso intorno alla decima posizione. Siamo tra le prime delle Regioni meridionali, preceduti, ma di poco, solo dal piccolo Abruzzo, e non siamo molto distanti quanto a prodotto interno lordo pro capite dall’Umbria. Molto dobbiamo alla considerazione che della specialità ha avuto la Repubblica e al flusso costante e consistente di risorse pubbliche trasferite dalle più ricche regioni del Nord in Sardegna, basti guardare i dati sul residuo fiscale. Ormai ci attanaglia un complesso di persecuzione tanto infondato quanto devastante, che spesso ci porta a visioni inutilmente egocentriche e aggressive. A volte presuntuosamente pensiamo che il mondo sia contro di noi. La verità è un’altra, forse più drammatica: il mondo non ci è contrario, semplicemente, come accade per tanti, non si cura di noi, ci ignora. Solo la Repubblica ha veramente dialogato con noi quando ha praticato politiche inclusive per il Mezzogiorno e le Isole, ma una delle condizioni perché queste politiche possano essere rilanciate è che la Sardegna le richieda, se ne senta partecipe, faccia proposte solidamente fondate e per questa via dia il suo contributo alla coesione della comunità nazionale. La nostra soggettività identitaria si misura sulle proposte che siamo in grado di avanzare. Se siamo alla moneta sarda, alle flotte aerea e marittima gestite dalla regione, non ci resta che aspettarci la flotta sottomarina. Le politiche di coesione non possono essere allo stesso tempo invocate e disprezzate. Benedetta la cosiddetta vertenza entrate: si fortifica l’autonomia e si ribadisce l’appartenenza alla Repubblica. L’estraniazione e l’isolazionismo impediscono la relazionalità inclusiva. Grazia Deledda, Gramsci, Lussu, Laconi portarono il Mezzogiorno e la Sardegna in Italia, nella Costituzione e nella Repubblica, poi un ceto politico regionale di grande qualità interpretò efficacemente l’ autonomismo regionalistico. Negli ultimi anni questo patrimonio di cultura politica è stato messo a dura prova, se non disperso. Oggi siamo attanagliati da una demagogia per omissione e da una demagogia per commissione. L’ incapacità ad affrontare i problemi viene mistificata nell’ impossibilità del fare per ragioni esogene: la colpa è sempre di altri o di altro. Viceversa, si avanzano proposte impossibili che distolgono preziose energie dalla elaborazione di politiche effettive. A voler essere benevoli sonni e sogni. Ma i sogni e i sonni, si sa, spesso generano mostri. La cultura politica e istituzionale del nostro Paese deve molto di più di quanto comunemente si creda ai Sardi e alla Sardegna. Oltre la gramsciana Questione Meridionale, senza l’impegno alla Costituente di Lussu e Laconi forse il regionalismo non sarebbe entrato nella nostra Costituzione. Ma negli ultimi anni la cultura politica sarda si è ripiegata su sé stessa. Le narrazioni identitarie non sono neutre. Possono servire a fondare i miti populistici e reazionari del sangue e della terra, della chiusura e della diffidenza se non dell’odio verso l’altro. Oppure a costruire l’autostima e la consapevolezza di noi stessi nei processi volti al dialogo con l’altro, ma ciò può avvenire solo discutendo di questioni che abbiano una loro ragionevolezza e quindi un loro realismo. Purtroppo in questi anni in Sardegna ha avuto troppo spazio una cultura politica che ha fatto leva su visioni tutte volte al passato, accentuandone gli aspetti emotivi con proposte impossibili. Una politica che non sia anche emozione è una non politica. Ma una delle caratteristiche della democrazia sta nella ricerca di rapporti istituzionali fondati sulla ragionevolezza, tra Kant e Schmitt ho scelto sempre senza esitazioni il primo. Nella nostra era, tutti siamo labili: la psicologia politica ha perso molti dei suoi ancoraggi, senza trovarne di nuovi. Le idee di secessione e di indipendentismo trovano uno spazio inusitato, il mito delle piccole patrie si diffonde pernicioso, ma guarda caso soprattutto nelle regioni più ricche come la Catalogna, le Fiandre e il Veneto o in altre regioni, come la Scozia, che si ritengono più ricche di quello che in realtà sono: a volte le emozioni giocano brutti scherzi. Anche in Sardegna le emozioni, spesso artatamente suscitate, generano improbabili seduzioni, tutte condizionate da un solipsismo isolazionistico fondato sul mito reazionario della perduta età dell’ oro. In questo contesto, forse a scopo edulcorante, non di rado vengono coniati neologismi di difficile decrittazione politica e istituzionale, come “sovranismo” o “nazionalitario”. In Sardegna si è andato formando un gergo politico ignoto e incomprensibile alla cultura politica del resto della Repubblica, gergo che sta diventando un pericolosissimo ed ulteriore fattore di isolamento. Sull’ idea di una moneta sarda deve calare una vera e propria censura culturale: non accetto che i sardi possano essere derisi per la spregiudicata e provinciale demagogia di qualcuno. Tutto deve cambiare perché le stesse persone e gli gruppi di interesse premoderni, legati alla rendita economica e sociale, restino al loro posto sfruttando le chiusure dell’isolazionismo. Qual’è l’ isola del gattopardo? Tra gli anni ’80 e ’90, il nostro Paese si è ingarbugliato. Infatti, in quel periodo si affermò come partito di Governo, un partito che programmaticamente prevedeva la fine della Repubblica, con la secessione del Nord. Non solo. Questo partito era in coalizione con altri che, viceversa, dell’ unità nazionale italiana facevano il loro leitmotif. Questo è stato uno dei più grandi e deleteri paradossi della politica italiana: governare dichiarando di voler distruggere quello che si governa. L’ orgia demagogica non ha avuto più freni. Tutti possono essere tutto contemporaneamente e stare con chiunque, a seconda delle immediate convenienze di ciascuno. La vertenza entrate, o se si vuole una più ampia vertenza Sardegna, è una sacrosanta negoziazione che la Regione Sardegna deve svolgere in Permanenza con i Governi nazionali, ma non si possono condurre contemporaneamente questo tipo di trattative, continuità territoriale compresa, e fomentare una cultura politica isolazionista. Il gioco può durare per un po’, ma non in eterno. Poi diventa debole, non credibile, ci delegittima. I Sardi sono gente seria, non possono finire irrisi. Se in questo preciso momento diventassimo indipendenti perderemmo circa il 40 % del nostro PIL e di colpo diventeremmo più o meno come l’ India. Nel Parlamento europeo si è costituito un gruppo parlamentare formato dall’ FPO austriaco, il partito di Jörg Haider, defunto leader carinziano di dichiarata fede neonazista. Dal Vlaams Belang, fiammingo, partito secessionista del Belgio che ha come obiettivo quello di dividere le ricche Fiandre dalla Vallonia povera. Dal Front National di Marine Le Pen, nazionalista, antieuropeo in quanto innanzitutto antitedesco. Dalla Lega Nord. Li tiene uniti la dichiarata fede xenofoba, divisionista, isolazionista. Dalle piccole patrie e dal nazionalismo, dal sangue e dalla terra può risorgere il mostro. Le parole sono pietre. Straparlando di indipendentismo, di nazionalismo, di sovranità, di irrimettibili conflittualità con il mondo e la Repubblica, si semina la tempesta della diffidenza e dell’isolamento, se non dell’odio etnico. Continuare cinicamente ad insistere sulle emozioni, alimentando false rappresentazioni di sé, crea danni soprattutto ai giovani. Non possiamo spiegare ai giovani che il mondo è un nemico da rifiutare e che il futuro è nella frammentazione e nell’isolamento. Non è così. Non possiamo diffondere una pedagogia politica irrealistica intrisa di una mitologia reazionaria. Dinanzi a suggestioni forti, il regionalismo autonomistico può sembrare poco accattivante, ma è la strada che la Sardegna deve seguire per vivere proficuamente la Repubblica e l’Europa. Si tratta di ridurre, se non di azzerare, le tossine demagogiche che avvelenano la cultura politica della nostra regione. Non sarebbe un rinnovamento da poco. In Sardegna siamo ancora in tempo per impedire che tutto degeneri irrimediabilmente. Lo sviluppo economico e quello culturale vanno di pari passo. Non è mai esistito un territorio in recessione economica che sia stato in fioritura culturale, né mai le chiusure politiche e culturali hanno favorito lo sviluppo economico. Abbiamo vissuto una vicenda emblematica. Come è noto la Sardegna è l’unica Regione europea, insieme alla Corsica, a non avere il metano. Quando finalmente sembrava giunta l’ora, c’è stato chi si è opposto e tutti si sono mostrati comprensivi rispetto con essi. Alle resistenze contro la costruzione di stazioni di pompaggio, piccolissimi impianti come ce ne sono migliaia, si sono associate quelle di chi lamentava la continuazione del metanodotto verso il continente in nome di un anticolonialismo del tutto immaginario. Ma gli oppositori sono potuti tornare a dormire sonni tranquilli perché il problema purtroppo si è risolto da solo: nel grande risiko dell’energia hanno vinto altri e il metanodotto sardo non si è fatto. Eppure pochissimi hanno avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di dire che con la demagogia localistica, la malaunione, non si va da nessuna parte. Le visioni isolazionistiche sono nemiche dello sviluppo economico e, alla fine, politicamente reazionarie. Tra l’altro, hanno diffuso un sentimento anti industriale che corre il rischio di essere un’altra condanna che ci infliggiamo da soli. Troppa politica sarda ha perso i legami con la realtà. Gli argomenti della ragione e della verità devono riprendere il loro corso. Non dobbiamo domandarci cosa la Repubblica faccia contro di noi. Dobbiamo chiederci cosa la Repubblica può continuare a fare per noi, ma soprattutto e più semplicemente cosa possiamo fare noi per noi stessi. |
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Est custu un’artìculu ampru e bene elaboradu chi meresset una risposta àtere e tantu articulada. Deo chèrgio pònnere in resartu unu passàgiu ebbia: dae sos datos chi s’autore nos dat de sa Sardigna pro giustificare chi non semus nen minoreddos e nen nieddos, pro esempru chi sa Sardigna tenet prus abitantes chi non sa Ligùria (!) e chi tenimus unu P.I.L. agiomai che su de s’Ùmbria (!), nde mancat unu chi isse connoschet bene, ma no lu bogat a campu: semus sos primos in Italia in dispersione iscolàstica, cun una mèdia dòpia rispetu a sa de sa UE. Tenet a bìdere custu datu, in parte, cun sa chistione linguìstica e cun sa negativa a fàghere intrare in iscola, dae sa gianna manna, sa limba sarda? Paret chi emmo si ponimus mente a S. Tagliagambe; s’autore de s’artìculu però mancu nde faghet mentovu. Si non nde faeddat, ca non nde faeddat, su problema no esistit. A isse interessat de prus a pònnere in resartu su “solissismu de isulamentu” chi atribuit a sa natura congènita de sa gente de s’ìsula nostra e a augurare un’imbeniente tràgicu e nieddu si sighimus cun ideas “soberanistas e natzionalitàrias” chi a pàrrere suo sunt de esclusione e de domìniu e non de afirmatzione.
Articolo vergognoso. Se fossimo indipendenti perderemmo il 40% del PIL? Lo stato italiano non è un problema? Ma per piacere. I famosi piani di rinascita sono nati per fallire, in quanto originatesi a partire dalla commissione Medici e dalla sua idea che la società agropastorale fosse la fonte del banditismo. Non possiamo gestirci i trasporti da soli perchè il governo centrale fa i patti con le compagnie senza la regione, e non parliamo della gestione dell’energia o delle basi militari. O dei tragici danni fatti dalle politiche italiane alla nostra cultura (storia e lingua non studiate nelle scuole, ad esempio). Per quanto riguarda la vertenza entrate: nonostante sia stata riconosciuta non ci vengono resituiti i soldi, dato che non avendo noi peso politico (che si misura con la popolazione, e non con l’ampiezza del territorio) il già citato governo di noi se ne frega. Ah, e sicuramente il commento sulle “piccole partie” che sarebbero meno ricche di quello che pensano sarebbe interessante vederlo argomentato. Chi sa cosa ne penserebbero gli scozzesi!
Per il resto, rimando alla risposta di Omar Oniis:
http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/2635
http://sardegnamondo.blog.tiscali.it/2014/04/09/dipendentismo-vs-autodeterminazione-risposta-a-un-tentativo-di-normalizzazione/
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L’articolo, anche se ben scritto, risulta estremamente incoerente se specchiato con la realtà dei fatti, perchè in efetti di fatti e conseguenze bisognerebbe parlare, non è mia intenzione rivolgere una critica, ci mancherebbe altro, penso che in fondo la maggior parte dei lettori, abbia capito benissimo dove ci si vuol portare, insomma diciamolo subito che è meglio:
Articolo prenu de faulas, imprecisioni, di una superficialità inmotivata per un sardo, adirittura offensivo, una vergogna insomma…
Un articolo splendido. Finalmente.