Le indie di casa nostra [di Pasquale Chessa]
Nel viaggio pastorale di Papa Francesco in Sardegna, man mano che sbiadiscono le cronache evenemenziali, non si può fare a meno di percepire ancora l’eco di un’idea di Sardegna antica, proprio quella immagine ancestrale che si è radicata nella cultura del primo ottocento, quando padre Antonio Bresciani scriveva dei «costumi dell’isola» comparandoli con quelli ancestrali degli «antichissimi popoli orientali». È lo stereotipo della «selvaggeria» sarda, tratto indelebile persistente nella antropologia quotidiana di tutta la regione. Non è lontanissimo il tempo in cui il «Viaggio in Sardegna» veniva vissuto come una avventura culturale, alla scoperta di un mondo sopravissuto alla civiltà, un territorio ancora buono per gli studi antropologici senza bisogno di spostarsi fra le popolazioni incontaminate delle lontane americhe o delle varie indie: les indes de chez nous, le indie di casa nostra come dicevano i gesuiti francesi. E invece si è trattato solo di una fuggevole impressione. C’è un po’ di voluta malignità, infatti, nel ricordare che Padre Bresciani, quello stesso irriso da Gramsci per il suo «gesuitismo letterario», era appunto un gesuita come Jorge Mario Bergoglio. E invece primo papa gesuita ha capovolto la storia. Anche i gesuiti non sono più quelli di una volta! Perché non c’è stata nelle parole di Bergoglio la memoria dell’isola prigione» dove si percepisce ancora «l’infanzia delle prime età», per definizione eternamente depressa e culturalmente refrattaria alla modernità. Anzi, Bergoglio è stato capace di intuire un malessere tutto postmoderno quando ha individuato quella forma di paganesimo esistenziale nel culto della «Dea lamentela» tanto diffuso proprio in Sardegna. Non si è trattato solo di una voce detta di sfuggita, peraltro rivolta ai giovani, quanto piuttosto di un segnale politico e culturale che disvela in un lampo una dimensione nuova e inedita della politica sociale del nuovo papato. Lo si capisce meglio se si collega la battuta di papa Francesco alle parole cruciali su cui il vescovo di Nuoro, Mosè Marcia, ha costruito la sua intervista alla Nuova Sardegna pubblicata pochi giorni prima dell’arrivo del papa a Cagliari: «La parolaccia che ci rovina, che ha rovinato questo territorio è: assistenzialismo». Il riferimento a Nuoro funziona come una sineddoche ancora meglio perchè riferito all’isola intera. Per dirla papale papale, il vescovo e il papa dicono ai sardi che arretratezza e minorità, depressione economica e disoccupazione, corruzione politica e degrado culturale, indifferenza ambientale e analfabetismo ecologico, non possono essere assunti come gli effetti collaterali di una identità incompiuta, le scorie inevitabili di un processo identitario sempre in atto ma proprio per questo eternamente in ritardo. Non sappiamo chi abbia spiegato a Bergoglio la deriva storica prima che politica ed economica della attuale crisi sarda, fase terminale di quella ideologia della Rinascita che ha devastato ogni progetto identitario e autonomistico della Sardegna. Le conseguenze dei fallimenti delle varie rappresentazioni del Piano di Rinascita della Sardegna, dagli anni Sessanta arrivano fino a oggi. Quando è la politica che si fa economia, è l’intero sistema sociale che finisce per implodere su se stesso: c’è infatti un nesso irreversibile fra le inutili ciminiere petrolchimiche di Ottana degli anni Settanta, ma già tanto vecchie da sembrare antiche quanto i nuraghi e i disastri sociali che si consumano oggi intorno all’Alcoa… Forse in quelle parole di Bergoglio c’è anche un’interpretazione politica e antropologica, prima che teologica, del libero arbitrio: in democrazia i popoli, siano nazioni o stati, sono responsabili del loro destino civile. C’è un’idea di responsabilità che mette alla prova la stessa idea di identità. Non ruba infatti solo chi viene dal mare. Il degrado politico in atto è più che un sintomo di una catastrofe istituzionale prossima ventura. La Sardegna non è più una regione speciale, in virtù del suo stato di minorità economica e storica e quindi anche culturale e morale. L’assistenzialismo così ci appare come la forma degradata del regionalismo e del localismo clientelare. E la «dea lamentela» ne è la sua forma ideologica. Illudere intere popolazioni che in Sardegna si devono e si possono tenere in piedi imprese improduttive a spese della collettività è un delitto economico destinato a breve tempo a trasformarsi in un castigo sociale. Forse si tratta di un paradosso indicibile, ma risuonerebbe come uno sparo nel bel mezzo di un concerto, mentre la destra populista suona il flauto magico della zona franca e la sinistra radicale vocalizza su una inattuale indipendenza, se dalla sinistra democratica venisse l’idea di rinunciare alla «autonomia speciale» della Sardegna. Non per rinunciare alla propria identità, al contrario, per rafforzarla, liberandola cioè dalla sudditanza in cui la politica di oggi l’ha costretta. Post scriptum: astenersi perditempo ed evitare ricorsi storici con polemiche intorno alla «perfetta fusione» del 1847. È un’altra storia. Tutta da riscrivere.
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