Ceramiche sarde del Cinquecento nel retablo di sant’Anna di Sanluri [di Maria Laura Ferru]
Il Retablo di sant’Anna, conservato a Sanluri datato al 1571-1576 e attribuito a bottega di Antioco Mainas, venne eseguito in stretta dipendenza da una stampa del Durer. Focalizzando l’attenzione sul gruppo di ceramiche che le due donne tengono in mano per il servizio della puerpera c’è da notare che esse non sono riportate nelle stesse forme presenti nella stampa ispiratrice e costituiscono invece un’originale rappresentazione della stoviglieria in uso nella Sardegna del Cinquecento. Il colore del dipinto permette verosimilmente di ritenere le stoviglie di ceramica e non d’argento, di stagno, peltro o rame. Bisogna precisare che esemplari di stoviglie come quelle dipinte nel Retablo sono state materialmente trovate in Sardegna, a conferma dell’uso effettivo che se ne faceva, uso talmente diffuso presso i ceti più abbienti da indurre il pittore a riprodurre il vero, almeno riguardo ad esse. E più precisamente la scodella con prese ad orecchiette, spesso in frammenti ma anche intera, è stata trovata in varie parti dell’isola (Nurachi, Alghero); il bicchiere seppure non integro è stato rinvenuto a Cagliari e ad Alghero; infine il boccale a base rotonda trova corrispondenza con esemplari di epoca spagnola rinvenuti a Tramatza. Tornando all’osservazione del dipinto si parte dall’esame dell’insieme formato da piattino e scodella, detti anche nel Cinquecento discua e prattigliu, come si evince dai termini in lingua sarda riportati negli atti notarili d’epoca. La scodella del dipinto ricalca il modello della spagnola scudella amb orelles (scodella a orecchiette), che era di solito un capo di corredo elitario, essendo il più delle volte in maiolica arricchita di decorazioni a lustro. In Sardegna se ne praticava un’imitazione economica, basata su ingobbio con caolino di Laconi-Nurallao e galena di Villa di Chiesa arricchita di scaglie di ferro che valevano, per virtù del fuoco, a dare alla terracotta una bella colorazione di giallo così come rivela anche la stoviglia riprodotta nel Retablo in questione. A paragone con le prestigiose scodelle spagnole, le scodelle sarde di imitazione risultano definite, nei documenti notarili dell’epoca, col termine di scodella burda de corros, dove burda significa illegittima, bastarda e de corros equivale “a corna”. Espressione pittoresca per definire smitizzandola una ceramica dalla forma decisamente non comune. Ugualmente molto vicino al modello del jarro iberico risulta il bicchiere lungo con piede alto e corpo svasato, detto in sardo congieddu: il modello spagnolo era dotato di manico e di versatoio a becco (che nel dipinto appaiono solo accennati). Così come congiu era il nome attribuito ai vasi come quello da cui la donna del dipinto versa l’acqua nel bicchiere. Termine talmente importante che da esso derivò quello attribuito ai figoli oristanesi: congiolargios, cioè boccalari. Le stoviglie legate al puerperio subirono nella penisola italica a metà del Cinquecento una importantissima innovazione: Cipriano Piccolpasso descrisse nel suo libro “Li tre libri dell’arte del vasaio ” la nuova tazza da parto da donare alla partoriente formata da più pezzi ( piatto, scodella, saliera e portauovo) montati ad incastro, l’uno sull’altro, in maniera tale da formare un’unica stoviglia multipla, antesignana delle ceramiche componibili di epoca moderna. La novità non faceva che arricchire il rito del post-parto, per il quale da tempo nei luoghi eccellenti della maiolica italiana si producevano sontuosi “deschi da parto” decorati in policromia. In Sardegna, se da un lato l’insieme scodella-piattino rimanda all’uso italico della “scudella da impagliata”, dall’altro per la precisa forma di tutt’e tre le stoviglie si rivelano indubbie relazioni con la ceramica spagnola e quindi con gli usi e il costume della società spagnola del Cinquecento. *Esperta di ceramica sarda e perito in argenti antichi |