Il black-out delle pari opportunità [di Veronica Rosati]

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C’è un fiocco rosa nella politica italiana. Il Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione Marianna Madia ha partorito già da qualche giorno. Le immagini della sorridente giovane che assume il suo prestigioso incarico davanti al Presidente della Repubblica, quasi al termine della gravidanza, avevano fatto il giro del mondo. La squadra di governo di Matteo Renzi conta molte donne. Hanno età ed esperienze diverse, ma sono tutte fresche, sobrie, pacate e sorridenti.

Sembrano averne fatta di strada le donne. Sono statisticamente più istruite degli uomini e brillano in ogni settore. Dai grandi CdA alle cattedre universitarie, le donne pare ce l’abbiano fatta davvero. Dopo secoli di lotte hanno conquistato la parità dei diritti con gli uomini. Possono liberamente scegliere cosa fare delle loro vite senza render conto a nessuno. Hanno diritto alla maternità, possono anche conciliare famiglia e carriera, qualora lo vogliano.

La quotidianità dell’Italia comune mostra però una realtà diversa. Gli anni della recessione economica hanno portato ad una crisi profonda di ciò che viene definito “pari opportunità”. Le minori possibilità di accedere alle posizioni di potere, le difficoltà di conciliare vita lavorativa e familiare, le lacune dei servizi offerti, gli asili nido insufficienti, sono le problematiche comunemente più evidenti. Uno studio dell’Istat promosso dall’Ocse misura il capitale umano per quantificare il livello di sostenibilità dei sistemi di welfare. I numeri raccontano che la capacità individuale di creare ricchezza e benessere nell’arco della vita è di 435 mila euro per gli uomini e di 231 mila per le donne. I dati, però, sono fermi al 2008.

La cronaca della crisi narra sottovoce di discriminazioni, di misoginia e di un apparato di diritti acquisiti ormai alla deriva. Nell’Italia del 2014 una donna in cerca di lavoro parte oggettivamente svantaggiata rispetto ad un uomo. Con un’apparente normalità deve rendere conto di dettagli privati della sua vita. Spiega ad ogni colloquio le sue intenzioni di fare o meno dei figli. Qualora già li avesse deve rendere partecipe lo sconosciuto selezionatore delle sue capacità domestiche di problem solving in caso di improvvisa malattia della prole. Non è più un architetto, una cameriera, una biologa o una colf. È soltanto una potenziale minaccia per i ritmi produttivi. È solo una donna, forse una madre.  Entro un generale contesto di aridità di valori, dove l’investimento nel capitale umano è considerato alla stregua di una fredda compravendita di beni di consumo, le aziende di questi tempi preferiscono non correre rischi e, potendo scegliere, preferiscono assumere un uomo.

Sono troppo poche le donne che ce l’hanno fatta a conquistare posizioni di prestigio. Il dato di fatto è l’esemplificazione più patinata e fotogenica della discriminazione delle donne ad ogni livello lavorativo. Anche in un’anonima piccola azienda di provincia le donne sono numericamente inferiori rispetto ai colleghi uomini. Quasi sempre.

In un’Italia sofferente, che ha sacrificato i meriti e le reali capacità dei singoli sull’altare della raccomandazione e del malaffare, la donna di potere innesca una pericolosa spirale di misoginia. È troppo semplice liquidare la riflessione sul numero ridotto di donne al potere, sia politico che lavorativo, innescando un cieco odio di genere, che porta a guardarle con sospetto. Le solidissime logiche di discriminazione femminile invadono le menti di chi osserva il fenomeno. Finiscono per contagiare le stesse donne, in una guerra fratricida senza fine.

Chi ce l’ha fatta probabilmente non ha raggiunto quei traguardi ambiti in modo lecito. Nell’Italia post berlusconiana i pensieri corrono ad ipotizzare clientelismi, nepotismi e concubinato. Questa forma urbana di misoginia conosciuta da uomini e anche da donne si alimenta in un terreno d’invidia. Si arriva a provare dispiacere per ciò che appartiene solo ad altri, poiché si vorrebbe essere al loro posto. Le categorie discriminatorie tipiche della mentalità maschilista vengono adottate dalle donne stesse. Tale decadenza di significato e di valore ha seguito le oscillazioni, nonché il crollo del sistema economico italiano. La crisi ha parallelamente portato ad un corto circuito dei diritti acquisiti dalle donne, in seguito a decenni di sofferte lotte. Semplici diritti, come quello alla maternità, sono diventati dei veri privilegi agli occhi di quelle donne escluse e discriminate e, ovviamente, a quelli di chi concede tali fondamentali diritti.

Gli anni seguiti al loro riconoscimento hanno visto un’ubriacatura collettiva. In questo frangente si sono alternate moltitudini di donne che hanno abusato dei loro diritti. Entro uno scenario già desolato hanno fatto terra bruciata per le donne che sarebbero venute dopo e che ora pagano un prezzo elevatissimo. Vivono nel quotidiano l’esclusione lavorativa espiando le presunte colpe di chi le ha precedute. Donne lavoratrici del recente passato travolgono idealmente ed inconsapevolmente le donne di oggi escluse dal sistema economico per una discriminazione di genere. Una misoginia diffusa che attraversa le generazioni, che si consuma fra le stesse donne e che negli anni di questa crisi economica che pare assurdamente giustificare, con la sua assenza di logiche, ogni cosa.

Ci sono in questo Paese una moltitudine di fiocchi rosa e azzurri divenuti simboli inconsapevoli di un’etichetta discriminatoria per tutte quelle madri che nel loro discreto anonimato hanno diritto a nulla. Nemmeno ad un colloquio, forse. Sono anche simboli di una forza incrollabile di quel futuro che vuole farsi strada da sé, arreso all’assenza di misure volte alla sua tutela.  È un black-out delle pari opportunità che va risolto alla radice, senza operazioni di facciata. È  infatti evidente che le donne al potere solo in quanto donne, non possono rappresentare nemmeno loro stesse.

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