In seguito alla pubblicazione dell’articolo “Ninfomania: dopo l’orgia che fare?” mi è stato posto da più parti un inquietante interrogativo: in che direzione stiamo andando? Provo a rispondere. Nessuno conosce il futuro, neanche gli scienziati, dato che anche la conoscenza scientifica è congetturale e fallibile. Di conseguenza, in ambito sociale e politico, ci si deve guardare dagli esperti che dicono di conoscere il destino della società, di possedere la “verità”.
Quel che è certo è che la fiducia incondizionata nelle “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria, l’idea del progresso come bene collettivo e l’ottimismo sociale ed economico caratteristico dell’era del boom siano definitivamente tramontati a partire dalla guerra in Vietnam e da quella del Kippur. I profondi rivolgimenti politici, scientifici, tecnologici su scala planetaria hanno determinato la definitiva caduta delle ideologie, dei valori e delle utopie progettuali del Modernismo. Non resta nulla di assoluto, tutto è relativo e contradditorio, realizzabile e multiforme. L’avvenire sembra riacquistare la sua natura di assoluta contingenza e aleatorietà, mentre il dominio del caso sembra incombere sul nostro comune futuro rendendo ancora più attuale la constatazione che l’economista John Maynard Keynes fece già nel 1921, che “l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. Panta rei.
L’età postmoderna si caratterizza per la dissoluzione, a tutti i livelli, di ogni idea di progresso lineare nell’ambito di una nozione di storia ribaltata in post-storia privata di qualunque sistema di previsione. L’incertezza che affligge la società postmoderna deriva, secondo Zygmunt Bauman, dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. All’interno di un processo di omogeneizzazione dovuto all’assorbimento passivo di usi e consuetudini, modelli culturali e di condotta globalizzati, Bauman individua il modello antropologico dell’homo consumens costretto ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsene escluso, intrappolato com’è tra la catena di produzione e consumo e quella di smaltimento: tra la compulsione ad acquistare beni e gratificazioni immediate e la tendenza a disfarsene immediatamente per nutrire l’illusione di rimanere al passo di un eterno (quanto effimero) presente. Tutto e subito. Life is now.
Senza dimenticare Eraclito, già il Tao, con largo anticipo rispetto alla “società liquida” di Bauman, ci insegna che dato che non esiste nulla di fisso o immutabile, l’uomo si dovrebbe comportare come l’acqua, che scorrendo si adegua a qualsiasi superficie aggirando gli ostacoli e trovando sempre nuove strade per proseguire la sua corsa. Che poi, talvolta, la stessa acqua finisca la sua corsa nella fogna, beh, questo è un altro problema su cui riflettere …A mio parere, il disagio esistenziale e sociale del nostro tempo alimenta un clima estetico in qualche misura neo-esistenzialista in cui l’insensatezza dell’esistere, la finitezza e la solitudine dell’individuo e dell’Io di fronte al mondo trovano delle similitudini con quell’Io lacerato e isolato dalla vita reale che contraddistingue tanta produzione letteraria di inizio Novecento: penso a Kafka, Musil, Joyce, Proust, Svevo o Pirandello.
Mi sembra, più che altro, che attualmente l’uomo possa essere identificato con una nuova categoria antropologica e gnoseologica: quella del navigante che galleggia nel mare magnum esistenziale barcamenandosi tra la vita reale e le infinite informazioni e suggestioni del web in un’ibridazione continua all’interno di non luoghi reali e artificiali, in un orizzonte post-gerarchico ed extra-territoriale che ben rispecchia la sostanziale inafferrabilità della vita contemporanea.
Esaurita ogni fede in ideologie forti ed esperienze collettive, il processo postmoderno di deideologizzazione ha comportato, automaticamente, il dilagare dell’individualismo. Nel suo ripiegamento intimista e individualista, il disincanto del processo di demitizzazione torna ora prepotentemente a contemplare il corpo, che assurge a medium delle energie dell’inconscio secondo un superficialismo nichilista esplicito e disinibito.
Proprio come nelle Avanguardie artistiche di inizio Novecento, caratterizzate dal primitivismo e dal feticcio archetipico della maschera tribale, mi sembra che l’alienazione sociale si manifesti ora attraverso la maschera-filtro dell’identità virtuale. Con quell’immagine e quell’idea di sé che si vuole trasmettere attraverso il medium informatico, che nei casi più estremi si trasforma in fake o troll e che, in ogni modo, serve a rendere più leggero il peso dell’alienazione e della spersonalizzazione. L’ostentazione individualista del proprio ego camuffato dalla maschera digitale non è altro che lo specchio della società contemporanea decadente, in cui ognuno ritorna ad essere “uno nessuno e centomila”.
Tra i vari corsi e ricorsi cultural-esistenziali, per dirla con Keith Haring, “se la tecnologia cambia il mondo, la gente continua ad avere gli stessi problemi, gli uomini sono sempre assillati dagli stessi bisogni fondamentali e primari, quelli che ne definiscono la natura umana” ma, di fatto, “la nostra eredità non è preceduta da nessun testamento” (Renè Char).
*Storica dell’arte
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Chissà se Lars von Trier si è reso conto di tutto ciò che può esserci dietro il suo film …
unicuique suum, Aristarco. gli artisti lanciano con i propri sistemi comunicativi determinati input, che spesso si assestano ad un livello inconscio: altri li accolgono, li elaborano e li interpretano offrendo talvolta chiavi di lettura magari originariamente neppure contemplate