Duc in altum, Sardegna [di Paolo Matta]

Cagliari

L’hanno subito ribattezzato il “C8”, il Consiglio degli otto cardinali che affiancheranno il Papa nella guida della Chiesa. Il “Papa re” non è più. Alla figura del monarca assoluto (che resta infallibile, per dono dello Spirito Santo, in materia di fede) si sostituisce quella del Maestro che si china sui drammi e le aspettative dell’uomo di oggi. E lo fa nel segno della sinodalità, della collegialità, della condivisione. Più d’uno, anche all’interno della comunità ecclesiale – con malcelata ironia e un manifesto fastidio per il “pauperismo” di Bergoglio – si chiedeva quando Francesco avrebbe cominciato “a fare il Papa”.

Troppi slogan, troppe omelie a braccio, troppo Vangelo. E poi tutta quell’attenzione alle sue scarpe, alla borsa nera da viaggio, all’intervista a Scalfari, alle telefonate, alle uscite dal Vaticano senza scorta, alla sua utilitaria, a Santa Marta scelta come residenza «per motivi psichiatrici»… Un’insofferenza sotto traccia, subdola e strisciante, con l’auspicio che questa “luna di miele” finisse presto…Sono passati sei mesi da quello storico “buonasera” dalla Loggia delle Benedizioni, da quella preghiera in una Piazza San Pietro silente e commossa come non mai. E il Papa, cercato e trovato “dalla fine del mondo” sta davvero segnando la “fine di un mondo”, quello dell’ipocrisia, delle corti – papali o vescovili – autoreferenziali, di un clero presuntuoso e carrieristico, di un laicato accidioso, di una Chiesa – in una parola – lontana dal Vangelo.

Mezzo milione di sardi ha celebrato con Papa Francesco una straordinaria liturgia della parola, iniziata dall’atto penitenziale coi disoccupati, culminata con l’Eucaristia davanti alla Basilica di Bonaria e chiusa nella comunione con i giovani del Largo. Una sola, grande celebrazione presieduta da Bergoglio che, seppure “sballottato” da una parte all’altra della città, ha saputo essere quel pastore che «profuma dell’odore delle sue pecore».Cinque discorsi che dovranno ora essere sottoposti a una tac teologico-ecclesiale ma anche politico-sociale, per coglierne la vera essenza e portata.

La parola del Papa è stata, ancora una volta, diretta e spiazzante: «Non sono venuto qui a dirvi: coraggio», ha detto al mondo del lavoro. «La parola coraggio non può essere una parola di passaggio: io non sono un impiegato della Chiesa». Quasi a chiedere perdono delle tante volte che Chiesa e cattolici si sono rifugiati dietro un comodo solidarismo incapace di andare al di là di bolsi enunciati e scontate, quanto vane promesse. Il ritornello penitenziale è stato quel grido “lavoro, lavoro, lavoro” che il Papa ha sublimato, trasformandolo in salmo responsoriale. «Questa è la vostra preghiera. Deve diventare anche la nostra».

Significativo che, al termine di ogni discorso ufficiale o colloquio personale, ci sia stato, insistito e sincero, quel «prega per me, pregate per me». Che non è frase di circostanza, ma confessione autentica, riconoscimento convinto della propria debolezza, bisogno continuo di conversione e liberazione dal peccato. Una sorta di lectio divina proseguita in Cattedrale, alla Facoltà teologica e, infine, nella calda arena della Via Roma.  Con una consegna precisa, a clero e laici, di con-dividere responsabilità e impegno nella costruzione della Chiesa del Terzo Millennio, «non una Ong ma una comunità che si fa carico della persona, di ogni persona, centro del progetto divino, oggi sostituito dal dio-denaro».

Da Papa Francesco ribadito l’imprescindibile impegno del cattolico in politica (chiosando Paolo VI “forma più alta in assoluto della carità cristiana”) con un’attenzione particolare alla «musica dei giovani», categoria non anagrafica ma evangelicamente intesa, rappresentando quel mondo di “incontaminati, entusiasti, cristianamente utopisti” oggi marginali e marginalizzati da questa classe dirigente, a tutti i livelli.

Le reti sono state gettate. Duc in altum, Sardegna.

 

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