La Repubblica, 1/05/2014. Che cosa accade quando le nazioni diventano eterogenee? Che cosa accade quando la migrazione su vasta scala di profughi disperati e di uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, immigrati legali e illegali — che cosa accade quando queste persone danno vita a popolazioni multi-culturali? Una risposta alla migrazione e alla diversità è un nuovo fermento a favore dell’inclusione e dei diritti umani, diritti che non dipendono da un’appartenenza politica di lunga data e da ricordi condivisi — il trionfo, potremmo dire, dei “diritti dell’uomo” della Rivoluzione francese sui “diritti del cittadino”.
Vediamo il trionfo quanto mai chiaramente nell’estensione di molti diritti del cittadino ai residenti stranieri e altri non-cittadini, inclusi gli immigrati illegali. Questa è opera della sinistra liberale (che io appoggio), ma è strana, perché quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità. Questa potrebbe anche essere la cosa giusta da fare, ma lascia la sinistra priva del modello di cittadino virtuoso, attivista, che decide per sé. E diventa sempre più difficile sostenere una cultura civica comune.
I paesi rivestiranno un significato minore per i loro abitanti, perché molti di loro non vi risiederanno da lungo tempo; le tombe dei loro antenati saranno altrove; il terreno sul quale vivranno non sarà per loro suolo sacro, e i loro visti non evocheranno ricordi storici e personali. In queste condizioni di eterogeneità, pluralismo culturale e individualismo radicale, che cosa accadrà, che cosa è accaduto alla solidarietà che sta sotto e che sostiene il welfare state? Se non ci sentiamo intimamente connessi agli altri abitanti del nostro paese, se non abbiamo in comune storia, religione e così via, se pensiamo a noi stessi come a una “serie” sartriana di individui scollegati tra loro — se tutto ciò è vero, chi mai sosterrà politicamente il welfare state o sarà disposto a pagare le tasse di cui esso necessita? Chi investirà tempo ed energie in discussioni politiche o in un’azione politica?
Al contempo, intrinsecamente collegato con ciò che ho appena descritto, c’è un nuovo globalismo; non è proprio la stessa cosa dell’internazionalismo della vecchia sinistra, ma dovremmo considerarlo la versione del XXI secolo dell’internazionalismo, evidente in organizzazioni come Medici senza Frontiere, Human Rights Watch, e Amnesty International. Gli aiuti umanitari per le persone in difficoltà in tutto il pianeta sono molto popolari oggi. Se ci sono meno cittadini impegnati nel nostro paese, abbiamo però molti più cittadini impegnati nel mondo; attivisti all’estero. Questi impegni globali non sembrano poter rendere possibile una vibrante politica liberale/di sinistra in patria, e non penso che questa sia una mera coincidenza. Di fatto, è più facile, tenuto conto delle condizioni che ho descritto, difendere i diritti umani nei paesi di altri popoli che unirsi alla lotta contro l’ineguaglianza negli Stati Uniti (o l’Italia, o la Germania, o il Regno Unito).
Anzi, la nuova battaglia per i diritti umani è stata accompagnata da una smobilitazione politica in patria. Ogni società umana produce gerarchie di ricchezze e potere e oggi questa produzione si attua non all’interno delle società, ma in modo trasversale a esse, nella società globale, dove le banche internazionali e le multinazionali operano con modalità tali da assicurare grandi ricchezze a pochi e determinare periodiche crisi per molti. Ai vecchi tempi, nello stato di cittadini attivi o potenzialmente attivi, questa tendenza persistente verso un ordinamento gerarchico era talvolta interrotta dalle ribellioni delle classi subordinate — agitazioni di cittadini precedentemente passivi che confluivano in movimenti sociali potenti e che davano vita a regimi socialdemocratici, welfare state, e disordini o perturbazioni nelle vecchie gerarchie.
L’idea dell’uno per cento e del novantanove per cento, lo slogan del movimento Occupy, non è un esempio di analisi di classe. È un appello populista, e potrebbe essere politicamente utile. Ma dovremmo usare prudenza nei confronti del populismo (proprio come dovremmo essere cauti nei confronti dell’anarchismo), perché non è una politica sostenibile, non cambia il mondo, ed è accessibile tanto alla destra quanto alla sinistra. Il lavoro di creazione di un movimento deve essere molto più concentrato. Deve essere opera di persone che sono per lo più in difficoltà, e deve derivare dal riconoscimento da parte loro delle proprie esigenze. Se deve esserci un movimento di classe di persone colpite o minacciate dal capitalismo neo-liberale, deve essere un movimento con obiettivi concreti e un programma specifico. Non so come dar vita a un movimento concentrato di questo tipo, ma è possibile prepararsi per la sua comparsa a livello intellettuale e di organizzazione.
Dobbiamo anche essere pronti a far fronte al pericolo che si nasconde lungo il nostro cammino, il pericolo che nelle nostre società diverse ed eterogenee il movimento che auspichiamo sia preceduto da una politica nazionalista e xenofoba nei confronti delle minoranze, degli immigrati, dei rifugiati. Questo è un altro motivo per il quale la gente di sinistra non dovrebbe mai prendere alla leggera il populismo. Ci occorre una democrazia sociale rinvigorita e militante, che parli la lingua di classe, i cui leader siano preparati, quando verrà il momento della ribellione, a unirsi, a organizzare, a esercitare pressioni sui ribelli verso una politica di solidarietà, di aiuto reciproco e di cooperazione transfrontaliera.
Jürgen Habermas ha scritto in modo ispirato dell’«abietto spettacolo della società capitalistica mondiale frammentata lungo le linee nazionali». Ma è nei nostri stessi frammenti, nei nostri stessi stati-nazione, che dobbiamo iniziare. Questo, a ogni modo, è ciò che credo: che se recupereremo la cittadinanza a casa nostra, scopriremo che il mondo non è tanto distante. ( Traduzione di Anna Bissanti)
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di Sergio Portas
Da quando è mancata mamma, a novant’anni suonati giusto un anno fa, il tratto di mare che mi separa dalla Sardegna, si è fatto grande come l’oceano. Non c’è più chi mi racconti le cose di Guspini degli anni trenta e passa, quando tutti (o quasi) i bambini andavano a scuola scalzi e c’era giusto Licio Atzeni che si poteva permettere il lusso delle scarpe, ma lui era figlio di calzolaio. Con Licio mamma, Pinuccia Cherchi, era compagna di scuola: a scorrere le foto che Roberta Saba ha messo insieme nel suo “In Guspini” (editoriale Documenta 2011) ci si imbatte nella seconda elementare della scuola Grazia Deledda dell’anno ’29-30, foto n°176, ci dovrebbero essere ambedue tra quei cinquanta bambini dagli sguardi seriosi che circondano una maestra che sapeva indubbiamente come far rispettare la disciplina. E’ pur vero che erano quelli tempi di grandi ubbidienze collettive e se il fascismo dominante sapeva far marciare ogni sabato avanguardisti e figli della lupa, nonché piccole italiane, figurarsi se i maestri del tempo potevano avere difficoltà nell’ottenere il silenzio assoluto nelle loro lezioni cattedratiche. Licio Atzeni comunque ebbe vita di sindacalista e fu politico comunista, anzi ho spesso arzigogolato che la scelta di chiamare suo figlio Sergio dipendesse anche dal fatto che questo fosse un nome “russo”, una sorta di marchio di sinistra, così penso che fu la scelta del mio del resto. Cosa non infrequente in quella specie di Stalingrado minore che si considerava la Guspini del dopoguerra, dove i voti che il partito comunista mieteva alle elezioni sfioravano spesso la maggioranza assoluta, con la miniera di Montevecchio a far da matrice. Sergio Atzeni è del ’52 e prima di annegare nel mare in tempesta di Carloforte , era il settembre del ’95, ebbe modo di scrivere molto alternandosi con diversi registri espressivi. Dal romanzo ai numerosi racconti, alla fiaba. E al lavoro di cronista di giornale. Anche a lui toccò in sorte di passare il mare per cercare di sfangare la vita in continente, e come tutti i sardi emigrati si interrogò per tutta l’esistenza di quale natura fosse composto quel sentimento che lo teneva ancorato all’isola natia. Senza mai poter scegliere in quale lingua Morfeo avrebbe permesso ai personaggi dei suoi sogni di esprimersi nel dormiveglia del mattino. “Credo che la lingua sarda sia bellissima, scriveva, per quanto riguarda la varietà che amo di più e che so parlare, il cagliaritano, mi dispiace che si perda perché è idioma straordinariamente ricco, adatto all’insulto, all’invettiva, al racconto buffo, ed è anche la fonte di quell’italiano bislacco parlato a Cagliari, mescolando parole, costrutti linguistici. Questa è una ricchezza, ogni volta che più lingue producono mescolanza e contaminazione c’è arricchimento…Immetto nell’italiano delle quantità di sardo, seppure molto limitate. Se avessi la capacità di immetterne di più mantenendo merito artistico e comprensibilità lo farei, perché credo che uno dei compiti dello scrittore sia arricchire la lingua. L’unico modo in cui posso arricchire la lingua italiana dal punto di vista dei vocaboli è recuperandoli dall’esperienza sarda”. La Cagliari dei rioni popolari fu la miniera inesauribile di personaggi che occuperanno i suoi scritti, facendo seguito ad un modo narrativo in cui il racconto orale delle individualità rimane sotteso nella scrittura, modo molto sardo del resto che è tratto distintivo, ontologico viene da dire, di molti scrittori isolani. Non a caso Marta Proietti Orzella che con Alessandro Aresu ( lui si occupa dei suoni e delle musiche armeggiando tra chitarra, sinth, percussioni, cajon) mette in scena uno spettacolo al teatro Elfo Puccini di Milano: titolo: “Cantar l’Altrove” , prosa e poesia di Sergio Atzeni, da “Versus” e “I sogni della città bianca”, esordisce con: “Parole, ecco quel che ricordo. Le parole cagliaritane dei vicini di casa: zerrius, scraccaglius, fastimus, cantus, boxis, sonus, prantus, arrisus”. L’Orzella e Aresu sono cagliaritani ambedue quindi in perfetta sintonia d’intenti di questi scritti di Atzeni che non sono fra i più conosciuti della sua produzione narrativa. Del resto di “Versus”, che pure è edito da Feltrinelli, non riesco a trovarne una copia in nessuna delle numerose librerie milanesi, per i “Sogni della città bianca” sono più fortunato che vanno navigando insieme ai mille e mille libri che si possono leggere nell’oceano mare di internet. Marta Proietti Orzella è molto brava nel calarsi nei diversi personaggi che Atzeni fa parlare nei suoi scritti, le basta mettersi in capo un fazzoletto nero perché diventi beghina impenitente che nella “Storia della Monaca” si permette di esordire così: Non per sparlare della morta, pover’anima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamol’amatissimo feretro, ma Maddalena, da giovane, era magra e pallida, uno stecco passato in lisciva, ti dico, studiosa e religiosa, bigotta cioè, sempre appiccicata alle sottane di Don Mosè, fino alla terza magistrale. Allora hacominciato, con le coglionate.
Il tutto in un’atmosfera resa più triste da una scenografia immersa in un buio che fa ancora più bianche le facce dei due attori-musicisti, e rende i gesti d’espressione come fuoriusciti da una oscurità parente stretta dell’inconscio. Terribile è del resto il racconto di questa monaca mancata che , dal convento di Bressanone dove non si capisce bene cosa accada, rientra in Sardegna per accudire la anziana madre e, recita l’attrice, occuparsi preventivamente dell’eredità. Ma ora anche lei è morta e, chiude il monologo l’attrice: “Non per sparlare della morta, pover’anima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamo l’amatissimo feretro. Ma era proprio una troia!”. La storia di “Carluccio e di colui che narra” mi fa venire la pelle d’oca ancora adesso a pensarla, La Proietti Orzella riesce a rendere il personaggio del pazzo che racconta la storia così reale che pare mutarsi in maschio, lei così femminile, per magia della fata che regna nel teatro:
Sono il musicista del manicomio. Non è strano: sono matto anch’io, come gli altri; in più suono la chitarra, e conosco storie che altri non conoscono; le cantavo, le mie ballate, anche quando non ero matto; le canto ancora; storie comuni, di donne. Gelosie.
Finisce molto male, come spesso le storie che Sergio Atzeni è andato collezionando nella sua non lunga vita, Salvatore Mereu ne ha riproposto alcune nel suo fortunato lungometraggio “Bellas Mariposas”, dove ha disegnato le figure di Cate e Luna, due undicenni che vivono in un quartiere di periferia di una Cagliari assolata e spietata, circondate da un ambiente famigliare dalle fondamenta improbabili che prefigura un futuro che più incerto non si può. Mi piace come scrive Sergio Atzeni, e di lui mi piacciono le problematiche che sottendono il suo volersi esprimere con la penna, questa impossibilità di svestirsi di una sardità ineluttabile, in un contesto oramai più europeo che italiano. La sua persuasione che non ci sarà una rivoluzione che ponga fine ai dolori del mondo, e che è la voce dei poveri e degli sconfitti ad arricchire le note delle canzoni che ci formano e ci ammaliano. Come i muttettus di una volta: quell’innamorato respinto che si rivolge a Lei cantando: “Si mmi bbis interrai/ inzaras m’as a kkrei/ ingratu mm’as a nnai/ kust’è mmortu bo mei”. Trallalleru lerà lerà lalleru…Lei la Sardegna.