Lo specchio [di Franco Meloni]
Ho sempre nutrito un odio profondo per tutto quello che assomiglia al sangue. Da piccola lo temevo quando, inaspettatamente, mi usciva a fiotti dal naso. In montagna, in funivia, senza alcuna possibilità di nascondere il fatto, mi aveva imbrattato la giacca a vento bianca. Sbucciarmi le ginocchia, magari su sporchi sassolini con polverose foglie secche, comportava un rapporto con questo liquido denso ma veloce che non provocava dolore pur essendone immancabile compagno. Ero terrorizzata dal saperlo dentro di me e non poterlo controllare. Provavo a smettere di respirare per tempi lunghissimi, ma il cuore batteva sempre. E trascinava su e giù questo fluido che mi convincevano, o almeno tentavano, essere utile per tutti noi. Io ne avrei fatto volentieri a meno. L’aria non si vede e non si sente, ed è altrettanto indispensabile. Lo ritenevo una profonda ansa nel fiume lunghissimo dell’evoluzione. Superflua, da sostituire. Quando mi procuravo una pur piccolissima ferita, dovevo guardare il terribile liquido solo riflesso da uno specchio. Solo così ero certa di diminuirne l’influsso negativo. La repulsione era trasmessa al cibo. Pensare di poter mangiare tessuti e muscoli contaminati dal sangue mi faceva star male. Vegetariana a quattordici anni, sfuggendo alle soffocanti incitazioni genitoriali che imponevano un misto di proteine animali e alimenti che, anche senza sangue, non mi andavano per niente. Solo lo specchio mi poteva convincere che la ragazzina che, giorno dopo giorno, cresceva malgrado o grazie alla mancanza di bistecche poco cotte e trucidi spiedini, sarebbe un giorno riuscita vincitrice nella guerra contro il cibo rosso. Lo specchio, fidatissimo e sincero custode dei miei tratti un po’ spigolosi ma sicuramente non inquinati da mangiarini adulterati, mi consolava nel vedere pressoché assenti i segni di una alimentazione corrotta. Amici, poi subito abbandonati, amavano cuocere dei piccoli porcellini allo spiedo. Avrei preferito morire piuttosto che avvicinarmi ai fumiganti e puzzolenti bracieri, dove allineate come in un caldo cimitero testine e fegati emanavano un acre odore di morte. Ero sicura che la razza umana non avesse scampo nel cammino verso la propria distruzione. Quello che mi faceva comunque soffrire era la presenza di piccole imperfezioni nella pelle del viso, scrutato ad ogni ora del giorno e della notte. Pur non mangiando carne, la mia epidermide non brillava. Il grano tenero e le torte di mais condite col tofu non miglioravano il mio aspetto. Più mi guardavo allo specchio, più odiavo la carne, anche quella di esili e slavati polli. Un video sulla caccia alle balene aveva poi, dopo lunghe ore trascorse in bagno, determinato l’avversione per ogni cosa vivente e animale. Carote e zucchine, senza trattamento di alcun genere, costituivano la base della mia dieta. Non avevo una vita con alto grado di socialità. Stranamente, tutti mi evitavano. Eppure, ad ogni pranzo o cena, raccomandavo senza esagerare di non mangiare ignobili perversioni quali la pasta col ragout o, orrore, le fettine impanate. Solo quando cercavo di buttare tutto nella spazzatura i miei amici, incredibilmente irritati, mi chiedevano con poca gentilezza di lasciarli in pace. I miei capelli erano decisamente brutti. Lo specchio mi rimandava l’immagine sciatta di una persona definita anemica. Fragili spaghetti con triple punte. Pensare poi a certi giorni del mese mi prostrava profondamente. Mi riusciva impossibilmente penoso solo accennarne. Fidanzati, fino ad allora, nessuno. Giorgio mi aveva attirato fino a quando, forse scherzando, mi aveva proposto di diventare una sola carne. Lo liquidai gelidamente. Frequentavo un corso a distanza su internet. Psicologia del comportamento. Non mi sembrava un granché. D’altra parte la possibilità che qualche collega si ferisse in un’aula mi aveva giustamente fatto evitare la frequenza all’università. Un giorno avevo assistito a un incidente stradale. L’asfalto era rosso. Svenni. Un camioncino della salsa Campbell si era rovesciato. Nessun ferito ma molta sporcizia. Non era facile uscire di casa. Con uno specchio osservavo i passanti chiudendo gli occhi ogni volta che il semaforo imponeva il divieto di transito. Le amicizie al momento significavano tre componenti del circolo salutista che frequentavo una volta al mese. Era stata organizzata una gita in Jugoslavia. Forse anche in Romania. Sicuramente avremmo trovato cibo sano e confacente al nostro semplice modo di vivere. Visita di santuari e laghetti solo al di sopra dei mille metri. Lontano dalle folle vocianti delle coste. Aria pulita e passeggiate nei boschi. L’automobile era quasi a tenuta stagna per evitare immissioni di gas lungo i percorsi alternativi. Avremmo allungato un po’ ma certamente evitato le autostrade. Tutto andò bene fino alla visita di un castello al confine con grandi boschi dove sembrava assente il segno dell’uomo. Non si sentivano neppure i suoni degli animali, forse perché tenuti alla larga da ultrasuoni che dovevano garantire la nostra sfera di incolumità da portatori di chissà quali orrende malattie. All’improvviso tutto precipitò. Mi specchiavo sulle rive di un laghetto cercando di contare le rughe che circondavano i miei occhi chiari, lucenti in contrasto al blu delle borse sotto di essi. Un grande dolore al fianco. Appendicite con rischio di peritonite, recitava la cartella clinica del piccolo ospedale dove ero stata portata dai miei compagni di viaggio. Terrorizzata, stordita dai tranquillanti, assistevo all’opera di dottori che parlavano una lingua sconosciuta e che, comunque, sembravano efficienti. Tre giorni dopo ero sulla via del ritorno. Europ Assistance aveva provveduto a tutto. I miei amici, non particolarmente rattristati dalla mia assenza, continuarono il viaggio. Io mi sentivo abbastanza bene, stranamente molto meglio all’inizio della gita. Anzi, molto meglio che negli ultimi dieci anni. Controllai la cartella clinica e lessi che, orrore, mi era stata fatta una trasfusione. Troppo debole, era la motivazione. Il braccio, attentamente osservato, mostrava un piccolo ma l’inequivocabile segno di una puntura. Senza il mio permesso. Incredibile. Non riuscii comunque ad arrabbiarmi troppo. Sentivo un certo appetito, anzi, fame. Una fame come da tanto non ricordavo di aver provato. Il frigorifero era praticamente vuoto, a parte una grande quantità di tristi carote. Uscii per fare la spesa e stupii il macellaio all’angolo, sempre accuratamente evitato, con la richiesta di bistecche, fegato di maiale e di sanguinaccio. Anzi, gli chiesi di procurarmi il rosso e vellutato liquido, avrei preparato io stessa l’invitante composto. Corsi a casa e mi guardai nello specchio all’ingresso. L’immagine, forse a causa della fame da sopire, era offuscata. Anzi, quasi assente. Ero sicura di essere di fronte allo specchio ma il mio fedele amico non rifletteva le mie sembianze. Non mi preoccupai, accesi la televisione: Il silenzio degli innocenti. Bellissimo. Sarei tornata presto in Transilvania.
*Fisico, Università di Cagliari. Narratore
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