Cagliari 17 febbraio 1793: non fu un errore, un forte vento e fu il miracolo [di Mario Salis]

Efisio

I proverbi, “sentenziava”Miguel de Cervantes sono piccole sentenze, espressioni di filosofia e saggezza popolare. La verità è senza varietà, recita un adagio toscano mentre il longevo anarchico conservatore Giuseppe Prezzolini scrittore, aforista,  nato per caso a Perugia, ma dalla persistente vena satirica senese, Penna d’Oro nel gennaio del 1982 per mano del Presidente Sandro Pertini osservava senza torto: “la verità è sempre la correzione di un errore, e quindi l’errore fa parte della verità”.                                                                                                                                            

Ma un errore è pur sempre un errore, anche sotto le mentite ed ipocrite spoglie di un refuso, come alla 39° riga del recente Sant’Efis Sballiau di giovedi 1° maggio, quando si colloca l’assedio francese nel Golfo Cagliari nel 1796 anziché tra la fine di dicembre del 1792 e gli inizi 27 gennaio 1793. Il titolo, un presagio? Addossargli anche questo, per quel che ha fatto sarebbe ingeneroso, un sacrilegio. Sostenere che affidarsi alla definizione del monitor, piuttosto che alla stampa del documento, può costituire un’ aggravante.

Confidare sul non visto non è eticamente corretto per chi scrive, figuriamoci per chi ha la pazienza di leggere. Infatti  la Carta dei Doveri del Giornalista a cura del Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti – Federazione Nazionale della Stampa Italiana dell’8 luglio 1993, prevede dai principi come nelle premesse fino ai doveri: si “rettifica quindi con tempestività e appropriato rilievo, anche in assenza di specifica richiesta, le informazioni che dopo la loro diffusione si siano rivelate inesatte o errate”.

Stampa ed errori di stampa forse anche gli strafalcioni, sono nati insieme: prima l’errore di scriptorum era un illustre sconosciuto. In uno dei suoi primi libri l’orefice di Magonza scrisse spalmorum invece di psalmorum, nel famoso «Psalmorum Codex» del 1457. I caratteri mobili, potevano spostarsi maldestramente. Letta e riletta la bozza, l’errore sfuggiva per cui quando il correttore automatico non era stato ancora inventato la composizione di un libro senza nessun errore equivaleva, quando lo era,  ad una seconda opera d’arte. Gli onesti stampatori aggiungevano una pagina con l’elenco degli errori, rivolgendo al lettore la preghiera di sostituirla.

I moderni venditori, soprattutto quelli via etere, assordanti dichiarano la merce esente da danni, saranno i malcapitati acquirenti a scoprirli e le associazioni dei consumatori a denunciarli. Come diceva il brillante Cesare Marchi: oggi sempre meno si aggiunge l’erràta còrrige non perché siano diminuiti gli errori ma soprattutto l’umiltà. Quanto ai giornali, compresi oggi quelli  on line – anche regionali importanti – avrebbero bisogno quasi della metà del loro spazio e poiché l’altra è riservata alle rettifiche ed alle smentite, non ci sarebbe più spazio per le notizie. Con l’affermarsi del web questa buona abitudine, si è quasi dissolta sfuma nel sito o nel blog dell’autore, oppure riappare provvidenzialmente postuma, quando l’errore viene scovato.

Un approfondimento sui fatti di quel 1793 possono avere una funzione riparatoria, almeno sinceramente me lo auguro. Il 14 luglio del 1789 mentre a Parigi la Bastiglia è presa d’assalto, a Cagliari si svolge un’ insolita rivolta teatrale, non una commedia. La risentita protesta nasceva dal privilegio di un crescente numero di nobildonne ad occupare i più prestigiosi e migliori palchi del Teatro Regio. La paura di tumulti, fu risolta con equanimità e genialità monarchica, attraverso l’imbussolamento promiscuo, affidandosi al responso della sorte a prescindere dalla migliore ubicazione dei palchi. Qualcuno fece risalire a quell’episodio insignificante ma edificante al tempo stesso, il delinearsi di una nuova stagione dei diritti e di una promettente presa di coscienza civica, per altri giusto per rimanere nel genere, una farsa. 

Fu così che i francesi galvanizzati, nel settembre del 1792, dai successi di Nizza e della Savoia, decisero di puntare verso la Sardegna, e non per una crociera. Sotto la calma apparente della tranquilla capitale, sommessi ma crescenti si insinuavano sentimenti antipiemontesi. Conquistarono senza difficoltà, anche per via di una ritirata strategica dei capisaldi costieri verso l’entroterra, prima San Pietro e poi Sant’Antioco. Le facili conquiste inebriano quasi sempre i conquistatori senza allarmarli quanto basta per far crescere la diffidenza, mentre si alimenta la strategia del ripiego che prelude al capovolgimento delle sorti. 

Come ad ogni imprevista sconfitta, si recriminò dopo, sull’approssimativo allestimento della spedizione, tale da permettere all’esitante vicerè Balbiano di consolidare le difese, organizzare le rimaneggiate guarnigioni, i fedeli miliziani ed altre formazioni irregolari di soldataglia, provenienti dell’interno, non meno bellicose e spietate come vedremo.

Fu così che il 27 gennaio del 1793, all’orizzonte laddove il mare non aveva fatto mai del male, si delineò minacciosa come in un’inaspettata apparizione, la flotta navale dell’Ammiraglio Truguet, seminando il panico tra gli angeli del Golfo senza spaventare il diavolo sulla sella. Sant’Efisio, non visto per fortuna, già sovrastava tra le nubi quei cieli, come nell’incisione in rame del cagliaritano Gioacchino Corte. Prima sul lato Est alla rada di Quartu doppiando il Capo Sant’Elia cominciò il cannoneggiamento. Dettagliati i resoconti come abbondante l’iconografia – non possiamo che affidarci alle versioni dei cronisti del tempo. La mattina del 28 alle otto in punto, dalle nove navi schierate, partì un colpo a palla secco, che riecheggiò amplificandosi in tutto il golfo, era solo un fragoroso ed innocuo preavviso del nutrito seguito di fila di bombe, palle e granate che  infrangendosi sui bastioni, colpendo prima le torri, le scavalcavano come il tuono disperdendosi nell’interno fino a quaranta miglia.

Le batterie della piazzaforte investite da tale intensità di fuoco, rispondevano pigramente di rimessa, in realtà per il momento oltre non potevano. Alle 10 il bombardamento navale fu sospeso, interpretato il silenzio come un esito lampo favorevole dello scontro, inviarono due lance ben armate per verificare più da vicino i danni dell’artiglieria navale e forse tentare un audace sbarco, ma dovettero presto desistere, voltando precipitosamente le prue, accortisi della invulnerabilità delle batterie, che adesso con un fuoco preciso le sospingevano danneggiandole verso le proprie navi, riparando sulla loro banda.

Wooden ships and Iron men – navi di legno uomini di ferro – come le parole dell’inno della Royal Navy. Cominciava il gioco al massacro per chi stava a bordo, per quanto armate fino a cento pezzi, le più munite ed imponenti, ai fianchi la quercia del loro fasciame cosa poteva contro le bordate precise del fuoco costiero, quando per la loro scarsa manovrabilità diventavano un bersaglio fisso. Ci voleva una buona dose di coraggio e se i marinai da soli non se lo potevano dare, ad aiutarli ci pensava la razione giornaliera di birra, rhum ed altri alcolici che poteva arrivare fino a quattro litri ciascuno, salvo poi punire severamente i casi di ubriachezza. Ma se sopportavano l’alcool come reggevano il mare non si registravano casi di codardia né di ammutinamento.

Smesso alle quattordici il tiro dalle murate dei velieri, riprese quello costiero: insidioso, cadenzato con i suoi colpi precisi, danneggiando presto l’ammiraglia francese che piglia fuoco e deve essere rimorchiata fuori tiro per non affondare. Ma è risaputo, il bombardamento navale oltre che rappresentare una coraggiosa incursione corsara su acque nemiche, vuole  soprattutto infliggere la disonorante beffa dell’impresa, alla sua popolazione il panico del frastuono più che dei danni apprezzabili, che nella fattispecie concreta, finirono per essere esigui: casupole che già faticavano da sole a tenersi in piedi, qualche buco sul tetto, vetri infranti dallo spostamento d’aria, quelli sì molti, qualche balcone defenestrato, barconi già malconci semi affondati nella darsena, palle neutralizzate ed  imprigionate dai contrafforti delle mura.

Come nell’omonima commedia shakespeariana ambientata a Messina: “molto rumore per nulla”, o quasi. Ci voleva la spallata finale, questa volta a terra. A Capo Pula il ricongiungimento con la divisione navale del Contrammiraglio Latouche-Treville, che imbarca i suoi fanti di marina. Cagliari fra il 12 e il 16 è di nuovo sotto attacco, incessante le bocche di fuoco navali che  vomitano colpi, questa volta però vanno a segno, aprendo dei varchi tra le munite fortificazioni. A Quartu in cinquemila innalzando con le braccia i fucili, si bagnano le ghette fino alle ginocchia per raggiungere la battigia, molti di meno nella baia di Calamosca poi alla volta di Sant’Elia, poco dietro, Cala de Perdusemini.

In certi frangenti è più facile difendersi che attaccare, non c’è partita per chi non conosce un territorio accidentato, infido, inospitale, alternato da acquitrini e da pericolosi mimetismi palustri. Senza difficoltà sono fronteggiati dagli uomini al comando di Antonio Pisano. Gli altri pure sono respinti dai miliziani scarlatti di Girolamo Pitzolo. I marò francesi, bivaccano a Margine Rosso. Attaccati di sorpresa, divisi, sono sbandati; braccati, vengono sconvolti, in preda al panico si sparano a vicenda. La disfatta investe e scompaginai volontari marsigliesi, facile preda più dei loro demeriti che del valore dei nemici, secondo la vulgata francese.

Si coprirono di gloria ed encomi alcuni comandanti, come il Capitano Domenico Millelire. Comincia la caccia all’uomo, al soldato francese. Efferata, spietata in un posto di per se una trappola naturale per le sbarcate avanguardie, senza vie d’uscita se non riguadagnando il mare. L’interessante libro di Maurizio Puggioni “La spedizione della flotta francese contro la Sardegna” con annotazioni e commento di Fernando Pilia, non lascia spazio a faticose immaginazioni, non da adito a distinzioni di sorta tra i vincitori sardi e quelli di altre aeree geografiche, davanti al bottino son tutti uguali. Alcune sequenze sono piuttosto esplicite ed edificanti, quando un guerriero isolano, più o meno nei ranghi regolari, mentre si appresta sul nemico a sferrare con la sciabola il colpo di grazia, viene fermato da un suo commilitone che gli intima: no iscudas, ca chergio sa ciuppa totta intrega. Un altro bittichese prima che il suo compaesano facesse sommaria giustizia di un francese inerme, cercò di fermarlo prima che facesse strame e scempio della sua candida ed ornata blusa, al che con disappunto gli indicò la libera e facile disponibilità di francesi in ritirata esclamandogli: si ’nde cherese, bocchirinde!

La popolazione s’invocò a Sant’Efisio, mentre l’arcivescovo Mons. Filippo Melano non si fece pregare per portare in devota processione il simulacro di Sant’ Efisio proprio fino al quel molo del porto a lui intitolato. Per supplica e desiderio, con auspicio e  preghiera e senza previsione alcuna: al tramonto del 17 febbraio come spesso soffia a primavera salendo da  Sud-Est o Sud-Ovest un vento umido e caldo con il pulviscolo proveniente dal Sahara che in mare compromette la visibilità. E’ lo Scirocco secondo altre fonti il Libeccio che si rinforza con lampi, tuoni, pioggia battente e burrasca oppure calmarsi improvvisamente con la stessa rapidità con cui è nato. Rovesciate e scaraventate a riva due tartane, una polacca e 30 scialuppe: due fregate disalberate, successivamente  smantellate. Alcune furono disancorate con la perdita delle gomene od alla deriva private del timone. Una delle più armate la Lèopard con più di settanta cannoni finì sopra una secca alla Scaffa. Si rivelò vano ogni sforzo per disincagliarla, anche dopo averla disarmata ed alleggerita di ogni attrezzo pesante, per cui tra la notte del 25 ed il mattino del 26 gli fu dato fuoco per precluderne ogni riutilizzo. Tra il 22 ed il 26 febbraio quel che rimaneva di quella spavalda ed ordinata flotta, girò di bordo per prendere il vento verso casa.

La vita monotona di guarnigione della piazzaforte di Cagliari, subì un tumultuoso risveglio. Molti fino ai giorni nostri non ebbero a compiacersi di quella memorabile battaglia, che divenne singolare per molte concause e effetti, col rimorso di aver avversato il dirompente corso della Rivoluzione Francese.

La peste del 1656 ai tempi di Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello, colpendo la regione partenopea, si concentrò nel Regno di Napoli. Con oltre centocinquantamila vittime, come scrisse Nino Leone in una sua monografia: dove non erano riusciti il Vesuvio né l’anno di rivolta, riuscì invece il morbo pestilenziale. L’epidemia proveniva dalla Sardegna, Si cominciò dall’importante porto di Alghero dilagando presto anche a Sassari e giù verso Cagliari, ed a nulla valsero l’adozione di  misure drastiche di isolamento. Il morbo si fece strada in ragione di esigenze commerciali e fiscali, aprendosi breccia sicura nella capitale, che cominciò, come sempre accade a negare l’evidenza, proseguì indisturbata sulle rotte di esportazione del grano: Roma, Napoli, Genova furono messe in ginocchio. Il conseguente calo demografico cancellò intere generazioni di intellettuali, politici, ed artisti.

A Cagliari alle soglie dell’estate, si contavano duecento decessi al giorno. Medici della peste impotenti, apparitori e monatti facevano prima a contare i vivi non sapendo più dove sistemare i morti. Quelli di Castello rimanevano nei pressi di San Pancrazio, un’antica cisterna divenne un sepolcro, quelli di Stampace al Carmine, a Villanova nelle profondità dei pozzi della Marina ed in una più capiente cavità di Bonaria. Prima che l’estate volgesse al termine la situazione era finalmente in via stabilizzazione. Il bilancio delle vittime oscillò tra gli ottomila e dodicimila morti, gli ultimi focolai si spensero nel 1657.

Si credeva che la malattia provenisse dalla strana inclinazione dei pianeti oppure dai cattivi odori che provenivano dal sottosuolo. La Chiesa credeva che la peste fosse una punizione divina, fiori, erbe e tabacco assunti come farmaci inefficaci. Disgregazione sociale, criminalità e blocco dei commerci completavano il quadro. Nel Medioevo, in Europa, la peste bubbonica venne trasmessa dalla pulce Ceratophillus fasciatus. I cagliaritani si invocarono a Sant’Efisio, funzionò ed ancora oggi memori, sciolgono il voto ogni Calendimaggio.

Negli anni settanta dello scorso secolo presso l’Istituto Leonardo Da Vinci di Cagliari, il suo longevo preside Professor Antonio Mattu docente universitario di lingue, si aggirava spesso tra i silenziosi corridoi, spalancando a sorte le aule degli allievi maturandi. Un libro sottobraccio, la domanda perentoria ed imprevedibile, quella volta fu una simulazione di colloquio in francese. Quasi per improntitudine e per un senso di sano agonismo didattico, mi cimentai con successo e come ricompensa il solito “dono” scritto di suo pugno con timbro autografato del Signor Preside: un libro di Walter Gérard “la Rivoluzione Francese” della collana Testimonianze Storiche. La Rivoluzione come blocco unico: le otto giornate che hanno rivoluzionato la Francia; i grandi processi della Rivoluzione; la vita quotidiana dei francesi “sanculotizzati”. La Rivoluzione così com’era cantata: la Marsigliese, il più bel canto che tutti invidiano alla Francia nata in un mattino di primavera per iniziativa di un ricco industriale alsaziano amico di La Fayette, fece comporre una marcia travolgente e contagiosa del popolo.

Giovedì era tutto al solito posto nella chiesetta di Stampace, le consorelle come abituali ed effettive dirimpettaie, con disinvolta simpatia m’informavano che Sant’Efisio non c’era, potevo affidarmi ai suoi sostituti: Sballiau sotto la luce soffusa delle candele e quello del Lonis nella teca della coccera senza cocchio. Nel banchetto dei souvenirs ho riletto is goccius mentre nel libro di Gèrard non ho trovato nulla che cantasse le vicende svoltesi nel Golfo degli Angeli, ritornati al proprio posto con il diavolo sempre sulla sella. Si sa, è più facile cantar le vittorie che rimembrar le sconfitte con le melodie a mezza voce.

Fu così che a Cagliari s’innalzarono is Goccius de Sant’Efis, agiografia di lode e gaudio, di autori incerti e di probabile derivazione catalana De su gloriosu Martiri Sant’Efis protettori de Casteddu, capitani giai valenti, Protettori poderosu de Sardigna Speziali liberainois de mali Efis Martiri Gloriosu. Si spense presto il grido: aux armes citoyens formes vos bataillons, tra il ribollir dei flutti ed il soffiare del fortunale, quando cessato l’effetto del vento torna il tempo buono con il cielo sereno, Sant’Efis è già a Giorgino, subito a su Mulinu lo accoglierà la sua pompa e via dritto per la sua stessa strada. Anche stanotte dall’ambone della sua chiesa di fronte ai fedeli, le autorità civili ed ecclesiastiche, il voto espresso dalla Municipalità di Cagliari sarà sciolto per la 358° volta.

One Comment

  1. Mario Masala

    Interessantissimo. Lascio qualche frammento di storia. L’Ammiraglio Truguet, di Tolone, all’epoca dell’assedio di Cagliari aveva 41 anni e morì a Parigi nel 1839. E’ sepolto a Parigi al cimitero Père Lachaise. La sua tomba è ornata da una colonna spezzata in marmo grigio. Pochi mesi dopo l’assedio di Cagliari, 13 luglio del 1793, moriva, assassinato a Parigi, Jean Paul Mara (t), nato a Boudry, nel cantone Svizzero di Neuchatel. Era uno dei sette figli di Giovanni Mara, ex frate Mercedario, nato a Cagliari.

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