Vicino al cuore (I) [di Elena Morando]
Soggetto e sceneggiatura Premio Solinas storie per il cinema- borsa di studio Claudia Sbarigia 2009 Contributo progetti di sceneggiatura per la produzione di lungometraggi di interesse regionale Annualità 2010 Regione Autonoma della Sardegna. Produzione del film: ©BLUE FILM 2010 di Alessandro Bonifazi e Bruno Tribbioli Viene qui presentato (a puntate) l’intero trattamento, originale e inedito scritto da Elena Morando, di Vicino al cuore, vincitore del Premio Solinas nel 2009 e che, grazie al contributo della Regione Sardegna, diventerà una sceneggiatura e, in seguito, un film, prodotto dalla casa di produzione Blue Film per la regia di Luca Brignone. La Blue Film, con la produzione di questo lungometraggio, intende proseguire l’attività di valorizzazione del territorio regionale sardo iniziata nel 2008 con la realizzazione del film “Beket” di Davide Manuli (ha partecipato a più di 60 festival nazionali e internazionali), nel 2011 con il film “La leggenda di Kaspar Hauser” di Davide Manuli (prodotto con il contributo del MiBAC e della Regione Sardegna) con un cast internazionale: Vincent Gallo, Claudia Gerini, Elisa Sednaoui, Fabrizio Gifuni, Silvia Calderoni e proseguita nel 2012 con il film “Happy Days Motel” regia di Francesca Staasch (prodotto con il contributo di Rai Cinema e della Fondazione Sardegna Film Commission). (NdR). Motivazione della giuria del Premio Solinas 2009: Dentro una scrittura preziosa, prendono forma i bagliori di quattro esistenze femminili, legate le une alle altre dai fili leggeri dell’esistenza che a tratti le avvicina per poi riallontanarle come un puparo con le sue marionette. Ma a quei destini apparentemente già scritti, le quattro donne riescono a sottrarsi, lasciando che i sentimenti li spazzino via come il vento impetuoso spazza le vie di quel paesino ai confini del mondo. L’intarsio delle loro storie, con i suoi colori cangianti, la sua trama nascostamente robusta, porta lentamente alla luce un arazzo mai banale di esistenze femminili (comuni ma non banali). I- CHIARA Da che pianeta arrivava quella Prof.? A guardarla bene era un po’ marziana, con quella faccia angelica che a volte, quando rideva o alzava la voce ad esempio, era tutta asimmetrica da un lato, con la bocca che prendeva una piega strana e gli occhi grandissimi che scomparivano e diventavano improvvisamente occhi di una orientale, un samurai nipponico severissimo, sembrava quasi che per le emozioni, il suo viso si scombinasse, e tutte le adorabili curve del suo viso, divenissero linee, angoli spezzati, come in un quadro cubista. “Che tipa quella Angius”, aveva detto la sua compagna di banco, e forse nessuno veramente la capiva, e nell’imbarazzo, anche per i suoi colleghi, la Angius era una tipa. “Chiara Mannoni non è una ragazza di facili costumi e non intende piegarsi all’orribile legge del desiderio…” aveva aggiunto anche questo nel suo diario e poi, come di rito, aveva chiuso i documenti privati nel cassetto del suo comodino. Doveva assolutamente capire, entro la nottata, qual’era il suo scopo nella vita, si infilò il giubbotto ed uscì. Nella piazza del paese non c’era nessuno e i due oleandri, dono del comune per la ridente frazione di San Giovanni, ondeggiavano al vento di maestrale come due piccoli disordinati bouquets da sposa, il solito cane che pisciava sulla fontanella in granito, il solito paesaggio da cartolina dietro il palo all’orizzonte, tranne che per un mare plumbeo e un cielo inferocito basso all’orizzonte, la solita insegna del bar ormai scolorita dove quasi non si leggeva più la scritta. Jolly Bar, che nome; ma insieme ai due oleandri, alla piazzetta, alla fontanella e al palo, e persino insieme al cane che pisciava, quel nome faceva un contesto perfetto per una immagine e breve didascalia, da inserire nel depliant dell’agenzia immobiliare: Le case d’amare,“ il complesso residenziale le case d’amare è sito nella collina della ridente frazione di San Giovanni, di cui si allega immagine piazzetta”. Si allega immagine piazzetta…. pensava Chiara, e forse nell’evoluzione della lingua, ci stava anche un: “allego distinti saluti”. Chiara si sedette sulla panchina e chiuse gli occhi, immaginò di essere in una piazza, in una città lontana, magari San Pietroburgo, o magari Vienna, perché no, o anche Instabul, una gradevole sensazione di benessere si diffuse e le provocò solletico alla pianta dei piedi. Il vento l’aveva sempre aiutata in queste sue escursioni e non sentì il rumore della macchina elettrica o “macchinetta per minorenni o minorati”, come la chiamava suo padre, che passava quel giorno come tutti i giorni. Era il macellaio che tornava a casa, non viveva lontano, e non c’era certo bisogno di un mezzo di locomozione come quello per arrivare dietro la chiesa; ma lui era per il progresso, come diceva sempre, per la modernità e il progresso, e non stare come eravamo prima con le capre, ma aiutare a diventare San Giovanni più bello e per i turisti. Aprì gli occhi, il cane era davanti a lei, la fissava abbaiando come un matto, voleva farsi figo della macchina elettrica pensò Chiara, fece per tiragli un calcio, e lui partì, in una corsa corta appresso al padrone. In paese lo sapevano tutti poi, che a Don Arrigo a Pasqua quei capretti li arrivavano in regalo non a caso, ma tanto meglio, pensò Chiara, almeno loro si divertivano, una botta di vita, in quella specie di parcheggio di anime. “Cavolo! Le sigarette! Si alzò, la serranda era aperta a metà, ci passò sotto, Giovanni Decandia aveva fatto il portiere di notte, in un hotel a Milano, e lui la città la conosceva bene, e sapeva anche la differenza “tra lo sviluppo e la crescita produttiva e lo smerdo” e quello che succedeva a San Giovanni per lui era lo smerdo. Ed anche se era stato uno della gioventù morotea, ora sulle pareti del bar, campeggiava in rosso e nero l’immagine del Che con un “Hasta la victoria siempre!” E non li venissero a dire che a lui conveniva venissero più turisti, perché lui preferiva piantarsi l’orto che due stronzi del continente in più in paese. Però di fatto l’orto non se lo piantava e continuava a passare la sua vita incazzato, incazzato d’inverno perché sarebbe arrivata l’estate, e incazzato d’estate perché quella giostra non finiva mai.Chiara mise i soldi giusti sul banco, senza dire nulla, infilò i pacchetti nella tasca del giubbotto, i pacchetti sporgevano e lei li teneva premuti con la mano, e se ne andò passando per la piazzetta deserta, spinta dal vento di maestrale, come un’ubriaca. I- MARIA ANA Maria Ana era arrivata in Gallura già da un anno. Il viaggio era stato molto più breve di quel che pensasse e non aveva sofferto di stomaco né di testa, aveva solo pianto a lungo per il dispiacere di lasciare le sue due bambine. La mattina, come al solito, le bambine erano piombate in camera sua, avevano fatto la lotta tutte e tre nel letto, avevano giocato a fare la valigia, come se quella partenzafosse una partenza per gioco, infilando vestiti improbabili e cose che non servivano; una sveglia gigantesca, un paio di pantofole enormi, un coccodrillo in plastica, una busta di caramelle, un paio di minuscole mutande da bambina. Poi però il gioco era finito e le bambine si erano sedute composte ad osservare loro madre che disfaceva la valigia per gioco e ne faceva un’altra; quella vera. E mentre piegava i vestiti, parlava tutta seria, con voce composta, e un po’ autoritaria, spiegava alle sue bambine che sarebbe stata via a lungo, e che a lungo voleva dire un anno, forse di più, e che sarebbero rimaste con la nonna, che la più grande doveva badare e aiutare la più piccola a scuola, che dovevano studiare e non litigare mai, che tra poco sarebbe arrivata la primavera e chissà che bello giocare fuori, che la loro mamma faceva il suo dovere lontano ma era vicino a loro nei pensieri. E quando la più piccola scoppiò improvvisamente a piangere, se le prese tutte e due in braccio e le cantò una canzonetta in rumeno, una specie di filastrocca che faceva ridere. Mentre si allontanava con la valigia si girò verso casa, tutte e due le bambine che guardavano alla finestra e la nonna in mezzo, la più piccola teneva un foglio in mano, leccò con la lingua il vetro e ci appiccicò un foglio, tenendolo premuto con la mano, sul foglio c’era scritto: “mama torna”. Com’erano lontani ora quei ricordi, e dalla voce al telefono poteva capire che le bambine crescevano, crescevano senza di lei, andavano a scuola, tornavano, giocavano, si vestivano, si spogliavano, senza di lei, senza le sue mani che carezzavano, che rimproverano, che piegavano, che aprivano, chiudevano, che senza posa, si muovevano come libellule in un lago; per le sue bambine. Ora quelle mani servivano per fare le stesse cose, ma ad una vecchia, e quando stavano ferme, lei, quelle mani, non le riconosceva più, e se stava ferma a riposare seduta, nella panchina della piazzetta con le altre, quelle mani in grembo le prudevano e la facevano stare male, sentiva piccoli aghi nelle dita e formicolii, e le dita a volte si irrigidivano con i tendini contratti, e lei Maria Ana, non diceva niente e continuava a parlare con le ragazze perché lo sapeva che le sue mani erano l’unica parte del suo corpo che si ribellava e che chiedeva di essere ascoltata. Poi tornava a casa, accendeva la televisione per la vecchia e preparava da mangiare e le sue mani in movimento non le facevano più male. Se almeno ci fosse stato un uomo, non si sarebbe sentita così sola. Era giovane, bella, con tutte le cose giuste proporzionate e i capelli castani lucidi che le cadevano sulle spalle, solo le gambe erano un po’ grosse ma vestita bene, sembrava anche più magra. Ma in quel paese non poteva guardarsi nemmeno intorno, per due buoni motivi; non c’erano uomini attraenti e in secondo luogo erano gli altri a guardare lei, con insistenza e anche con volgarità. Doveva camuffarsi o camminare meno dritta del solito se passava dalla piazza e sorridere solo con i vecchi, perché se sorrideva il suo vi sorprendeva un’espressione luminosa e attraente e lei non voleva che a nessuno venissero cattive ide. E poi con questi uomini non c’era da fidarsi, aveva sentito di una ragazza, che si era anche sposata con uno del posto e poi lui l’aveva lasciata, quando lei aveva fatto venire la figlia, perché aveva paura di spendere troppi soldi per loro. Allora Maria Ana i sorrisi li teneva solo per i vecchi che se ne stavano seduti sulla panchina detta di Montecitorio al sole, e quando li vedeva, si sentiva un po’ a casa sua, rispettata e voluta bene senza malizia. “Buongiorno Maria Ana, stai andando a prendere il pane? Eh ne hai tu da fare” e poi li sentiva che aggiungevano “che brava ragazza tutte così dovevano essere le nostre”. Le loro, le poche volte che ci aveva parlato, le avevano chiesto come stava la vecchia ma poi aveva capito che ci voleva tempo per fare amicizia e adesso due o tre buone amiche in paese ce le aveva, solo che per i suoi gusti queste galluresi si lamentavano troppo e una volta dei mariti, e una volta dei figli, e poi che in paese non c’era niente e che faceva sempre tempo brutto. A Maria Ana la vecchia non piaceva, non le piaceva il suo odore selvatico e amarognolo e la piega che prendevano le labbra quando stizzita si lamentava che non la sistemava per bene nel letto. Però la curava bene e la casa era sempre pulita, con i fiori sul tavolo e anche fuori davanti casa spazzato.
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