La Repubblica, 14/10/2013. Politica, felicità disincanto nichilismo. Parla lo scrittore Premio Goncourt che sarà a Roma domani.
Parigi. «Non credo al progresso, alla felicità umana e alla possibilità di un mondo migliore. Non sono però un nichilista. La mia è solo una constatazione che non m’impedisce certo di vivere e di apprezzare la vita». Nelle pagine di Balco Atlantico, un affascinante romanzo di qualche anno fa ma solo oggi tradotto in italiano da e/o, Jérôme Ferrari si lascia andare a una visione cupa e disincantata della Corsica, e più in generale della condizione umana (il libro viene presentato domani al Centre St.Louis di Roma, ore 18,30: con lo scrittore ci sarà Daria Galateria). Ambientato in un villaggio dell’isola francese tra gli anni Ottanta e Novanta, quando le faide interne fanno esplodere il movimento indipendentista, il libro – grazie a una costruzione che alterna i piani temporali – propone i destini incrociati di diversi personaggi. A cominciare da Stéphane Campana, un giovane militante indipendentista assassinato davanti alla porta della sua amante. Per dare una spiegazione a un crimine che potrebbe avere molti moventi, l’autore ricostruisce i percorsi di Theodore, un antropologo ossessionato dal sesso, la cui memoria si riempie di falsi ricordi, ma anche di Vincent e Dominique, due rispettati dirigenti del movimento indipendentista. Racconta poi le storie di Khaled e di sua sorella Hayet, senza dimenticare Marie-Angèle, la proprietaria del bar dove tutti si ritrovano in bilico tra ossessioni private e sogni collettivi.
«Balco Atlantico è forse il mio romanzo più pessimista, dato che alla fine tutti si ritrovano perdenti e senza speranze», spiega lo scrittore francese già autore di Dove ho lasciato l’anima (Fazi) eIl sermone sulla caduta di Roma (e/o), romanzo che in Francia l’anno scorso ha vinto il prestigioso Premio Goncourt. «In fondo è un romanzo sulla fine delle illusioni. A cominciare dalle mie».
In che senso?
«Per raccontare le faide interne al movimento indipendentista corso all’inizio degli anni Novanta ho fatto appello alla mia esperienza diretta. E non è stato facile. In quegli anni vivevo in Corsica e militavo nelle file del movimento. Vissi la stagione degli scontri, delle scissioni e degli anatemi. Le divergenze politiche furonopoi complicate da antichi rancori personali, familiari e di clan. Alla fine, ci furono i regolamenti di conti e gli omicidi. Il tutto tra persone che erano amiche e militanti nello stesso campo. Disgustato, abbandonai per sempre il movimento».
Fu questa la grande delusione?
«In noi giovani, il movimento indipendentista aveva fatto nascere molte speranze. La delusione fu grandissima. Da allora mi sono sempre tenuto alla larga da ogni militanza politica. Si finisce sempre per adottare passivamente il punto di vista del gruppo, abbandonando ogni riflessione personale. È come se si provasse piacere a fondersi nella massa, rinunciando alla propria personalità. Ma la rivendicazione dell’identità culturale corsa m’interessa ancora, e tutti dovrebbero accettare di appartenere a più identità contemporaneamente. Io mi sento corso e francese».
Le sue origini corse hanno un peso nel suo lavoro di scrittore?
«Certamente, sono il sottofondo permanente dei miei romanzi, nei quali la Corsica non è mai un semplice fondale. Molti dei miei interessi vengono dalla cultura corsa: ad esempio l’attenzione per la violenza nella società come pure l’interesse per la famiglia e il clan, i cui tratti arcaici in Corsica – ma anche nel resto del Mediterraneo – sono ancora molto radicati. Nella tradizione dell’isola l’appartenenza al villaggio è molto importante, indipendentemente dalle differenze di classe e di cultura».
Perché in Balco Atlantico ha inserito un personaggio assillato da falsi ricordi?
«Ho raccontato il contrario dell’amnesia, la produzione inconsapevole di ricordi del tutto immaginari. Accade agliindividui ma anche alle comunità alle prese con i problemi della memoria e della costruzione dell’identità. Tutti i movimenti che si fondano su un’appartenenza identitaria si muovono al limite della costruzione romanzesca. A volte reinventano il passato, altre volte ingessano i ricordi, dando loro un significato univoco che in principio non avevano. Paul Ricoeur ha parlato di costruzione dialogica di sé, sottolineando che, per costruire un’identità, non conta che il racconto su cui questa si fonda sia vero o falso. L’importante è che sia efficace».
Perché nel romanzo i sogni sono così importanti?
«L’identità ha sempre a che fare con il desiderio, con quello che vorremmo fosse la realtà e la nostra storia. La storia ricostruita in nome di un’identità finisce spesso per considerare realtà quello che invece è solo un sogno. I desideri sono spesso all’origine della selezione operata dalla memoria. Il che, sul piano politico, può produrre delle aberrazioni. In Corsica il movimento nazionalista vive ormai su una mitologia identitaria che non ha senso storicamente e politicamente».
Nei suoi romanzi si sente sempre il peso della realtà storico-sociale. Come vede le relazioni tra letteratura e realtà?
«La mia concezione del romanzo è essenzialmente ontologica, nel senso che la letteratura per me ha sempre a che fare con la ricerca della verità. Il romanzo è un modo di conoscenza in grado di mostrare la complessità e la dimensione contraddittoria del reale. Proprio perché fa i conti con questa complessità, il romanzo non è mai compatibile con la propaganda e la semplificazione dell’ideologia. Il romanzo può fare tutto quello che vuole, tranne difendere una tesi. Rispetto a un libro di storia o di filosofia, il romanzo ha una libertà particolare, dato che può poggiare la propria costruzione sull’empatia e la singolarità. In questo modo riesce a dirci delle verità che gli storici non riescono a cogliere».
Ma la ricerca della verità non rischia di rendere il romanzo prigioniero della filosofia?
«La verità umana è sempre multipla e sfuggente. Preferisco quindi il romanzo alla filosofia, perché consente di integrare meglio la complessità e la contraddizione. La filosofia fa parte della mia formazione e i miei libri si nutrono di interrogativi filosofici, ma poi, quando scrivo, cerco di dimenticare il bagaglio teorico, per lasciare libero corso alla letteratura. Soprattutto cerco di evitare di cadere nella trappola dei personaggi concepiti come incarnazione di una tesi, esattamente come faceva Sartre nel suo teatro o come fanno oggi certe serie televisive. A Sartre preferisco Borges, che è sempre riuscito a trasformare in letteratura le idee astratte, dove l’unico criterio di valore era quello della potenza estetica. Solo così si evita di essere didascalici e dimostrativi».
|