Da Pekino a Beijing [di Franco Masala]
Inizialmente, sullo sfondo il suggestivo profilo di Pekino, pietrosa e occultata da quinte mobili gigantesche che, anziché le consuete pareti lisce, hanno una superficie ruvida, resa egregiamente con il polistirolo. Alla fine, invece, una serie di pietre verticali, variamente traforate, ci trasferiscono nella moderna città di Beijing, irta di grattacieli. Oscilla tra queste contraddizioni il nuovo allestimento della Turandot di Giacomo Puccini sul palcoscenico del Teatro Lirico di Cagliari. Ne è autore Pinuccio Sciola, al suo debutto come scenografo per la partitura che può considerarsi l’ultimo, grande capolavoro della storia dell’opera (1926). E non aiuta lo spettacolo neppure il piano inclinato che, se esteso a tutto il palcoscenico, avrebbe favorito movimenti di masse e di individui, e invece, innalzato parzialmente sulla superficie disponibile, frena scioltezza di spostamenti e di azione. Altra perplessità desta poi il trono dell’imperatore, Figlio del Cielo, e quindi intangibile, alla stessa altezza dei sudditi contro ogni logica musicale, drammaturgica e storica. E il successivo, moderato innalzarsi del trono perde efficacia anche perché rivela una sorta di cabina-ascensore dalla quale emerge Turandot. Di ben altro effetto era stata invece la prima apparizione della gelida principessa attraverso una cortina di pietre verticali che la rendono lontana e distaccata. La regia di Pierfrancesco Maestrini tende quindi a governare entrate e uscite, rigorosamente da sinistra, destra e dal centro, componendo quadri simmetrici come tableaux vivants. Si perde così il furore, la paura o la gioia della folla, vera protagonista dell’opera, costretta in spazi angusti e, soprattutto, priva della necessaria separazione dalla corte imperiale e dai suoi dignitari. |