Se le cose stanno così ci rivolgeremo a Madrid (I) [di Nicolò Migheli]

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“Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro ad un massimo incombente sulla Russia e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterma e le isòtere si comportavano a dovere […] Insomma con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata dell’agosto del 1913”. Solo che oggi è il 20 di luglio del 2015.

“Da dove mi viene questo ricordo?” Il Presidente si tormentava dalla mattina presto. Una frase come una canzone inopportuna. Un motivo che si impadronisce della mente all’atto del risveglio e non ti lascia qualsiasi cosa faccia, quale sia l’incombenza o la preoccupazione. Qualsiasi sforzo facesse era inutile. Dentro la testa un muro, un vuoto. Si rituffò nel rapporto che l’assessore al bilancio gli aveva fatto avere. Più leggeva e più sentiva l’ira salire dentro di sé. I numeri erano impietosi, la disponibilità di cassa azzerata, i crediti con lo Stato, tra arretrati e recenti sfioravano i venti miliardi. Venti miliardi di crediti e nessuna disponibilità, neppure per poter pagar gli stipendi dei dipendenti. Squillò il telefono:
«Ciao, hai visto?»
«Sei tu, stavo per chiamarti, ho visto, ho letto, cosa possiamo fare?»

L’assessore al bilancio sospirò, con il Presidente si conoscevano da sempre, stessi studi, stesse università, stessi corsi di specializzazione all’estero, vita comune nel Partito Riformista. Tutti e due provenivano da quel ceto intellettuale che aveva segnato le vicende dell’isola negli ultimi anni. Entrambi avvocati di successo.
«L’unica cosa che ci resta da fare è contrattare con Roma dei finanziamenti per poi operare i tagli del personale che ci dicono di fare e non facciamo»
«Ma cosa dici? – urlò il Presidente – non sono mica stato eletto per fare il becchino della Regione!»

L’assessore stette zitto. Il Presidente invece prese a camminare nervosamente intorno alla scrivania con il suo smart phone in mano, trasse un lungo respiro e:
«Come la prenderà Ringhio?» Ringhio era l’assessore al personale, il cognome era un altro ma tutti lo chiamavano così. Quell’uomo metteva timore, negli anni si era costruito un potere enorme. Aveva assunto in regione centinaia di persone, dagli uscieri ai dirigenti. Tutti gli dovevano qualcosa e ai beneficiati lo ricordava ogni qualvolta avesse bisogno di loro.

«Male, la prenderà male, l’hai sentito anche tu: “Qui io faccio un casino, mi dimetto ed il mio partito esce dalla maggioranza”»

La maggioranza, la maggioranza! Da quella sentenza della Corte Costituzionale, non era più tale. La legge elettorale dichiarata illegittima, ed adesso il Presidente era appeso ai tre voti del partito di Ringhio.

«Allora si andrà a nuove elezioni, lo voglio vedere Ringhio con il suo misero 3%!»
«Calma, Presidente» Interloquì l’assessore, poi continuando «Dobbiamo attendere il parere dei londinesi, io nel frattempo mi invento qualche cosa, una gabbola tremontiana insomma, ed almeno fino a dicembre riusciamo ad andare avanti»
«Va bene, ciao»
«Ciao»
Il Presidente stette lì, si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. Pensò alla sua campagna elettorale del 2012 e al suo trionfo. Altri tempi. In mente gli rintronava:” Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro ad un massimo incombente sulla Russia e non mostrava…” Improvvisamente, un lampo, il ricordo si fecce vivido, ritornò alle sue letture giovanili. “Ecco, di che cosa si tratta! È l’incipit di Un uomo senza qualità di Musil!” Sorrise, si complimentò con se stesso per la sua memoria ma fu questione di un attimo.

Si rattristò di nuovo. Quel ricordo adesso gli procurava ansia, lo considerava di malaugurio. Il romanzo del Finis Austriae. Un brivido gli percorse la schiena. Sentì dolore e maledisse il condizionamento sempre troppo basso. I tempi erano terribili, prima la crisi economica che aveva falcidiato le entrate dello stato e poi la totale indisponibilità di Roma ad accogliere qualsiasi richiesta venisse da Cagliari. Poi l’illegittimità della legge elettorale. Il peggio doveva ancora arrivare. La riforma costituzionale del Senato si era rivelata una mannaia.

Le regioni autonome scomparse. A niente erano valse le proteste dei deputati e senatori sardi, una volta tanto uniti. A nulla gli impegni verbali del partito e del Presidente del Consiglio. Infine la beffa. Nel Disegno di Legge Costituzionale, all’articolo 33 (diposizioni transitorie) il comma 13 prevedeva che le disposizioni non si sarebbero applicate alle regioni a statuto speciale, fino all’adeguamento dei loro statuti. Una notte mentre il Senato era quasi deserto, un colpo di mano leghista appoggiato da alcuni riformisti delle regioni del nord, cancellò il comma. Non fu più possibile, o meglio, non si volle, reintrodurlo nelle ripetute votazioni. Fu così che la Sardegna perse la sua autonomia speciale. Anni di discussioni su nuovi statuti, su assemblee costituenti, seppelliti. Fine. Punto.

Nuova corsa da regione ordinaria, con meno poteri e soprattutto con meno soldi. Ora con la clausola dell’interesse nazionale lo stato poteva fare di tutto. Imporre il deposito delle scorie nucleari, allargare le già esorbitanti servitù militari. Nel frattempo strani personaggi si aggiravano nelle campagne dell’isola offrendo il triplo del valore per i terreni.

La regione era ormai diventata solo un ente che gestiva programmi statali, legiferava su poco e quel poco sotto l’occhio vigile del governo pronto a dichiarare quegli atti incostituzionali. Il giorno della proclamazione della nuova costituzione nel silenzio della sua abitazione il Presidente pianse di rabbia e sconforto. Non voleva passare alla storia come il commissario liquidatore di una esperienza limitata e contraddittoria di autogoverno. Ma sempre di relativa autonomia. Decise di reagire, a Roma non l’avrebbero avuta vinta. La giunta e il consiglio votarono all’unanimità una mozione con cui lo impegnavano a “esperire tutti tentativi per riprendere l’autogoverno della Sardegna”. Già, semplice votare mozioni.

Il percorso però mica lo era. Anche perché nel frattempo la società sarda era sempre di più percorsa da sentimenti indipendentisti. Tutti si sentivano, ancora una volta, traditi da Roma. Alcuni politici premevano, volevano che venisse indetto subito un referendum, facciamo come gli scozzesi e i catalani. Altri erano per decisioni più eclatanti. Dichiariamola subito questa benedetta indipendenza. Si ricorda un intervento veemente di un consigliere che terminò il suo discorso con:« No seus innoi po callentai is cadiras ma po fairi is interessus del nostro popolo.» (Continua)

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