La scienza come impresa pubblica. Intervista a Silvano Tagliagambe [di Giulia Rispoli]
Il rasoio di Occam. MicroMega- 27 Luglio. La scienza come impresa pubblica. Intervista a Silvano Tagliagambe. In questa intervista, Silvano Tagliagambe – filosofo ed epistemologo esperto di apprendimento e tecnologie – evidenzia alcune tappe della sua riflessione filosofico-scientifica fino all’impegno attuale a sostegno dell’istruzione e dell’innovazione tecnologica nelle scuole, impegno sorretto da un’idea di conoscenza come bene pubblico. Prof. Tagliagambe, può illustrare le principali tappe della sua carriera accademica? Quali i pensatori che l’hanno affascinata in età giovanile, conducendola ad approfondire gli studi epistemologici? Alla fine, nel settembre dell’anno successivo, decisi di partire. A Mosca mi furono assegnati come supervisori il professor Ja. P. Terletskij[3] che era un fisico di orientamento anti-scuola di Copenaghen, contro l’interpretazione standard della meccanica quantistica, e Vladimir Fock[4]– uno dei più illustri fisici russi che lavorava a Leningrado ma abitava a Mosca e che, al contrario, era uno dei maggiori esponenti della corrente minoritaria che appoggiava l’interpretazione di Copenaghen. Con loro ho lavorato ascoltando appunto due versioni, due diversi orientamenti, e poi ho pubblicato nel ‘73 il volume sull’Interpretazione materialistica della meccanica quantistica[5]. Questo chiaramente ha notevolmente segnato il mio percorso successivo così che via via ebbi modo di conoscere e approfondire vari autori russi di diverso orientamento e anche appartenenti a differenti campi disciplinari: Lotman[6] e Lurija[7] ad esempio. Lurija, grande psicologo, era uno degli autori che maggiormente sviluppava il pensiero di Vigotskij anche sulla base dei suoi studi in neuroscienze. A proposito: in quello stesso periodo, quando io ero a Mosca, lavorava e studiava con una borsa di studio analoga alla mia all’Università Lomonosov Luciano Mecacci che si stava occupando di psicologia, nello specifico, cercando di recuperare il Vigotskij autentico, dato che Pensiero e Linguaggio[8] era stata pubblicata in Russia durante il periodo staliniano in una versione estremamente purgata e manipolata del suo pensiero. Di seguito ho cominciato a occuparmi di questioni riguardanti l’analisi del testo, la letteratura e la critica letteraria: Lotman mi portò a conoscere Bachtin[9]; Lurija mi portò a conoscere gli psicologi russi più rappresentativi e via via ho cominciato ad interessarmi al pensiero scientifico e culturale russo in tutti i suoi aspetti, arrivando poi anche alla letteratura di Dostoevskij, colpendomi in modo particolare le sue controversie con Secenov[10] sul problema del rapporto mente-cervello. Poi mi dedicai allo studio di filosofi molto rappresentativi e dal carattere enciclopedico come spesso capita nel pensiero russo – mi riferisco nello specifico a Florenskj[11] e a scienziati altrettanto enciclopedici e significativi come Vernadskij[12]. Negli anni successivi, per 5 anni, fui sempre ospite per un mese estivo presso l’Accademia delle Scienze dove proseguii i miei studi sulla meccanica quantistica sotto la guida di Michael Omelyanovskij[13], direttore della sezione di Storia e Filosofia della Scienza per l’Accademia delle Scienze, e mi dedicai contemporaneamente anche ad aspetti di carattere epistemologico, infatti il mio articolo sulla meccanica quantistica di Reichenbach fu pubblicato proprio su Voprosyj Filosofij[14], la rivista di filosofia dell’Accademia delle scienze dell’URSS. Avendo svolto una parte considerevole degli studi universitari all’Università Lomonosov di Mosca e all’Accademia Russa delle Scienze (RAN), vivendo in un clima di forte consolidamento della cultura scientifica ufficiale, può descrivere quanto l’immersione nel materialismo dialettico ha influito sugli sviluppi del suo pensiero?
Ha collaborato molto durante questi anni con Dario Antiseri. Ci racconta come è nata la vostra amicizia e quali sono stati (e a quando risalgono) i presupposti che hanno contribuito a stabilire una duratura collaborazione? La visione di scienza come impresa pubblica e critica e l’andare al di là del convenzionalismo scientifico, verso un’analisi approfondita delle dinamiche interne alla scienza teorica e pratica, ricorre spesso nei suoi lavori. Dal punto di vista preso in considerazione, in filosofia della scienza si sente più vicino a Popper, a Feyerabend o a Kuhn? Per quanto riguarda me, scarterei Feyerabend che è un autore certamente interessante, anche divertente e provocatorio, anzi, direi che le sue provocazioni sono assai significative però, francamente, ammetto che il suo tentativo di negare ogni specificità alla conoscenza scientifica rispetto ad altre forme di sapere come quelle letterarie, artistiche, o le stesse ideologie, se da un lato è un tentativo divertente e provocatorio, dall’altro non lo trovo particolarmente interessante da un punto di vista strettamente epistemologico. Mi sembra invece molto arguto il tentativo che ha fatto Kuhn di operare un passaggio che Popper non ha compiuto fino in fondo. Il passaggio da una concezione linguistica delle teorie scientifiche – che ha caratterizzato sia il neo-empirismo classico ma anche la concezione di Popper secondo la quale le teorie scientifiche sono caratterizzate dal tipo di linguaggio che utilizzano per cui l’analisi epistemologica deve indirizzarsi principalmente a questo elemento – alla struttura delle teorie scientifiche. Popper condivide l’approccio neo-empirista ma se ne distacca per vari aspetti se prendiamo in considerazione la sua parziale vicinanza a Carnap, a Neurath e allo stesso Smith. Invece Kuhn propone, a partire dalla Struttura delle rivoluzioni scientifiche[18], ma in misura maggiore nei suoi saggi successivi, una concezione strutturalistica delle teorie che recupera alcune intuizioni del primo Carnap – che questi però in seguito lasciò cadere – e le mette a frutto. Cioè, l’idea secondo la quale le teorie scientifiche più che dai loro linguaggi sono caratterizzate dalle strutture che utilizzano e che producono, cosa che Kuhn vede sotto l’aspetto delle generalizzazioni simboliche, riferendosi soprattutto alle strutture matematiche che caratterizzano una determinata teoria scientifica e agli esemplari, ovvero gli esempi di applicazione riuscita di queste strutture. Allora, vedere la successione delle teorie scientifiche non come un passaggio da un linguaggio meno esteso ad un linguaggio più esteso, ma come un tentativo di estendere il dominio di applicazione di una struttura, credo sia stato un tentativo molto sofisticato e convincente. Faccio un esempio: sappiamo tutti che la struttura tipica della meccanica classica non permeò soltanto gli studi di meccanica galileiani e newtoniani, ma fu estesa all’elettricità, al magnetismo, alla meccanica celeste e via dicendo. Quindi ci fu il tentativo di estendere le strutture matematiche simboliche tipiche della meccanica classica ad altri domini di ricerca finché non ci si rese conto che oltre un certo punto questa struttura non poteva più essere utilizzata. In pratica incontrava dei limiti nell’estendersi ad altri campi e ciò perché si imbatteva nel nuovo dominio che stava avanzando con l’indagine delle alte velocità che si approssimavano a quella della luce, ovvero, con la teoria della relatività ristretta di Einstein per mezzo della quale emerse il primo momento di criticità delle strutture tipiche della meccanica classica. Si trovò quindi un altro concetto di tempo e di spazio quando si cominciò a varcare il mondo dell’infinitamente piccolo e delle scale subatomiche, il che rese necessario il ricorso a nuove strutture simboliche che furono in questo caso quelle della teoria della relatività ristretta prima, e generale poi, e quelle della meccanica quantistica.Oggi è chiaro che questo aspetto, lo spostamento dell’attenzione dal problema del linguaggio a quello delle strutture simboliche, è stato un aspetto estremamente significativo ed ha rappresentato un apporto di notevole rilevanza che Kuhn ha dato all’epistemologia. L’approccio relazionale di tradizione slavofila al centro della riflessione di Pavel Florenskij o l’emergenza dell’esperienza interiore sulla soglia dell’alterità nella poetica di Fëdor Dostoevskij, conducono all’idea che l’estrinsecazione del sé compaia primariamente sul piano della dimensione intersoggettiva. A suo parere, quanto e in che modo è possibile prospettare il superamento dell’individualità e della dimensione del privato proprie del mondo occidentale contemporaneo? Certamente vanno difese le prerogative dell’individuo e i suoi diritti, ma vanno fortemente sottolineati anche gli aspetti per i quali l’individualità, come diceva Bachtin o Florenskij, nasce soprattutto nell’ambito dell’intersoggettività: un individuo si forma nel rapporto costitutivo con l’altro e da questo punto di vista l’aspetto relazionale è il nucleo essenziale o fondamento della sua persona. Credo che sia importante sottolinearlo perché la cultura occidentale odierna è eccessivamente segnata dall’individualismo e dalla predominanza della dimensione dell’individuo, il che va chiaramente a scapito dei valori di cooperazione e solidarietà. Ad esempio, dal punto di vista economico produttivo ciò porta ad un’eccessiva valorizzazione dei beni posizionali, cioè quei beni il cui valore aumenta con l’esclusività (i cosiddetti “status symbol”, i diamanti, i gioielli ecc..), a scapito dei beni relazionali (la fiducia, la solidarietà, il senso civico ecc..) che invece aumentano di valore con la loro diffusione. Da questo punto di vista credo che ciò sia fortemente significativo in ambito epistemologico, soprattutto oggi che si parla continuamente di società della conoscenza, ma spesso mi chiedo: come collochiamo questa conoscenza? E’ un bene posizionale che deve essere prerogativa di pochi, o invece è un bene relazionale il cui valore aumenta per condivisione? Se noi andiamo a vedere uno degli autori a cui Dario Antiseri e altri filosofi si riferiscono molto spesso e che ha segnato fortemente il pensiero politico del nostro secolo, prima con Margaret Thatcher, poi con la presidenza di Bush in America: Friedrich von Hayek[19], noteremo che egli afferma chiaramente che la conoscenza rende tanto di più quanto più è concentrata, e che l’innovazione non può essere un fatto di massa, ma va operata e sperimentata nel piccolo a opera di avanguardie ed élites. Questo ha ovviamente delle conseguenze immani: significa sposare l’idea secondo la quale la cultura è un fatto elitario e dunque è giusta l’idea di scuola media e superiore come prerogativa di determinate classi sociali o di individui particolarmente dotati – il liceo di Gentile, tanto per intenderci – contro l’idea di una scuola di massa. Ecco, io ritengo che se noi guardiamo alla rivoluzione autentica che ha portato l’idea di società della conoscenza, alla base troveremo la convinzione che la conoscenza si valorizza, produce e rende tanto di più quanto più si distribuisce. Ad esempio in paesi come l’Italia la conoscenza non è un bene relazionale, nonostante si dica il contrario, perché abbiamo pochi laureati, pochi diplomati e se diamo un’occhiata alle statistiche che emergono dalle ultime classifiche riguardo la percentuale sulla nostra popolazione di laureati e diplomati mettendoli a confronto con quelli di altri paesi europei come la Germania e l’Inghilterra o addirittura con paesi emergenti come l’India, ci renderemmo conto che siamo in una situazione disastrosa. Questo comporta un prezzo da pagare molto salato che stiamo riscontrando sul piano dell’innovazione e della ricerca, mentre in paesi come la Cina, India, Stati Uniti, oggi anche Brasile, si sta radicando l’idea che la conoscenza debba essere diffusa il più possibile proprio per costituire un bacino di risorse molto forte da filtrarne creatività e innovazione. Se andiamo a vedere nel complesso quale delle due idee di società oggi da i maggiori frutti, non c’è dubbio che i paesi dove la conoscenza è maggiormente diffusa e si caratterizza come bene relazionale e non come bene posizionale sono paesi che oggi hanno maggiore capacità sul piano dell’innovazione. Quindi l’idea che la conoscenza sia un bene relazionale ci porta a che cosa? All’idea che l’intelligenza – come dice Derrick de Kerckhove, direttore del Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia – non sia soltanto prerogativa di singoli, ma soprattutto un fatto di connessione, di spostamento della nostra attenzione da ciò che l’individuo è in sé, a tutto il raggio di interrelazioni che egli crea nel corso della sua vita e che costituiscono il nucleo fondamentale del suo sviluppo. Questa idea, tradotta sul piano della ricerca, mi ha portato ultimamente ad analizzare il confronto e il dialogo tra due autori estremamente diversi tra loro, Carl Gustav Jung fondatore della Psicologia analitica e Wolfgang Pauli, premio Nobel per la fisica, uno dei massimi esponenti della meccanica quantistica appartenente alla scuola di Copenaghen[20]. Entrambi erano accomunati dalla convinzione che al di là dell’io, al di là dell’individuo, ci sia un orizzonte più vasto (che Jung chiamava sé) costituito dalle interrelazioni con gli altri individui. Oltre questo, però, vi è un orizzonte ancora più vasto fatto dall’unione del piano di relazioni esistente nella nostra generazione e il complesso delle generazioni precedenti e che lascia traccia ben precisa in quelli che sia Jung che Pauli chiamano gli archetipi: espressioni del legame fra la nostra cultura, la nostra generazione e le generazioni passate che condizionano tutt’ora, anche se non ne siamo consapevoli, il nostro modo di pensare[21]. Da questo punto di vista il tessuto connettivo è il legame che ci connette sia sincronicamente agli altri individui con i quali condividiamo il tempo, sia diacronicamente alle precedenti generazioni e alla loro cultura. In “La logica della scoperta scientifica”, Popper afferma che le teorie del mondo 3 vengono realizzate mediante tentativi ed errori. Come interpreta la tesi secondo cui tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale esiste una corrispondenza di modalità e procedure che rispecchia esattamente i termini darwiniani piuttosto che quelli lamarckiani? Si ha pertanto l’impressione che le circostanze fisiche esterne da un lato e le modificazioni ereditarie dei geni (mutazioni) che a esse si sono adattate dall’altro non siano legate fra loro da un rapporto causale riproducibile, ma siano comparse con un senso e una funzione – correggendo le oscillazioni ‘cieche’, casuali delle mutazioni insorgenti – insieme alle condizioni esterne come un’unità indivisibile.
In relazione a ciò vorrei ora proporre alla discussione l’ulteriore ipotesi che questo globale presentarsi di coincidenze significative nell’evoluzione biologica indichi la presenza di un fattore psichico che procede di pari passo con esse e che compare su un piano più alto come emozionalità, ovvero eccitazione”[22]. Quando parla in modo così esplicito e diretto di un “globale presentarsi di coincidenze significative nell’evoluzione biologica”, che indica “la presenza di un fattore psichico che procede di pari passo con esse” Pauli sottolinea un’esigenza che gli pare insopprimibile: quella di non considerare separatamente e come serie a se stanti l’evoluzione della materia e quella della psiche, l’evoluzione naturale e quella culturale, ma di concepirle come parti integranti di un unico quadro esplicativo. Questa posizione, pienamente condivisa da Jung, mi sembra interessante in quanto le recenti scoperte nel campo della paleoantropologia e dell’archeologia corroborano la tesi che il pensiero simbolico non sia emerso all’improvviso, attraverso un processo di sola acquisizione culturale, ma si sia invece evoluto gradualmente, in relazione diretta all’evoluzione anatomica di Homo sapiens, nel corso di un lungo arco temporale in cui è risultata determinante anche l’evoluzione biologica. Nella filogenesi della nostra specie evoluzione biologica ed evoluzione comportamentale-culturale si presentano dunque come tratti convergenti e strettamente interconnessi: l’avvento del pensiero simbolico dipende (anche) dai processi dell’evoluzione biologica e non (esclusivamente) da quelli dell’evoluzione culturale.
In maniera multiforme e poliedrica si è occupato del rapporto tra fisica e filosofia in Urss, di epistemologia del progetto, territorialità e urbanistica consapevole, di didattica della rete nell’istruzione scolastica ricoprendo anche ruoli direttivi nell’ambito dell’information technology (penso al progetto Scuola Digitale), ed è autore di un volume recente sul rapporto tra Pauli e Jung che affronta l’intreccio di psicologia e meccanica quantistica. Quale il filo conduttore di una lunga ricerca, ricca e diversificata e al contempo continuativa sul piano intellettuale? Nel mondo della scuola spesso riscontro un pericoloso abbassamento della capacità da parte dei giovani di gestire le loro emozioni e di controllare il proprio spazio emotivo. Avverto un crescente imbarazzo e una crescente mancanza di dimestichezza che sfociano in attimi pericolosi e noi tutti possiamo accorgercene. Veniamo ormai quotidianamente scioccati da casi eclatanti di adolescenti che non sono in grado manifestamente di gestire la loro sfera emotiva e di fronte al minimo problema non si reagisce con la maturità di chi è capace di dosare le proprie emozioni, al contrario, si reagisce in maniera violenta che è indice di uno squilibrio nei rapporti familiari, come nei rapporti di coppia. Ecco, questo è secondo me il sintomo più grave e allarmante di un crescente analfabetismo emotivo, che è però certamente un fatto anche mutuato, ripeto, dal tipo di clima che circonda loro, anche solo ascoltando i telegiornali o sfogliando i quotidiani. Qual è il tipo di messaggio sottostante e quali sono i valori di riferimento? Ripeto: indici, spread, borse, automatismo, un’idea di calcolo automatizzato per cui se si superano certe soglie automaticamente i calcolatori di tutte le borse collassano, una roba agghiacciante. Non può essere così il tipo di razionalità che noi dobbiamo cooptare da un discorso scientifico che non può e non deve essere ridotto all’epistemologia del calcolo e della misura. Quindi, un aspetto centrale per me è l’importanza della razionalità scientifica, ma interpretata e vista in modo molto più complesso. Proprio perché rappresenta il risultato di un lavoro collettivo, non può essere considerato come bene esclusivo e di possesso di nessuno. Allora nell’ambito del progetto Scuola Digitale abbiamo messo a bando la traduzione di materiali digitali che anziché essere di proprietà degli editori e degli autori che vincono il bando, saranno di proprietà della regione che li metterà liberamente a disposizione di tutto il sistema scolastico quindi di coloro che potranno aggiornarlo e integrarlo a loro piacimento e secondo le proprie direttive. Quindi tale idea di spostamento della conoscenza dalla nicchia di beni posizionali a quella di beni relazionali non è soltanto un’idea astratta, come dimostra il fatto che essa sta trovando concrete applicazioni e traduzioni operative. Ad esempio all’inizio di ottobre del 2012 Il governatore della California Jerry Brown ha firmato fa due leggi, votate dal Senato californiano il mese precedente, che impegnano le università pubbliche dello stato americano a creare cinquanta manuali universitari gratuiti e ad accesso libero. Entro un anno gli studenti californiani potranno quindi scaricare gratuitamente da internet alcuni dei libri di testo di cui necessitano per gli studi universitari. La stessa Creative Commons, istituzione che si occupa di immaginare forme alternative di copyright, ha spiegato che si tratta di “una grande vittoria per la California” perché è un tentativo di usare le licenze aperte e le competenze accumulate dall’Università dello stato per “far risparmiare denaro alle famiglie californiane e per rispondere ai bisogni di insegnanti e studenti”. Intravedo in ciò una delle autentiche rivoluzioni che ha portato la tecnologia della rete: la possibilità che i materiali circolino e poi ciascuno se ne appropri mettendoci il proprio segno, attraverso il cosiddetto remix, e li reimmetta nella rete non come li aveva ricevuti, ma apportando una caratterizzazione e un tratto distintivo tipico dell’utente che ne ha fruito in una maniera tale che quei prodotti risultino sempre diversi e arricchiti. Ciò permette di dare veramente un senso all’idea di glocale poiché non possiamo chiuderci in un contesto che sia puramente globale o locale. Questo è il modo di accoppiare una cultura globale alle istanze di radicamento senza le quali l’uomo non ha capacità di orientamento, ovvero fare in modo che la cultura globale attraverso il suo passaggio nel locale, venga reinterpretata, contrassegnata degli aspetti distintivi tipici della cultura del luogo e poi rimessa in rete in un rapporto effettivo di relazione reciproca tra il globale e il locale. Senza un approccio di questo tipo si rischia di andare in contro agli integralismi ideologici da parte di culture egemoni che sinceramente possono essere considerate tutto fuorché sorgenti di diffusione della cultura. NOTE Silvano Tagliagambe è stato professore di Filosofia della Scienza presso le Università di Cagliari, Pisa, Roma “La Sapienza” e Sassari ed è membro del Collegio dei docenti del Máster en Comunicación Social dell’ Universidad Complutense de Madrid e del Consiglio Consultivo Centro de Investigacion en Ciencia Politica, Seguridad y Relaciones Internacionales dell’ Universidad Lusófona de Humanidades e Tecnologias, Lisboa e dell’Universidad Lusófona de Porto. È direttore delle collane “Filosofia della scienza” dell’Aracne editrice e “Didattica del progetto” dell’editore Franco Angeli. Fa parte della Redazione di www.sardegnasoprattutto.com
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