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Il Giornale dell’Arte numero 344, luglio-agosto 2014. Sembra impossibile, invece può avvenire. Nati nel primo Settecento, come tutte le creazioni culturali non sono immortali. La tutela cresce nei Paesi emergenti in cui il patrimonio ha valore identitario, decresce in altri dove conta soltanto per quello economico, come vanto o come svago. Stiamo dimenticando la funzione istitutiva dei musei. Perciò potrebbero perir.
Non solo gli specialisti, ma anche gli intellettuali impegnati e i politici di vari Paesi discutono pubblicamente il ruolo del patrimonio culturale e, più in particolare, di musei e mostre, e lo fanno entro contesti in continuo mutamento e con retroterra storici, sociali e culturali assai differenziati. Tuttavia, molto spesso tendiamo a dare per scontato che tanto i musei quanto le loro attività (tra cui le mostre) siano istituzioni e/o pratiche socio-culturali la cui esistenza e valenza culturale siano fuori discussione.
È come se ritenessimo che possano essere criticati, migliorati o peggiorati attraverso ciò che facciamo (o che non facciamo), ma che rappresentino in ogni caso un punto fermo, un elemento sostanzialmente immodificabile del nostro panorama culturale. Perciò è fondamentale ricordare a noi stessi come il museo sia una creazione culturale, e anche molto recente. Volendo definire la sua genealogia e il suo attuale status, il museo pubblico come istituzione (in contrapposizione alle collezioni reali, papali o private) non risale a prima del 1734, quando il Museo Capitolino di Roma venne fondato da papa Clemente XII.
Ogni istituzione prodotta dalle società umane che ha un inizio in un momento definito nel tempo potrebbe egualmente, prima o poi, avere una fine; in altre parole a una data di nascita di tutte le creazioni culturali, per esempio della poesia epica o della democrazia rappresentativa, corrisponde necessariamente una data potenziale di scadenza. È solo in questo senso, io credo, che può avere senso discutere alcuni recenti sviluppi nel mondo dei musei che sono attualmente oggetto di dibattito. Permettetemi di menzionare alcuni dei numerosi punti attualmente in fase di considerazione su ampia scala, cioè in relazione con la natura stessa del patrimonio culturale. Li dividerò in cinque categorie generali: definizione, rilevanza, uso/usi, proprietà e costi.
Non solo arte
Definizione: Qual è la definizione di «patrimonio culturale»? Va riferita esclusivamente alle varie forme di «arte», o dovrebbe includere oggetti relativi a storia, religione, tecnologia, artigianato, società, agricoltura, o organizzazione industriale? Fino a che punto i musei assicurano uno spaccato significativo del patrimonio culturale di un Paese, di una città, o di un’area geoculturale? Qual è il «giusto» equilibrio tra la porzione di patrimonio culturale conservata nelle collezioni pubbliche e quella di proprietà privata? O tra quanto appartiene ai musei e quanto è disperso tra chiese, palazzi, aree pubbliche, edifici istituzionali e privati?
Culturali per tutti o solo per noi?
Rilevanza: Qual è, o piuttosto quale dovrebbe essere, il significato del patrimonio culturale nella società contemporanea, cioè nella nostra epoca ossessivamente dominata dalla retorica della «globalizzazione»? Dobbiamo cercare una definizione «globale» e/o standard universali di salvaguardia del patrimonio culturale, o dovremmo invece definire il patrimonio in funzione di standard culturali diversi per ogni Paese, o addirittura per aree specifiche? Il patrimonio culturale di un singolo Paese si riferisce unicamente a quanto si trova in quella specifica regione (cultura britannica nel Regno Unito, cultura italiana in Italia), o dovremmo cercare una definizione più generale del suo significato e della sua rilevanza su scala globale? Dovremmo individuare criteri comuni e condivisi su come collocare il patrimonio culturale, e in particolare i musei, in riferimento al più vasto contesto delle preoccupazioni politiche e culturali della società, o dovremmo affidare questi criteri alle scelte e alle politiche dei singoli Paesi?
Nazionali o universali?
Uso/Usi: Che cosa dovremmo fare con il patrimonio culturale e in particolare con i musei? Dovremmo considerarli come un deposito della memoria storica e/o dell’identità culturale? Sono parte integrante della nozione di «nazionalità», o dovrebbero invece appartenere all’umanità nella sua interezza? Come valutiamo la natura e il rango del patrimonio culturale prima dell’«invenzione» del concetto di «nazione» e del «nazionalismo» che ne è seguito? Dovremmo conservare per sempre gli oggetti del patrimonio culturale (in particolare nei musei), e di conseguenza distinguere in maniera netta ciò che è patrimonio culturale da ciò che non lo è? E se decidiamo di conservarli, serviranno per il piacere estetico, o come informazioni storico-documentarie, o ancora per l’educazione delle future generazioni?
Pubblici o privati?
Proprietà: A chi appartiene il patrimonio culturale, comunque definito? Appartiene alla sfera pubblica o a quella privata? Il proprietario di un edificio storico o di un importante dipinto, per esempio, ha il diritto di demolirli o distruggerli, o no? Può il Governo o la Pubblica Amministrazione di uno Stato, di una città, o un’agenzia pubblica di qualunque tipo, comprese le istituzioni internazionali, limitare i diritti connessi allo status di proprietà privata allo scopo di proteggere un pezzo del patrimonio culturale? Fino a che punto i musei privati ricadono nella stessa categoria di quelli pubblici? Quanto la genealogia di un dato museo (per esempio, l’essere stato in origine una collezione reale, resa successivamente pubblica come conseguenza della sovranità popolare) condiziona la nostra possibilità di mantenere o cambiare le «regole del gioco»?
A spese di chi?
Costi: Conservare il Patrimonio Culturale, e particolarmente i musei, può essere molto costoso. Se si decide di salvaguardare un edificio, come il Colosseo a Roma, che ha perso la funzione originaria e che ha acquisito l’etichetta di «patrimonio culturale», chi dovrà coprirne i costi? Ci si deve aspettare che siano i visitatori a coprire i costi, come effettivamente puà avvenire per il Colosseo? Che cosa succede quando non ci sono abbastanza visitatori per coprire i costi, come avviene per la maggior parte dei monumenti e dei musei? Perché i governi dovrebbero spendere denaro pubblico per essi? Dovrebbero spenderlo per tutti, o sarebbe più ragionevole identificare un numero limitato di monumenti e collezioni da preservare, e quindi lasciare il resto al proprio destino, qualunque esso sia? Sarebbe una buona soluzione vendere o prestare monumenti e musei a proprietari privati, che potrebbero voler prendersene cura? Dovrebbe essere una soluzione permanente, o temporanea? La gestione privata anziché pubblica del Patrimonio Culturale sarebbe più efficace e forse meno costosa? In quali condizioni, se esistono, la privatizzazione di monumenti e musei pubblici dovrebbe essere presa in considerazione nelle politiche governative?
Concludo menzionando due temi che varrebbe forse la pena di discutere in questo contesto, e cioè:
l’equilibrio tra i grandi musei (nazionali o regionali), e i piccoli musei locali
l’equilibrio tra le collezioni permanenti e la politica delle mostre
Prima di affrontare questi due temi lasciatemi menzionare un argomento più generale, che attiene evidentemente a entrambe. Intendo, la sempre più diffusa concezione di patrimonio culturale come risorsa principalmente economica e, in quanto tale, da sfruttare. Si tratta, da un lato, di una delle tante manifestazioni dell’enfasi globale su denaro e finanza; dall’altro, di un chiaro sintomo dello status incerto del patrimonio culturale nel mondo contemporaneo.
Uno dei tanti paradossi del nostro tempo è che la protezione del patrimonio culturale cresce in alcune aree del mondo e simultaneamente decresce, o piuttosto cambia natura, in altre. Cresce effettivamente in molti Paesi emergenti, dove sempre più spesso è considerata parte integrante dell’identità culturale, della consapevolezza politica e dello sviluppo economico di un Paese; e, come parte di questo processo, più i Governi locali scelgono di proteggere il loro patrimonio culturale, quale che sia la sua definizione, più cresce il numero di oggetti di valore archeologico o artistico che entrano nei musei. In sintonia con questo sviluppo, Paesi nei quali non esisteva storicamente una tradizione di leggi speciali per la protezione del patrimonio culturale adottano gradualmente qualche forma di normazione pubblica, in alcuni casi persino a livello costituzionale.
Con un processo inverso, e in un certo senso di difficile comprensione, Paesi nei quali storicamente la tradizione di normative giuridiche di diversa natura a protezione del patrimonio culturale è più antica e più profondamente consolidata, come l’Italia, stanno invece sviluppando una concezione opposta, secondo la quale la prima, se non l’unica, ragione per proteggere il patrimonio culturale è rappresentata dal suo valore economico e monetario, e non da qualsiasi altro criterio basato sui valori artistici, culturali o civili.
Di conseguenza, persino in un Paese come l’Italia, che è stato il primo al mondo a includere la salvaguardia del patrimonio culturale (e del paesaggio) tra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica (1948), ogni passo nel processo di protezione del patrimonio culturale, di finanziamento ai musei, e così via, deve sempre più essere negoziato e discusso come qualcosa di tendenzialmente opzionale, se non addirittura superfluo.
Forse non sarebbe scorretto dire che è una spinta comune, quella del mercato, a determinare entrambi gli sviluppi. Ciò accade, tuttavia, in modo diverso da luogo a luogo. Da un lato, i Paesi in via di sviluppo tendono negli ultimi tempi a rendere più severe le leggi per proteggere il patrimonio culturale nella speranza di ridurre i danni causati dalla massiccia esportazione di oggetti d’arte. In altri Paesi, e lasciatemi portare nuovamente l’Italia come esempio, le antiche leggi che proteggono il patrimonio culturale hanno consentito nel tempo l’accumulo di un vasto patrimonio; eppure il suo valore monetario, purtroppo, sta prendendo il sopravvento, al punto che a volte persino i custodi stessi del patrimonio si preoccupano più di sfruttarlo che di preservarlo, e ciò di fatto mina, indebolisce o rende inefficaci le leggi di tutela.
L’importanza dei piccoli
Permettetemi di enunciare due questioni attuali sulle quali vorrei attirare la vostra attenzione. In entrambi i casi, gli esempi che ho in mente si riferiscono all’Italia. Per prima cosa, come ho detto prima, l’equilibrio tra i grandi musei (nazionali o regionali) e i piccoli musei locali. Se per moltissimo tempo è stato dato per scontato che un numero molto limitato di musei dovesse offrire collezioni rappresentative di oggetti d’arte, in tempi più recenti (e specialmente dopo la seconda guerra mondiale) un gran numero di piccoli, a volte piccolissimi musei, sono stati creati in quasi ogni località, nel convincimento che gli oggetti d’arte non dovrebbero essere rimossi dal loro contesto originario, e che un museo locale comporti un grande beneficio sia per l’identità culturale dei cittadini (locali) sia per l’economia (locale) (grazie al turismo).
Questi due principi non sono nuovi: erano entrambi esplicitamente menzionati nel Costituto (cioè Costituzione) del Comune di Siena, datata 1309, dove si dice che chiunque governi la Città deve averne a cura «massimamente la bellezza», onde essa sia «onorevolmente dotata et guernita», «per cagione di diletto et allegrezza ai forestieri, et per onore, prosperità et acrescimento de la città et de’ cittadini di Siena». Ciò nondimeno, è chiaro che una frammentazione e segmentazione delle collezioni d’arte in una miriade di piccoli musei, anche se può essere gratificante, è necessariamente molto costosa. Tale questione viene normalmente discussa guardandola attraverso un solo punto di vista, quello dell’equilibrio tra costi e benefici.
Mi piacerebbe suggerire però che esiste un ingrediente ulteriore, e anzi secondo me perfino più importante, che vale la pena di prendere in considerazione. La vera natura dei musei non consiste nell’esporre oggetti d’arte, ma nel fare in modo che i visitatori pensino e riflettano su di essi. I musei sono, o dovrebbero essere, delle «macchine per pensare»: perciò essi hanno bisogno di collezioni che consentano il confronto tra diverse produzioni artistiche: musei con solo pochi oggetti (o perfino costruiti intorno a un solo oggetto d’arte «iconico») sono, quindi, largamente inefficaci, e tendono a trasformare la storia dell’arte in una sorta di quasi superstiziosa «adorazione» di icone emblematiche.
Troppe mostre, troppe. Mostre vuote di contenuti
Questi stessi punti, confronto e reflessione, sono ugualmente importanti per valutare il difficile equilibrio tra le collezioni permanenti e le politiche delle mostre. Tutti sono d’accordo, in linea di principio, sul fatto che stiamo facendo troppe mostre, e che per la maggior parte esse sono totalmente prive di contenuti intellettuali, storici, etici e politici; eppure, continuiamo a organizzare mostre ogni settimana, dovunque, indipendentemente dal loro valore intellettuale.
La mia personale opinione è che, specialmente se e quando ci troviamo a confrontarci con difficoltà di budget, dovremmo concentrare al massimo, se non del tutto, le nostre risorse sulle collezioni permanenti, e di conseguenza limitare fortemente l’organizzazione di mostre. Ma tutti sappiamo che, di nuovo, molti rimarcherebbero come le mostre rappresentino un aspetto necessario di ciò che i musei possono offrire, e che la maggior parte dei visitatori sono in media più attratti dalle mostre che dalle collezioni permanenti.
Mostre e musei servono a farci ragionare
Qual è, dunque, il «giusto» equilibrio? Secondo me, una simile discussione non dovrebbe vertere (sicuramente non in modo esclusivo) su considerazioni economiche, ma sulla funzione delle mostre d’arte, che, come per i musei, dovrebbe essere quella di farci ragionare sull’arte e sulla cultura del passato, allo scopo di trarre da esse idee ed energie per il nostro presente e il nostro futuro. Arte e cultura, in questa concezione, riguardano prima di tutto la cittadinanza, cioè la piena consapevolezza della nostra memoria culturale collettiva come ingrediente fondamentale della democrazia (questo è, d’altronde, il messaggio base della Costituzione italiana e del ruolo che essa assegna al patrimonio culturale). A questo riguardo, una mostra di un solo dipinto (o statua), come accade sempre più spesso, dovrebbe in generale essere evitata, perché non offre alcun confronto, ma eleva artificialmente una singola opera d’arte al rango di «icona», tendenzialmente svuotata di contenuti storici ed etici.
Ma le città non sono musei
Concludo menzionando un ulteriore, ma non meno importante, aspetto della crisi dello status del patrimonio culturale: la sua «istituzionalizzazione», cioè l’idea che si tratti di qualcosa di separato dal resto del mondo dell’arte, o della «vita normale». Segnali di questo processo sono la musealizzazione di qualsiasi manufatto di valore, e la trasformazione (percettiva, se non legale) di chiese, palazzi, edifici vari e persino strade intere o ampie zone cittadine in esposizioni di tipo «museale». In alcuni casi perfino intere città, come Venezia o Firenze, vengono definite «città-museo». Ma le città non sono musei: la vera questione è come fare dei musei un elemento dinamico, essenziale del tessuto urbano, e come fare che ciò accada sia nelle piccole città che nelle grandi.
Luoghi di intrattenimento o di pensiero?
Come si può raggiungere un simile obiettivo? Il fatto è che, anche se c’è una tendenza all’istituire nuovi musei, c’è anche la tendenza a trasformare i musei (vecchi e nuovi) in qualcos’altro, quasi dovessero essere centri commerciali o luoghi di intrattenimento. A mio avviso, ci troviamo oggi di fronte a bivio cruciale: il museo dev’essere luogo di intrattenimento o dev’essere invece esperimento di pensiero ed emblema di cittadinanza? Torno così al mio punto di partenza: se normalmente diamo per scontata l’esistenza stessa dei musei limitandoci ad analizzarne la storia o le tecniche espositive, dobbiamo invece ricordarci che i musei sono istituzioni di formazione relativamente recente, il risultato di un lungo processo storico che potrebbe anche giungere a conclusione, tanto più che loro funzione, come quella delle mostre, sta diventando sempre meno definita.
Se non diventano parte integrante della nostra vita possono morire.
Sempre più gente considera erroneamente i musei e le mostre come una forma di attrazione tra tante altre: e questo è inevitabile, a meno di riuscire a considerarli come parte integrante della città e della sua vita, invece che separati da esse. Questo processo di logoramento è dovuto ai numerosi cambiamenti che si sono verificati nel corso degli ultimi decenni, come l’enorme incremento dei visitatori dei musei, la crescita del numero dei musei, la crescente professionalizzazione degli staff museali, la tendenza a sfruttare i musei per fini politici o elettorali; infine, l’allargamento della definizione di «arte», anzi anche di ciò che vale la pena di essere «messo in mostra». L’opinione generale considera la maggior parte di questi sviluppi come positivi, e con buona ragione; tuttavia, la pressione esercitata da varie direzioni, tra cui il mercato e la globalizzazione, oltre alla realtà delle politiche locali, può generare una crisi ancora più profonda di quanto non sia oggi visibile. Questa è, io credo, una delle numerose ragioni per le quali la riflessione sulla storia e sulle politiche attuali riguardanti il patrimonio culturale in varie zone del mondo dovrebbe rappresentare un impegno urgente e prioritario per quelli di noi che hanno a cuore il patrimonio culturale e la sua trasmissioni alle generazioni future.
* Il comitato internazionale, fondato dalla francese Irène Bizot, è composto dai direttori dei principali musei del mondo. Dal 1992 si riunisce due volte l’anno per discutere questioni relative a musei e mostre e favorire gli scambi di opere e idee tra le grandi istituzioni museali.
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Straordinaria, lucidissima analisi!
Come tutte le analisi illuminanti dice cose che tutti abbiamo sotto gli occhi e che, troppo spesso, diamo per scontate senza soffermarci a focalizzarle e valutarle con rigore e senso critico.
Ho un bel po’ da pensare su questi argomenti per le prossime settimane.