Sono fragili non portiamo all’Expo i bronzi di Riace [di Salvatore Settis]

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La Repubblica, 18/08/2014. Scambiati per costosi soprammobili, i Bronzi di Riace sono periodicamente invitati al trasloco in occasione di incontri internazionali, esposizioni commerciali e altri “grandi eventi”, dove — vuole la leggenda — innalzerebbero di botto il prestigio nazionale. facendo così dimenticare a politici e banchieri assai sospettosi dell’Italia il debito pubblico, la recessione, la disoccupazione, la devastazione dei paesaggi, l’evasione fiscale, il declino della scuola, dell’università, della ricerca.

L’idea di un’opera iconica che riassuma le meraviglie d’Italia scatenando vuote vanterie si estende ad altre celebrità, per esempio il Davide di Donatello, trascinato qualche anno fa alla Fiera di Milano. E non è poi tanto lontana l’insistenza di Berlusconi che, deportando i Bronzi alla Maddalena per il G8, sperava di recuperare qualche grammo di credibilità. Queste ostensioni fuori contesto hanno un vantaggio: evitano sia a chi le fa sia ai visitatori la tentazione di pensare. Davanti alle icone, infatti, non si pensa, si venera, esaltando la bellezza, magari come l’equivalente di un giacimento di petrolio, con conseguenti introiti.

In restauro per anni, i Bronzi di Riace sono stati visibili poco o niente, e solo da qualche mese sono di nuovo in vista: ragione sufficiente per non smuoverli dai loro piedistalli antisismici, nonché per rinnovare strategie espositive e attrattive. Di fronte alle proposte di spedirli a Milano per l’Expo, Franceschini parla di una commissione ad hoc: ma il suo ministero ha un organo tecnico, l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che è in grado di fornirgli domattina tutta la documentazione necessaria (e che già si oppose ad altre peregrinazioni dei Bronzi). Ma quel che l’Istituto (o qualsivoglia commissione di esperti) dirà è scontato: sono tanto preziosi e vulnerabili che meno si muovono meglio è.

Eppure non è tutto qui. Davanti a una sgangherata industria delle mostre, chiediamoci: dato che ogni movimento comporta rischi, quando vale la pena di muovere un’opera d’arte per una mostra? Farsi questa domanda ha uno svantaggio: obbliga a pensare. Anche se ci hanno già pensato in molti, per esempio Quatremère de Quincy, con la sua folgorante osservazione (1796) che perfino un quadro di Raffaello, se fuori contesto, non dice nulla, perché non è una reliquia, come un frammento della Croce, che possa «comunicare le virtù legate all’insieme ». Le mostre servono solo se creano trame di relazioni accostando opere normalmente lontane. Servono se nascono da un progetto, da una ricerca; se comportano acquisti di conoscenza sia per gli esperti che per il pubblico.

Questa regola non vale solo per i capolavori supremi (come i Bronzi), ma per qualsiasi opera d’arte. Perché il nostro patrimonio culturale non è una collezione di icone ma un deposito di memoria culturale. È ingranaggio essenziale di un diritto alla cultura oggi mortificato in ogni suo aspetto, dalla scuola al teatro. Inutile, anzi controproducente usare i Bronzi come paravento per nascondere l’indifferenza dei governi ai temi della cultura. Se davvero vogliamo avere qualcosa di cui vantarci all’Expo, meno icone e più fatti. A Franceschini auguriamo che riesca davvero, come ha dichiarato a Repubblica, a raddoppiare i finanziamenti al suo ministero nella prossima legge di stabilità. Non si farebbe che tornare ai livelli del 2008, quando Tremonti li dimezzò, fra grandi proteste della sinistra, che però finora non vi ha posto alcun rimedio. Proprio perché vetrina d’Italia, l’Expo può essere l’occasione di investire sul nostro patrimonio, e non di sbandierare icone.

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