Terra, paesaggio e una borghesia scomparsa [di Giampaolo Salice]
Sintesi della Relazione presentata all’iniziativa Quale Rinascita? Villasor: tra buona terra storia recupero organizzata a Villasor Castello Siviller Lunedì 28 luglio dal Fondo Ambiente Italiano Sardegna (FAI) (NdR) Ringrazio il Fondo Ambiente Italiano Sardegna (FAI) per avermi invitato all’incontro di oggi; di avermi invitato a parlare in un contesto così significativo come la casa fortezza Alagon-Siviller di Villasor. L’edificio è stato edificato nel 1415, qualche anno dopo la sconfitta del Giudicato d’Arborea da parte dei Catalano-Aragonesi. Un momento delicatissimo, nel quale il Campidano che unisce Cagliari e Oristano conosceva in una condizione di completa anarchia. Questa casa fortezza nasceva allora per difendere i coloni chiamati a ripopolare il territorio e permettere la riattivazione dei cicli produttivi spezzati dalla lunga guerra di conquista. L’esperimento venne coronato dal successo. In meno di duecento anni, la comunità che prese forma all’ombra della fortificazione ristrutturava gli equilibri produttivi della regione, mentre al suo interno prendeva corpo una nuova élite di pastori-agricoltori. Un pugno di famiglie che fin dal Seicento assume su di sé il compito di rappresentare gli interessi collettivi, in una contrattazione incessante col foro baronale. Sul piatto c’è la difesa delle produzioni agricole e pastorali, fondamento di accorte politiche genealogico-patrimoniali e della possibilità di avanzare sul terreno delle élite nobilitate e alfabetizzate. Per quattro secoli, il fondamento di ogni ipotesi d’ascesa sociale è dunque la terra: un paesaggio sociale e morale incardinato su aziende miste, nel quale il settore agricolo (la cerealicoltura) vive in relazione simbiotica con una forte componente pastorale. Le grandi case campidanesi sono lo specchio di un mondo nel quale – diversamente da quanto propagandato dalla mitologia sui Sud e sulla Sardegna – pastore e agricoltore non sono nemici, ma coincidono spesso sotto lo stesso cognome. È un’economia diversificata, che combina spazi seminativi a pascoli e che gestisce collettivamente predi privatizzati già dalla piena età moderna.Il pugno di cognomi che governa simili dinamiche, dal Settecento investe anche in colture specialistiche come il cotone, il lino, la seta, l’olio, avviando processi di trasformazione proto-manifatturiera e di accumulazione di capitale. A fronte di un protagonismo locale così spiccato, non deve stupire che proprio a Villasor, proprio nei locali della casa forte che oggi ci ospita, si incontrassero alcuni tra i protagonisti principali della Sardegna della tarda età moderna e della prima età contemporanea. Salvatore è figlio di quel Gaetano che si era distinto nel moto angiojano e che poi era stato implicato nella congiura di Palabanda del 1812. Congiura alla quale avevano preso parte anche i già citati Ortu; in particolare Giuseppe, avvocato di punta del foro cagliaritano, sposato con una ricca possidente di Sestu, che poi sarà il nonno del futuro ministro d’età giolittiana Francesco Cocco Ortu. Per decenni la storiografia ha negato la presenza in Sardegna di una borghesia progressiva. Perfino la rivolta contro le chiudende è stata letta come moto proletario alla privatizzazione di spazi collettivi da parte di una manciata di principales in combutta con lo Stato: recenti studi hanno invece mostrato come quel moto sia stato governato dalle élite locali, nel tentativo ultimo di tarare la portata eversiva di certi provvedimenti statali sulle esigenze produttive storicamente espresse dai territori. Sarebbe a dire che queste borghesie negate, e riscoperte solo in tempi recenti, sono state uno strumento di bilanciamento tra esigenza di mutamento e bisogno di conservazione; che fino al momento in cui questo ceto ha fondato prestigio e stabilità economica sulla terra, esso ne ha difeso gli equilibri produttivi, i profili culturali e narrativi, spesso anche al costo di congelarli ed escluderli da più naturali processi di trasformazione. Ma nel momento in cui questa “borghesia” ha trovato altrove il proprio centro di interesse e ha abbandonato la campagna, negli entroterra si è aperto un pauroso vuoto di valori, di urgenze, di competenze. Un vuoto qui e là colmato da progetti di sfruttamento di segno completamente diverso: non saprei dire se negativi o positivi, però certo – spesso – polarizzati su urgenze esterne a quelle del perimetro comunitario. Il cementificio di Nuraminis-Samatzai, la miniera d’oro di Furtei, il foltovoltaico di Villasor sono alcuni esempi di una casistica molto ampia. Il dato che sembrerebbe indicare il ritorno delle giovani generazioni alla terra è da questo punto di vista incoraggiante: è come se dopo seicento anni assistessimo a una nuova stagione di ricolonizzazione fondiaria, finalizzata a riportare negli entroterra rurali competenze, idealità, valori e urgenze produttive, in un dialogo informato, attivo e positivo con i porti, le città, le reti di scambio trans-nazionali. I processi di rioccupazione di questa marca sono sono stati da sempre (e sono ancora oggi) uno degli antidoti più potenti alla perdita di significato e di centralità delle comunità rurali e dei paesaggi nei quali esse sono insediate. Da questo punto di vista ritengo importante l’intuizione del FAI Sardegna di puntare sulla terra, sull’agricoltura, sul paesaggio: per rafforzare la determinazione di chi sta valutando un ritorno alla terra e per sostenere processi di riassetto territoriale che, oggi come in passato, possono avere un impatto enorme in termini non solo produttivi, ma anche culturali e sociali. *Storico. Università di Cagliari
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