Isole nella corrente dell’alluminio [di Raffaele Deidda]
Con un comunicato asciutto ed essenziale del 25 agosto scorso Bob Wilt, Presidente di Alcoa Global Primary Products. ha reso nota la decisione della Socierà Alcoa (Aluminum Company of America), di chiudere l’impianto “smelter” di alluminio primario di Portovesme. Con la motivazione degli elevati costi di produzione e delle limitate prospettive di competitività. La notizia non ha colto di sorpresa la Regione Sardegna in quanto, ha sostenuto il presidente Pigliaru, non produce alcuna conseguenza continuando ad essere la Regione “attivamente impegnata in prima persona nella trattativa per favorire l’acquisto degli impianti di alluminio da parte di un altro soggetto imprenditoriale.” Nessun problema quindi, tutto come previsto e concordato? Parrebbe di sì. A leggere i comunicati in lingua inglese dell’Alcoa, risale al mese di gennaio 2012 la dichiarata volontà della Società americana di interrompere la produzione di alluminio a Portovesme. Da quel momento in poi la Società si sarebbe preoccupata di lavorare con i dipendenti, le Organizzazioni Sindacali e gli “stakeholders” esterni “throughout the process to consider and address their concerns”. Uscendo dal sindacalese o, meglio, dall’aziendalese, dovrebbe significare che l’azienda si è resa disponibile ad accompagnare i suddetti soggetti in un percorso di considerazione e di (re?) indirizzo dei loro interessi. Disponibilità tradottasi nella messa in Cassa Integrazione dei dipendenti a far data dal 1 gennaio 2013. In definitiva, lo smelter di Portovesme acquisito dall’Alcoa nel 1996 verrà definitivamente fermato entro l’anno in corso. Nel mentre, rassicura il presidente Pigliaru, l’iniziativa della Regione finalizzata alla vendita dell’impianto ad altro soggetto imprenditoriale “non è stata allentata in queste settimane d’agosto e si lavora con il massimo sforzo con l’obiettivo di pervenire a un memorandum d’intesa”. C’è già, quindi, un probabile acquirente dello smelter di Portovesme del quale la dovuta riservatezza sconsiglia di rivelare l’identità prima che venga sottoscritto un memorandum d’intesa? Certo è che al cittadino che non parla il politichese, l’aziendalese e neppure il sindacalese le domande sorgono spontanee: Se l’impianto di Portovesme viene fermato dall’Alcoa a causa degli alti costi di produzione e delle scarse prospettive di competitività perché mai un altro soggetto imprenditoriale dovrebbe acquistarlo? Ci sono altre società più brave del colosso statunitense dell’alluminio nel trarre profitto da impianti industriali che l’Alcoa non vuole più? Se esistono, lo farebbero “a gratis” o pretenderebbero aiuti e sovvenzioni pubbliche pari o maggiori di quelle ottenute da Alcoa (415 milioni di euro solo nel triennio 2006/2008, secondo i dati della Commissione Europea)? Qui sta il punto vero: Tutti gli imprenditori sono bravi a fare i soldi con i soldi dello Stato e della Regione. Chi l’ha ampiamente dimostrato è proprio l’Alcoa. Lascia la Sardegna perché le agevolazioni e i sostegni pubblici ricevuti non compensano più le scarse “prospettive di competitività”. Se i decisori pubblici italiani nazionali, regionali e locali avessero seguito le “mosse” imprenditoriali dell’Alcoa in un’altra isola, l’Islanda, avrebbero rilevato come la multinazionale sappia egregiamente badare ai propri interessi. L’Alcoa aveva avviato nell’Islanda orientale, nel mese di giugno del 2007, l’impianto Fjarðaál (Alluminio dei Fiordi) per la produzione di circa 350.000tonnellate/anno di alluminio, d’intesa con l‘ente pubblico energetico islandese Landsvirkjun. Questo avrebbe ceduto l’energia elettrica a prezzi estremamente bassi e oscillanti in funzione delle variazioni del prezzo di mercato dell’alluminio. Rendendo evidente il fatto che, essendo Landsvirkjun un ente statale, in caso di calo del valore dell’alluminio avrebbero pagato i cittadini islandesi. Se poi è vero quanto riportato dalla rivista News of Iceland che l’Alcoa non ha mai pagato, fin dal 2003, una sola corona delle imposte dovute dalle imprese che operano in Islanda, il quadro delle convenienze e delle prospettive di competitività diventa evidente. Per l’Alcoa, non per l’Islanda, visto che l’Agenzia Nazionale Islandese per la Pianificazione, organismo indipendente incaricato di valutare l’impatto ambientale, aveva a suo tempo dichiarato che non esistevano prove sul fatto che i vantaggi economici derivanti dalla realizzazione del progetto potessero compensare i “sostanziali, irreversibili, negativi effetti sull’ambiente”. Dichiarazione rimasta, in tutta evidenza, inascoltata. Col risultato che uno degli ultimi ambienti naturali integri del pianeta è oggi irrimediabilmente compromesso, con l’area intorno a Reyðarfjörður inquinata da scarichi e scorie e con una manodopera composta prevalentemente da lavoratori stranieri disposti ad accettare basse retribuzioni. Altrettanto bene non è andata la “scalata” all’Islanda del Nord. Nel 2011 l’Alcoa aveva ipotizzato la realizzazione di un altro smelter nei pressi di Husavik. Città, fra l’altro, a forte vocazione turistica. Non se n’è fatto nulla perché questa volta l’ente energetico Landsvirkjun, a detta dei dirigenti Alcoa, non è stato in grado di offrire l’energia elettrica necessaria ad un prezzo “sufficientemente basso.” Le dinamiche islandesi possono costituire una chiave di lettura realistica dell’uscita dell’Alcoa dal contesto industriale sardo. E’ auspicabile che vengano debitamente considerate al momento di traferire la proprietà dell’impianto di Portovesme ad altri soggetti imprenditoriali. Per evitare lo sperpero di risorse pubbliche a fronte di scarsi o inesistenti vantaggi economici per un territorio non meno bello dell’Islanda, già martoriato dalla crisi economico-industriale e ambientalmente devastato.
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Ben detto. L’analisi dettagliata della strategia di Alcoa, e visto che ” Tutti gli imprenditori sono bravi a fare i soldi con i soldi dello Stato e della Regione” l’alluminio del Sulcis avrà un futuro solo regalando l’energia (sovvenzioni pubbliche) agli eventuali acquirenti di Alcoa.