Cambiamento dell’agricoltura sarda nel decennio [di Angelino Olmeo]
Analizzando il censimento dell’agricoltura sarda del 2010 e confrontandolo con quello del 2000, si evidenzia una consistente perdita sia in termini quantitativi che qualitativi della PLV agricola. Per meglio rendere l’idea ne evidenzio alcune voci: secondo l’ultimo censimento, la Sardegna si presenta con una delle più basse produttività per ettaro (penultima) e con il più basso rendimento per ora di lavoro. La produzione e il valore aggiunto regionale, calcolati a prezzi di base con riferimento al 2005, sono calati rispettivamente dell’1,7 e del 3,6%. A guardar bene l’andamento delle principali colture nel decennio intercensuario, registriamo la perdita di 70.000 Ha di cereali seminativi (la maggior parte di questi sono da riportare al grano duro), 14.000 HA sono la perdita dovuta al mancato investimento in bietole da zucchero, 7.500 Ha sono dovuti alla vite, 4.000 HA ai fruttiferi, l’olivo perde 3.500 HA, ma assume particolare significato anche la scomparsa di circa 1/3 delle superfici ad agrumi. Il censimento non lo rileva, ma dobbiamo ricordare che in questo decennio abbiamo un dato molto negativo ed importante per la nostra economia, ovvero la perdita di circa 110.000 quintali, su poco più di 200.000 di esportazione, di formaggio Pecorino Romano verso gli Stati Uniti, pur in presenza di un continuo aumento di consumi di formaggi a pasta dura da parte degli USA. Infatti, si registra in questo periodo intercensuario un aumento di autoapprovvigionamento USA, che passa dal 28% del 2000 al 52% del 2010. In questi 10 anni si è perso, in Sardegna, 1/3 della produzione di latte di pecora. Per contro, crescono i terreni al pascolo (+27.0000 Ha) e i terreni a riposo (+ 5000), e questo è inequivocabilmente un dato negativo.Di positivo invece vi è l’aumento della coltivazione di legumi secchi (+3.000 Ha ) e di ortive (1.300HA), che per quanto coltivate su superfici limitate, sono comunque un segnale interessante insieme ad alcuni altri dati, quali l’aumento della dimensione dell’azienda media sarda (che con 19 Ha è la più alta delle regioni italiane), l’aumento del livello di istruzione dei capi azienda rispetto al 2000 (la quota dei laureati passa da 2,5% a 4,8% e quella dei diplomati passa da 11,9% al 13, 9%). La conclusione che si può trarre da questi dati è che abbiamo coltivato abbandono. È evidente che siamo in una fase di disaffezione al settore e che il modello di sviluppo seguito è totalmente sbagliato. Non sono esenti da colpa le leggi e le norme europee che in questi anni hanno incentivato la non coltivazione con il disaccoppiamento e la stessa Regione sarda che ha continuato ad elargire contributi con i suoi piani di sviluppo (PSR), molto spesso contradditori tra loro, i cui bandi erano e sono di difficile interpretazione e attuazione. Eppure una grande opportunità si è avuta senza che la politica se ne accorgesse. Mi riferisco alla produzione di energie alternative. Chi meglio degli agricoltori, che di fatto sono i guardiani e i detentori del territorio, avevano titolo per ottenere concessioni per produrre energia pulita? Concessioni differenziate per entità, commisurate e finalizzate all’obiettivo di dare un sostegno e una rendita finanziaria aggiuntive, laddove la gestione agricola è più severa: ciò avrebbe consentito la permanenza attiva del singolo agricoltore nel territorio, mantenuto le produzioni agricole storiche e, soprattutto, favorito il ricambio generazionale mantenendo i giovani nelle campagne. Il risultato sarebbe stato, quindi, quello del mancato spopolamento delle zone interne e le concessioni diffuse e meno concentrate sarebbero state certamente meno invasive delle mega, le quali si sono poi rivelate ingiustificate ed elargite generosamente a gruppi di investimento esteri, che a loro volta le hanno rivendute facendo grossi guadagni. Il PSR dell’assessorato agricoltura, pomposamente autocelebrato come “fatto in casa” (dai funzionari regionali, senza dibattito con gli agricoltori e quindi degli utenti) solo marginalmente prendeva in considerazione la possibilità di fare investimenti per produrre energia pulita e sempre e comunque solo per autoconsumo. Oggi, invece, l’Assessorato all’agricoltura, diventato più elastico, riconosce la possibilità di fare energia anche oltre l’autoconsumo, peccato che l’investimento sia ormai antieconomico. Ne è un esempio il Pecorino Romano, il nostro prodotto di export di eccellenza è una delle DOP più antiche, che ormai da 15 anni rappresenta solo una parte della miscela di formaggi da grattugia utilizzati nei fast food americani. Oppure si potrebbe citare la pasta e il pane industriali, ormai competitivi solo per prezzo, considerato anche che la superficie destinata alla coltivazione del grano duro in Sardegna ormai ammonta solo a circa 1/5 della superficie originaria, quella di prima del disaccoppiamento. Per non parlare dell’ipotizzato utilizzo di 100.000 Ha di terreno per la produzione dell’anonimo cardo da utilizzare negli impianti della cosiddetta chimica verde, superficie sottratta ad altre produzioni ed in particolare, per la vocazione di tali terreni, alla coltivazione del carciofo spinoso sardo, in via di ottenimento della DOP, altra eccellenza delle produzioni agricole sarde. I casi di successo di produzioni di alta qualità nei settori del vino, liquori, dolci, pane, dell’olio e di alcuni formaggi ci indicano, a costo di essere ripetitivi, la via maestra delle produzioni di qualità per uscire dal pantano delle produzioni non specifiche ed anonime. Tutto questo va supportato da un lavoro di marketing e promozione che non può essere per gran parte fatto dalla RAS. Una occasione migliore non può che essere quella dell’EXPO 2015. *Imprenditore agricolo |