Le condizioni istituzionali per lo sviluppo [di Giorgio Macciotta]
Pubblichiamo la Relazione introduttiva di Giorgio Macciotta della Sezione Lo stato dell’economia e del lavoro al Convegno Come creare lavoro? Quale e come? Nell’ambito de S’Ischola de su Trabagliu tenutasi a Pattada Venerdì 12 e Sabato 13 settembre, organizzata dall’Associazone culturale LAMAS. L’iniziativa diventata ormai un vero e proprio think tank o per dirla in italiano un serbatoio di pensiero e di idee si è occupata di analisi di politiche industriali, agricole, manifatturiere, della conoscenza e culturali. (NdR). 2. La omogeneità, negativa, di questi segnali fa emergere l’esigenza (fondata) di concentrarsi maggiormente sugli interventi più immediatamente incidenti sui temi economico-sociali per affrontare con decisione la situazione ma, insieme, sembra portare argomenti a coloro che sono favorevoli alla ipotesi (assai meno convincente) di accantonamento del filone di lavoro sulle riforme istituzionali. 3. La scelta di affrontare l’emergenza economica senza sciogliere, insieme, alcuni nodi istituzionali non sembra, peraltro, facilmente praticabile. In primo luogo occorre considerare che incisivi interventi in economia, a “regole vigenti”, richiederebbero un ammontare di nuove risorse che difficilmente sarebbero reperibili in un quadro di finanza pubblica segnato da un debito ingente, e non ancora integralmente emerso. Il debito pubblico, anche a prescindere dai parametri europei, rappresenta per l’Italia un vincolo ineludibile. La voce più squilibrante (in termini quantitativi e qualitativi) dei bilanci delle nostre Pubbliche Amministrazioni è costituita, infatti, dall’ingente ammontare delle risorse che il debito pubblico costringe ad appostare in bilancio per il pagamento degli interessi. Squilibrante in termini quantitativi perché si tratta di una voce che pesa, in rapporto al PIL, circa il doppio di quanto pesa analoga appostazione nei bilanci dei nostri competitor. Squilibrante in termini qualitativi perché: a) per una quota rilevante si tratta di risorse destinate a investitori esteri (un impoverimento netto del paese) ; b) perché, su scala interna, in termini territoriali la quota percepita al Nord eccede largamente la consistenza della popolazione e del PIL dell’area ; c) perché i tassi che l’Italia paga, elevati malgrado la riduzione dello spread (e, comunque da commisurare al tasso di crescita nominale del PIL), influiscono sul livello dei tassi passivi richiesti ai cittadini ed alle imprese; d) perché l’elevata remunerazione degli investimenti finanziari distorce le convenienze nella allocazione delle risorse. 4. Occorre, allora, una strategia di rilancio che intrecci una rigorosa gestione della finanza pubblica, con attenta destinazione delle limitate risorse disponibili, con l’eliminazione di vincoli non meno rilevanti che derivano dalla inefficienza del sistema istituzionale e normativo. Tra le motivazioni che scoraggiano nuovi investimenti è costante quella circa una organizzazione istituzionale che non è, comparativamente, più costosa di quella dei nostri competitor ma che, essendo più inefficiente e meno trasparente, impone a cittadini ed imprese maggiori costi, allunga i tempi di realizzazione degli interventi, da minori certezze sull’esito delle procedure. Ritenere che gli interventi di riforma istituzionale costituiscano una componente essenziale del processo di rilancio dell’economia non significa, naturalmente, valutare positivamente le scelte che, in tale materia, son state compiute dai precedenti e/o dall’attuale governo, che sono, anzi, per molti versi discutibili mentre non sembra discutibile che riforma istituzionale e sviluppo economico siano tra loro indissolubilmente intrecciati. Senza entrare nella problematica, pur rilevantissima, della riforma della giustizia civile o dell’esigenza di eliminare i guasti determinati dall’attuale disciplina del falso in bilancio e/o della degli appalti, intendo concentrare l’attenzione sull’esigenza di una registrazione delle procedure di governance in un quadro di riforma/applicazione del Titolo V della II parte della Costituzione. 5. Con la legge costituzionale 3/2001 era giunto a compimento un processo di riforma degli assetti istituzionali che sarebbe stato essenziale fin dal 1970, anno nel quale furono per la prima volta insediate le amministrazioni regionali. Sappiamo che non è andata così e che la sovrapposizione di competenze legislative e amministrative e l’introduzione di un sistema di finanziamento delle istituzioni regionali e locali interamente derivato ha creato guasti e disfunzioni ed è stata una delle cause degli squilibri della finanza pubblica. La scelta di decentramento di funzioni e di risorse dal centro alla periferia compiuta attraverso una radicale riformulazione del Titolo V della II parte della Costituzione, non ha mai dato luogo ad un coerente processo di attuazione ed è, oggi, in crisi per una molteplicità di motivazioni. L’attuale governo ha il merito di aver organicamente affrontato l’esigenza di una modifica di quel quadro istituzionale che altri governi avevano, semplicemente, disapplicato. Paradossalmente i segni più espliciti di una politica di … “disapplicazione organica” erano emersi in coincidenza con il processo di elaborazione e approvazione della legge (la 42 del 2009) che, predisponendo il quadro normativo per l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, avrebbe dovuto consentire la piena applicazione della riforma. Individuo quei segnali, in particolare, nel decreto legge 112 del 2008 e nella prassi di attuazione della legge 196/2009, che hanno travolto ogni altra, possibile, linea di gestione della riforma costituzionale e hanno imposto, nei fatti, una linea di ricentralizzazione. 6. Ci sono due ordini di motivazioni alle origini di un simile cambiamento di posizioni. C’è, in primo luogo, la ricaduta sull’economia italiana della crisi economico-finanziaria internazionale. In secondo luogo c’è l’impatto, su un opinione pubblica sempre più sconcertata, degli episodi di vera e propria malversazione emersi in molti contesti regionali e locali. 7. Non sto sostenendo, naturalmente, che il quadro istituzionale delineato dalla legge costituzionale 3/2001, e dalle relative norme di attuazione, non richiedesse revisioni. Quel che mi sembra evidente è che, da un lato, sul terreno costituzionale, c’è stata la rinuncia a muoversi in direzione di quelle modifiche di cui, immediatamente, si era avvertita la necessità (a partire dall’introduzione del principio di “interesse generale” e da una revisione mirata della ripartizione delle funzioni legislative prevista nei commi 2 e 3 dell’articolo 117). Si è proceduto, invece, in sostanziale deroga rispetto al quadro costituzionale, con una legislazione guidata dall’emergenza che ha determinato un crescere del contenzioso dinnanzi alla Corte Costituzionale. Basta pensare alla pratica, ripetuta nel tempo, dell’approvazione della manovra finanziaria con la tecnica del maxi emendamento e del voto di fiducia, quando non per decreto legge. 8. Quando il combinato disposto delle restrizioni finanziarie e degli scandali ha delegittimato i livelli locali di governo si è creato il clima favorevole a quella radicale inversione dei modelli di governance, che ha aperto la strada al processo di “ricentralizzazione” sia attraverso la legislazione ordinaria che con alcuni aggiustamenti d’ordine costituzionale. Vorrei partire dal processo di attuazione della fondamentale legge 42/2009, di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, che disciplina le modalità di acquisizione delle risorse delle istituzioni infra statuali. Di tale legge, in fase di attuazione, sono state trascurate le fondamentali disposizioni, che regolavano, in termini di principio, la pratica della “leale cooperazione” e si sono sottovalutati alcuni evidenti limiti, a partire dalla debolezza delle norme volte a disciplinarne l’applicazione alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome e dalla contraddittorietà della “perequazione parziale”. 9. Io penso che un disegno coerentemente riformatore avrebbe dovuto basarsi sulla convinzione che, in una società complessa come quella italiana, caratterizzata da una rilevante frammentazione dei soggetti istituzionali e sociali, per uscire dalla crisi siano necessari, per dirla con Gramsci, “la <buona volontà> e <l’entusiasmo>” proprio di quella molteplicità di soggetti istituzionali e sociali e che, sempre per dirla parafrasando Gramsci, sia “una pura ipotesi metodica” quella di promuovere risanamento e sviluppo mediante il solo “comando centralizzato”, ovvero la ricentralizzazione della gran parte delle funzioni legislative e il drastico ridimensionamento delle risorse destinate ai livelli locali di governo, senza alcun tentativo di promuovere la “leale cooperazione” tra tali soggetti, costitutivi della Repubblica, a norma dell’articolo 114 della Costituzione. 10. Mi pare evidente che alla base della ipotesi di restituire efficienza alla macchina pubblica, attraverso la riforma del Titolo V della II parte della Costituzione, ci fossero due ipotesi rilevanti di innovazione. Da un lato ci si proponeva di superare la logica in base alla quale, in tutta l’esperienza del regionalismo e negli ultimi 30 anni di quella del municipalismo, il coinvolgimento dei livelli locali di governo si era limitato a una contrattazione, “para sindacale”, sulla dimensione e sulla ripartizione dei trasferimenti finanziari loro destinati. Solo marginale, nel corso di questa esperienza, era stata la discussione comune sulla dimensione e sulla allocazione della spesa complessiva e sulle modalità di reperimento delle risorse. La seconda innovazione era costituita dalla convinzione che un quadro normativo fondato sul decentramento, avrebbe meglio consentito ai cittadini la valutazione, “cognita causa”, delle concrete politiche regionali e locali e la comparazione con le migliori pratiche su scala nazionale, spingendoli a chiedere una maggiore efficienza delle politiche pubbliche. 11. Nell’articolo 5 della legge 42 del 2009 le condizioni per una simile transizione erano delineate con sufficiente chiarezza. In particolare si prevedeva, infatti, il coinvolgimento dei “rappresentanti dei diversi livelli istituzionali di governo”, attraverso la “Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica”, nella “definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto, anche in relazione ai livelli di pressione fiscale e di indebitamento” (comma 1, cpv e lettera a). Era previsto, inoltre, che la Conferenza concorresse “alla definizione delle procedure per accertare eventuali scostamenti dagli obiettivi di finanza pubblica e (promuovesse) l’attivazione degli eventuali interventi necessari per il rispetto di tali obiettivi, in particolare per ciò che concerne la procedura del Patto di convergenza”. Una simile formulazione avrebbe dovuto comportare che il coinvolgimento partisse dalla fase di impostazione degli strumenti che, a norma delle disposizioni generali in materia di contabilità delle pubbliche amministrazioni, sono finalizzati a costituire il quadro di riferimento pluriennale della manovra di finanza pubblica, anche in relazione al quadro, sempre più stringente, costituito dalle regole dell’Unione europea. 12. La legge generale di contabilità (196 del 2009, come modificata dalla legge 39 del 2011) ribadiva che tutte “le amministrazioni pubbliche (avrebbero dovuto concorrere) al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale in coerenza con le procedure e i criteri stabiliti dall’Unione europea e ne (avrebbero dovuto condividere) le conseguenti responsabilità … (e che) il concorso al perseguimento di tali obiettivi si (sarebbe dovuto realizzare) secondo i principi fondamentali dell’armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica” (articolo 1, comma 1). La legge, infine, affidava al Documento di Economia e Finanza il compito di delineare “lo schema del Programma di stabilità”, attraverso l’individuazione degli “obiettivi di politica economica e del quadro delle previsioni economiche e di finanza pubblica almeno per il triennio successivo e degli obiettivi articolati per i sottosettori del conto delle amministrazioni pubbliche relativi alle amministrazioni centrali, alle amministrazioni locali e agli enti di previdenza e assistenza sociale” (articolo 10, comma 2 cpv e lettera a). 13. La procedura delineata dal combinato disposto di tali norme avrebbe dovuto comportare un coinvolgimento reale, attraverso la “Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica”, dei livelli istituzionali infra statuali nella elaborazione delle strategie di politica economica e, qualora in tale sede non si fosse pervenuti ad accordi, affidava al Parlamento della Repubblica la decisione finale, sulla base di una documentazione trasparente ed esaustiva circa le rispettive posizioni. Invece si è preferito proseguire con le procedure, del tutto differenti, introdotte a partire dal decreto legge 112 del 2008 (come convertito dalla legge 133 del 2008) che, anticipando nei fatti, e per decreto legge, la manovra di bilancio, prevedeva per Regioni ed Enti Locali un insieme di puntuali disposizioni per il contenimento della spesa, articolate per settori, che, al di la della loro effettiva praticabilità, deresponsabilizzavano totalmente gli organi di governo locale rispetto agli obiettivi generali di finanza pubblica e di sviluppo dell’economia. 14. L’applicazione della legge di contabilità invece di utilizzare le procedure innovative funzionali ad una costruzione consensuale degli obiettivi, con un’interpretazione burocratica delle norme, ha, conseguentemente, trasformato il “concorso” in mera “consultazione”, su un documento compiuto, e ha indicato una tempistica per l’esame (tra il 10 e il 20 aprile di ciascun anno, come risulta dal combinato disposto degli articoli 7 e 9 della legge 196 del 2009, come modificati dalla legge 39 del 2011) tale da impedire che gli amministratori regionali e locali formulino proposte che siano qualcosa di diverso dalla mera rivendicazione di minori tagli di spesa e/o di maggiori compartecipazioni alle entrate per il rispettivo livello di governo. È inutile nascondersi che tali scelte, comuni ai governi centrali pro tempo in carica, indotta da una sopravalutazione delle potenzialità salvifiche del “comando centralizzato”, ha coinciso con la vocazione, per così dire, “sindacalistica” dei governanti locali, favorendo la continuità di una prassi perversa. 15. Insieme, ha contribuito a tale deresponsabilizzazione l’uso insistito della facoltà di inserire nella legge annuale di stabilità “le norme eventualmente necessarie a garantire l’attuazione del Patto di stabilità interno … nonché a realizzare il Patto di convergenza” (legge 196 del 2009, art 11, comma 3, lettera m) e di prevedere altri interventi sulla finanza regionale e locale attraverso “disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, ciascuno dei quali … concorre al raggiungimento degli obiettivi programmatici … anche (con) interventi di carattere ordinamentale, organizzatorio, ovvero di rilancio e sviluppo dell’economia” (legge 196 del 2009, art 10, comma 6). Tale facoltà, intesa non come ipotesi straordinaria e, come previsto letteralmente dalla norma, “eventuale”, ma come pratica normale per la determinazione degli assetti istituzionali e finanziari delle Amministrazioni regionali e locali, ha praticamente azzerato qualsiasi ipotesi di programmazione pluriennale regionale e locale, sulla base della quale consentire, ai cittadini la misurazione dell’efficacia delle scelte compiute e, conseguentemente, delle relative amministrazioni . 16. Il “Primo Rapporto” della COPAFF (16 gennaio 2014) su “entità e ripartizione delle misure di finanza pubblica” fornisce un interessante quadro dei risultati ai quali si è giunti sulla base di tali scelte. In particolare voglio riferirmi al dato, che emerge dalla Tabella 2 di quel Rapporto, relativo all’incidenza delle misure adottate sulla spesa e sulle entrate dei diversi livelli di governo. In discussione non mi pare debba essere il valore assoluto dell’intervento e neanche la sua incidenza percentuale sulla spesa primaria delle amministrazioni regionali e locali (il 12% a fronte del 13,4% di riduzione della spesa delle Amministrazioni Centrali). Mi pare che valori assoluti e rapporti percentuali siano sostanzialmente in linea con la quota della spesa primaria gestita da quei livelli di governo, e che non si giustifichi, su questo terreno, la critica mossa dai governanti locali. Ma proprio in relazione al rilievo che la spesa primaria delle istituzioni territoriali infra statuali (il 32,2% contro il 24,1% della spesa delle Amministrazioni Centrali) ha assunto sul totale della spesa primaria merita attenzione il fatto che non si sia ritenuto indispensabile sottoporre ad una discussione collegiale, in sede di definizione degli “obiettivi di finanza pubblica”, un così rilevante intervento (in particolare in relazione alla spesa in conto capitale e alla modifica della pressione fiscale), anche in funzione di quell’uso sinergico di tutte le risorse pubbliche e private che, soprattutto in tempi di crisi, le Amministrazioni Pubbliche dovrebbero promuovere e praticare. Se a ciò si aggiunge che, in relazione ai tempi di approvazione della manovra finanziaria, Regioni ed Enti Locali hanno avuto conoscenza assai ritardata dei loro effettivi spazi di bilancio si comprende come, conseguentemente, sia stata vanificata non solo la possibilità di programmazione pluriennale ma anche quella di approvazione, nei termini previsti dalla legge, di bilanci di previsione veritieri. 17. Se si guarda poi al tema del “controllo dal basso” è difficile non convenire sul fatto che “l’obbligo di pubblicazione in siti internet dei bilanci delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni, tali da riportare in modo semplificato le entrate e le spese pro capite” (legge 42/2009, Art. 2, comma 2, lettera i), specificato dall’articolo 11, comma 2 del decreto legislativo 118/2011 (“Le amministrazioni pubbliche … redigono un rendiconto semplificato per il cittadino, da divulgare sul proprio sito internet, recante una esposizione sintetica dei dati di bilancio, con evidenziazione delle risorse finanziarie umane e strumentali utilizzate dall’ente nel perseguimento delle diverse finalità istituzionali, dei risultati conseguiti con riferimento a livello di copertura ed alla qualità dei servizi pubblici forniti ai cittadini e dell’eventuale relativo scostamento tra costi standard e costi effettivi”) si è rivelato ancor meno efficace. In questo caso si è trattato non soltanto di una diffusa disapplicazione delle norme ma, anche nei casi di loro applicazione, di una quasi generalizzata applicazione parziale e, conseguentemente, di una pubblicazione inutile in funzione dell’obiettivo di realizzare un controllo dal basso. In larga misura, infatti, i dati pubblicati sono espressi in valori assoluti e, anche quando si tratta di dati pro capite, non consentono raffronti significativi. La norma, inoltre, si limita alla previsione della comparazione “tra costi standard e costi effettivi” e nulla prevede né circa la comparazione dei “fabbisogni” né, soprattutto, circa la comparazione dei “prelievi”. Questo aspetto della standardizzazione dei prelievi, presente nella legge delega, risulta assai trascurato nella successiva discussione e nei provvedimenti attuativi del titolo V e della legge 42/2009. È evidente che se si vuole un uso non formale dello strumento del sito internet per realizzare trasparenza e controllo dal basso occorre profondamente innovare in questo campo. Un contributo ad una più efficace azione in tale direzione può venire anche dalla normativa, ormai di prossima attuazione, che prevede una radicale ristrutturazione dei centri di spesa degli enti locali, in applicazione delle disposizioni sull’esercizio associato delle funzioni. Tale normativa comporterà una sensibile riduzione dei soggetti titolari della spesa effettiva e dovrebbe consentire la costruzione di confronti più efficaci. Occorre spingere sulla generalizzazione dei costi e dei fabbisogni standard e, insieme, occorre recuperare il ritardo nella definizione dei prelievi standard (anche partendo dagli squilibri evidenziati dal recente Rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica, presentato dalla Corte dei Conti). 18. In un simile quadro già pesantemente deteriorato si è inserito il disegno di legge governativo di riforma costituzionale che, in particolare, (con le modifiche all’articolo 117, comma 2, lettera e) assegnando alla “legislazione esclusiva” dello Stato non solo le competenze in materia di “armonizzazione dei conti pubblici”, ma anche quelle in materia di “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, vanifica la “autonomia di entrata e di spesa”, pure formalmente confermata nell’articolo 119 della Costituzione e fornisce una sorta di copertura costituzionale ex post alle applicazioni distorte delle leggi 42/2009 e 196/2009. 19. Il rischio è quello che la “ricentralizzazione” delle finanze accentui la deresponsabilizzazione e il disimpegno degli amministratori locali e li risospinga verso quella linea di “sindacalismo rivendicativo” che ho in precedenza segnalato. Se questo accadesse dovremo attendere da altri La soluzione dei nostri problemi. Io penso che in Sardegna, se vogliamo mobilitare tutte le energie, dobbiamo percorrere una strada diversa, rovesciando la scelta, compiuta dal centro destra, di disinteressarsi della applicazione della legge 42/2009 (in particolare in materia di standardizzazione di costi, fabbisogni e prelievi), e elaborando una specifica normativa in materia di applicazione, anche in Sardegna, della normativa circa la gestione associata delle competenze degli Enti Locali da inserire nella specifica problematica che ci deriva dall’essere impegnati dai recenti referendum regionali a disegnare un nuovo modo di governare l’<area vasta>, e dall’avere, a norma di Statuto, competenza primaria in materia di organizzazione dell’amministrazione locale. 20. La Sardegna ha nel passato vissuto una importante stagione di mobilitazione per lo sviluppo che partiva dalla ricostruzione delle sue tradizioni e delle sue potenzialità locali. Quel processo di ricerca prevedeva anche una peculiare riorganizzazione del territorio in area omogenee per tradizioni culturali e vocazioni produttive. Quel disegno fu poi travolto dalla pratica dell’industrializzazione per poli e dal prevalere di un modello di industria di base che travolse ogni altra convenienza. Io non penso, naturalmente, che sia possibile costruire un nuovo asse produttivo per l’economia della Sardegna prescindendo da una sera discussione sulla specializzazione produttiva dell’Italia e, oggi, dell’Unione Europea ma sono convinto che, per avere più forza nella discussione che si sta finalmente aprendo su una nuova politica industriale, ognuno debba “fare il suo mestiere”. Per stare nel filone dell’intreccio tra riforme istituzionali e sviluppo che ho ricostruito penso che il “mestiere” che si può chiedere agli amministratori regionali e locali sia in primo luogo di utilizzare al meglio le competenze istituzionali e le risorse loro assegnate per costruire “un’armatura del territorio”, in termini di infrastrutture e servizi, che elimini sprechi, distorsioni clientelari e crei una situazione favorevole per la vita dei cittadini e per la localizzazione di nuovi investimenti. Da questo punto di vista la “gestione associata delle funzioni” non va vissuta come un vincolo ma come una straordinaria opportunità. Costruire una ventina di robuste unioni di comuni che programmino insieme la dislocazione sul territorio di tutti i fondamentali servizi per i cittadini e per le imprese e creino una sorta di “effetto urbano diffuso” sarebbe un primo obiettivo da perseguire anche per arrestare il processo di spopolamento e di invecchiamento di vaste aree dell’isola che dura ormai da quasi 50 anni. Un simile impegno sarebbe una risposta non marginale alle esigenze di una parte rilevante delle attività economiche dislocate nell’isola (turismo, artigianato, agricoltura) e potrebbe avvalersi delle risorse rese disponibili dal decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 che prevede (all’articolo 23) la creazione di un “Fondo per la crescita sostenibile” che ha tra i suoi obiettivi il “sostegno alla piccola e media impresa e di progressivo riequilibrio socio-economico, di genere e fra le diverse aree territoriali del Paese”. Il fondo è alimentato dalle risorse stanziate con una molteplicità di norme, rimaste spesso inutilizzate, che sono rese erogabili con procedure più flessibili e periodicamente aggiornate. Un simile reticolo istituzionale costituirebbe anche il punto di riferimento essenziale per una programmazione di maggiore respiro in funzione degli interventi “in materia di riconversione e riqualificazione produttiva di aree di crisi industriale complessa” previsti dall’articolo 27 del medesimo decreto legge. Al finanziamento di tali progetti concorrono, insieme alle risorse del “Fondo per la crescita sostenibile”, anche misure di “cofinanziamento regionale”. Sarà possibile utilizzare “tutti i regimi d’aiuto disponibili” al fine di realizzare “investimenti produttivi anche a carattere innovativo, la riqualificazione delle aree interessate, la formazione del capitale umano, la riconversione di aree industriali dismesse, il recupero ambientale e l’efficientamento energetico dei siti e la realizzazione di infrastrutture strettamente funzionali agli interventi”. Particolarmente innovative anche le modalità di approvazione e di gestione degli proggetti che “sono adottati mediante appositi accordi di programma che disciplinano gli interventi agevolativi, l’attività integrata e coordinata di amministrazioni centrali, regioni, enti locali e dei soggetti pubblici e privati, le modalità di esecuzione degli interventi e la verifica dello stato di attuazione e del rispetto delle condizioni fissate. Le opere e gli impianti compresi nel Progetto di riconversione e riqualificazione industriale sono dichiarati di pubblica utilità, urgenti ed indifferibili.” 21. Mi pare sia evidente che in un tempo di risorse finanziarie scarse e di caduta della fiducia dei cittadini nelle istituzioni un serio programma di riforme istituzionali sia necessario per recuperare le una e l’altra e per muoversi verso un nuovo disegno della realtà economica dell’isola. |