La lingua che parliamo ha la stessa dignità del paesaggio che abitiamo? [di Umberto Cocco]
Non c’era nessuno della giunta regionale, nessun dirigente del Pd ieri a Sedilo alla festa della lingua sarda che non è stata una festa ma una giornata di riflessione e di protesta per una sospensione incomprensibile nella politica linguistica della Regione. Mentre le lingue muoiono al ritmo di due ogni due settimane ed è realistico pensare che possa toccare al sardo nel volgere di qualche anno, mentre si moltiplicano i partiti indipendentisti, sovranisti, e l’Europa considera di concedere autonomie ai territori e ai popoli prima che strappino indipendenza le regioni più forti e ricche, qui la questione della lingua nonostante Gramsci continua a venire guardata con fastidio dalle élites. I difensori della lingua messi nel recinto dei minoritari velleitari, perdipiù litigiosi fra correnti diverse. Il quotidiano “La Nuova Sardegna” da anni fa la caricatura di questo ambiente che è invece un’avanguardia assolutamente innovativa e colta, più consapevole e competente della povera e arroccata accademia sarda che si vorrebbe padrona della materia, e che lo è di alcune casematte come appunto quel giornale e adesso purtroppo anche della giunta regionale infiltrata di troppi docenti con buoni concetti di sé (molti progetti finanziati dalla Regione, poche pubblicazioni). La lingua sarda al di là delle correnti che si sono combattute e ancora si confrontano come è giusto che sia, invece ha da anni una rappresentanza abbastanza unitaria e larga, trasversale politicamente, nessuno innalza bandiere con orgoglio minoritario ed esclusivo; vi sono rappresentati tutti gli schieramenti politici, anche il Pd, farebbe bene a non dimenticarlo il vertice del partito. Questo fronte si attesta dal 2006 sulla conquista di una lingua standard, sa limba sarda comuna, che non vuole imporre a nessuno il modo in cui si parla, semplicemente riconosce quel che hanno fatto tutte le lingue del mondo che non vogliono perire: un modo solo nel quale scriverla. Un modo non stabilito una volta per tutte, anch’esso in movimento, aperto alle discussioni e agli adeguamenti, e del resto è così per l’italiano secondo l’Accademia della Crusca, dice giustamente l’ex segretario del Psd’Az, Colli. Continuino a parlarla ciascuno a modo suo, i sardi di ogni variante, ma a scriverla o la si scrive in quel modo concordato, o coltivando ciascuno di noi sa limba de jaja, la condanniamo a morte. Quasi elementare principio, lo racconta con semplicità disarmante un’insegnante di Scano Montiferro all’assemblea di Sedilo (Gianfranca Piras). I parlanti in spagnolo sono 400 milioni, e ne avrebbero di varietà, e con che appigli, fra Cervantes e Borges, eppure lo spagnolo scritto ha quelle regole unitarie buone per tutti. Ma è tenace e resistente il modello sotto-culturale, classico luogo comune insieme popolare ed elitario, che non troppo stranamente mette insieme la lingua dei nonni e del paese, il ballo sardo, la cultura sarda nella versione passatista, le storie locali, il lessico de su sabateri, i progettini nelle scuole e l’università della terza età, “Sardegna canta” e le pagine in sardo dei giornali, quando ci sono, insomma tutto questo micidiale folk subalterno con l’apparato ideologico delle università e di certa politica, che si ergono a difensori della libertà di parlare (che nessuno mette in discussione) e di scrivere come ciascuno vuole, di insegnare il sardo che si vuole, disconoscendo ogni principio di organizzazione, di didattica, ogni idea di politica linguistica, confondendola con la politica culturale, mettendola in contraddizione con la Libertà. Non per nulla li si vede sempre più spesso insieme in compagnie di giro, professori e folcloristi. In questa sottocultura diffusa, che di fatto ribadisce l’idea del sardo come lingua subalterna, adatta a poche nostalgiche rappresentazioni di sé, fa fatica ad affermarsi l’idea della lingua sarda che parla oggi delle cose dell’oggi nella dimensione globale, senza imbarazzi a stare nella modernità, nelle università, sui giornali, a parlare di tutto, per esempio nelle scuole lingua veicolare per insegnare la matematica e la filosofia e non la sola poesia d’improvvisazione, del resto così vorrebbe il ministro Giannini che accadesse con l’inglese dal prossimo anno. Le scuole: con tutta la buona volontà dei docenti, i ragazzi che ci entrano parlando in sardo (accade al mio paese) ne escono scoraggiati dal farlo, e a casa i genitori devono ricominciare, prima di scoraggiarsi anche loro e rinunciare. Mi sembra che il “Coordinamento pro sa limba ufitziale” non se lo ponga il problema in questa fase, entrare a scuola seriamente come non si è mai riusciti a fare richiede la riscrittura del contratto con lo Stato, e non c’è aria. Ma almeno tutto quel che questa celebrata autonomia può fare che lo faccia, una politica linguistica, lo standard, gli sportelli che presidino i territori e aiutino la pubblica amministrazione a scrivere in quel sardo unitario, che alfabetizzino almeno tutti quelli che lo desiderano insegnando loro il sardo scritto, che non conosciamo nella stragrande maggioranza anche coloro che lo parlano quotidianamente, e che contribuiscano a dare dignità e contemporaneità e anche prestigio sociale al sardo e a chi lo parla come hanno fatto in questi anni con un progetto che si chiama “Bilinguismu creschet”. Perché la giunta regionale lasci il vuoto da febbraio, e lo abbia lasciato nel programma elettorale, non si capisce se non con il prevalere di un’altra scelta, non ancora pronunciata ma forse già fatta. Non sarebbe senza conseguenze, la questione della lingua è politica, mai sentito dire? Il Pd ha anche questa questione da affrontare, mentre intreccia accordi in vista dell’elezione del segretario regionale. Torni a guardare all’esperienza della giunta Soru che la capì quella svolta del sardo ufficiale, e come per il piano paesaggistico (non è una stessa grande questione unitaria, la lingua che parliamo e il paesaggio che abitiamo?) non è stato facile nemmeno per Cappellacci smontare i processi innescati, anche la costruzione di un apparato minimo. Se ce la fa, non li smonti Pigliaru ora.
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Caro Umberto quelli del “Coordinamento pro sa limba ufitziale” sono solo dei mercenari della lingua sarda comuna che vogliono imporre alla maggioranza dei sardi parlanti il campidanese, una lingua artificiale inventata per prendersi i generosi (fino ad oggi) finanziamenti della Regione per dare vita a un intruglio incomprensibile e in maggior parte facendo riferimento solo al logudorese. Bene fa la Regione a meditare e coinvolgere anche gli oppositori alla cosiddetta proposta di LSC.
Edoardo, io c’ero e in vita mia non ho mai preso una lira per quello che faccio da tanti anni: partecipare alla redazione di una rivista bilingue, “Camineras”. Da quando siamo nati, nel 2002, non abbiamo mai preso un euro di finanziamento pubblico. Gli ultimi numeri sono editi da Condaghes ed è stata scelta la LSC come sistema di scrittura del sardo. Nella giornata di Sedilo erano presenti tantissimi volontari, desiderosi di potersi esprimere con una lingua standard ed ufficiale. Difficile immaginarlo attraverso preconcetti. Al prossimo incontro ti incitiamo a partecipare, sentiti tranquillo, era presente anche qualcuno che non era d’accordo con la LSC e ha preso la parola ascoltato da tutti.
L’esigenza della scrittura in sardo è a mio avviso sacrosanto e le Università l’hanno sempre snobbata. Da qualche decennio finalmente l’esigenza si è fatta più pressante ma i sostenitori della LSC hanno quasi irriso i sostenitori del campidanese in quanto hanno creato, a mio avviso, un modello linguistico che ostracizza la maggioranza dei sardi. Le soluzioni sono due o due varianti oppure un riequilibrio a favore del campidanese. I campidanesi, giustamente, non possono accettare un modello linguistico che li escluda.