Per la ceramica d.o.c. di Oristano e di Assemini nuovo impulso dallo Statuto degli Alfareri di Oristano del 1692 [di Maria Laura Ferru]

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Chi conosce la storia della ceramica popolare sarda sa bene che, oltre al momento delle Origini, quello più importante per la determinazione della specifica fisionomia regionale è rappresentato dalle forme, dai materiali e dalle rifiniture che le singole ceramiche avevano nell’ epoca in cui furono codificati gli Statuti delle maestranze.

Due soli furono gli Statuti di cui si dotarono nel Seicento i figoli sardi: quello dei terrajoli della città di Cagliari e quello degli alfareri della città di Oristano. Quand’anche non bastasse il nome con cui loro stessi si qualificarono , dalla lettura dello Statuto di Cagliari e dalle molte cronache d’Archivio che li riguardarono è chiaro che i terrajoli erano impegnati nella produzione di articoli necessari per l’edilizia, quali mattoni, quadrelle da pavimento e canali pluviali più che in quella di pentole e scodelle, che pure erano previste. Da una simile evidenza storica discendono due importanti verità : la città di Cagliari non era autosufficiente per la produzione di stoviglieria e non poteva quindi neppure fornire i modelli ai figoli del circondario che regolarmente la rifornivano di scodelle, piatti, pentole, bicchieri, tegami, brocche, vasi, catini, orci.

Assolse a tale funzione per secoli la maestranza del paese di Decimomannu sino alla metà dell’Ottocento circa, sostituita poi da quella del paese di Assemini. E per quanto riguardava i modelli, essendo i figoli decimesi sfuggiti all’obbligo d’esame e non essendoci stoviglie cagliaritane da imitare, era giocoforza per essi guardare a quelle che gli alfareri oristanesi diffondevano con abbondanza in tutta l’isola, perlomeno laddove potevano arrivare i loro carri e i loro cavalli stante l’ostilità del Gremio dei terrajoli cagliaritani esplosa verso di loro già nel Seicento.

Da tali fatti storici deriva il fatto dell’affermarsi delle ceramiche oristanesi come ceramiche regionali, come riconosciuto anche nel passato da studiosi e osservatori che parlarono di produzioni ceramiche locali di alcuni centri sardi da intendere tutte come varianti di quelle oristanesi.

Ecco perché, per quanto i due centri di Assemini ed Oristano abbiano ricevuto il riconoscimento di “città della ceramica” a distanza di dieci anni l’uno dall’altro (nel 1993 Assemini, nel 2003 Oristano), oggi devono essere uniti nella salvaguardia e nella ricerca delle forme tipiche e tradizionali della Sardegna.

Impegno tanto più stringente dal momento che oggi un pezzo del passato della città di Oristano può e deve essere ricostruito dando la giusta importanza alle forme ceramiche che per più di 200 anni hanno costituito la prova d’esame dei figoli della cittadina arborense. Nello Statuto del Gremio degli Alfareri della città, in vigore dal 1692, fu previsto da subito che ogni apprendista che avesse voluto aprire bottega ed esercitare in proprio, avrebbe dovuto sottoporsi ad esame davanti ai maggiorenti del Gremio.

E produrre una ventina circa di capi d’opera, naturalmente al tornio, per quanto questo nello Statuto non fosse specificato. Oggi l’individuazione di quelle forme può attestare la sintonia della produzione ceramica oristanese del Seicento al gusto dell’epoca ed in particolare la loro ricostruzione ne dimostrerebbe l’ aderenza ai principi del Barocco isolano. Facendo fare un salto di qualità ad una produzione finora ritenuta ai margini dell’Arte per il prevalere degli aspetti di funzionalità e di praticità.

Si tratta infine di procedere perché la città si riappropri di tale essenziale testimonianza.
E si doti quindi di un corpus di modelli ceramici utili a definire meglio la fisionomia storico-artistica che ha reso la città di Oristano riferimento per la Sardegna tutta.

 

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