Isis? Iraq si avvia all’implosione, Israele dice si a Stato del Kurdistan [Adriano Bomboi].
Il fumoso scenario iracheno inizia a schiarirsi. Ed osservare le premesse con cui si è giunti alla situazione attuale ci consente di effettuare una prima analisi delle prospettive che attendono l’Iraq post Saddam Hussein. In primo luogo si avvertono oggi tutti gli effetti delle scelte di politica estera degli USA, che hanno creato le condizioni politiche e militari per una ridefinizione degli equilibri mediorientali. La linea è ormai evidente: Washington non si batterà per tenere unito l’Iraq. E ciò era palese fin dal primo momento, quando il Pentagono decapitò tutti i maggiori quadri dirigenti del Paese, impedendo così alla fase post-bellica di ricomporre lo scenario politico in misura omogenea. In secondo luogo, contestualmente a questo processo, si è avuta la simultanea penetrazione nel caos politico e sociale del Paese di forze di terzi Paesi islamici, anche contrapposti fra loro, come l’Iran sciita ed alcune monarchie del Golfo. Ma perché è successo? Sul piano geopolitico è verosimile che gli USA abbiano puntato a frammentare e rendere composita un’area energeticamente rilevante per gli equilibri politici dell’Asia, con particolare riferimento a Russia e Cina, riposizionando il ruolo dei players. Non si investe in una guerra che, in termini petroliferi, costa più di ciò che rende, ecco perché le sue ragioni vanno valutate ad ampio spettro nel tempo e nello spazio. Sbagliato infatti ritenere che gli USA abbiano assunto direttamente i compiti della fase post-bellica irachena, poiché si sono limitati a lasciare campo libero ai numerosi interessi locali, divergenti fra loro. Non a caso, l’Iran ha avuto un ruolo diretto nell’influenza della politica e della struttura giudiziaria dell’Iraq di Nuri al-Maliki, mentre Arabia Saudita, Emirati e Qatar (con diversi livelli di responsabilità), si sono introdotti nel Paese, cercando di indebolire la presenza di Teheran e colpendo il suo primo alleato nell’area, la Siria. Ciò è avvenuto tramite lo sviluppo delle componenti più oltranziste delle numerose e interessate opposizioni interne tanto alla Siria quanto all’Iraq. La sintesi di questa politica ha portato i Paesi del Golfo, e con alte probabilità i massimi vertici del Qatar ed alcuni settori finanziari sauditi, a guidare la regia che ha creato l’Isis. Si tratta di una guerra interna al mondo arabo che ha una valenza tanto regionalistica quanto globale, e che dietro il volto del fondamentalismo religioso cela svariati interessi politici ed economici. Da parte sua l’Isis ha immediatamente utilizzato la pulizia etnica per liberare quante più aree strategiche interessate dalla sua azione, in particolare contro le componenti sciite ed altre minoranze locali, mentre, man mano che ha avanzato rispetto al collassante esercito iracheno (a suo tempo equipaggiato dagli USA), ne ha assorbito le dotazioni e la logistica, oltre ad acquistare forniture nel mercato nero. Ecco perché il califfato ha sviluppato una parziale autonomia dai suoi presumibili padri fondatori. Ed ecco perché, visto il suo dilagare, sia sauditi che europei hanno iniziato ad attrezzarsi ma anche a fare pressioni sugli USA affinché la minaccia venga contenuta negli stessi confini geografici in cui è nata. In particolare, la monarchia saudita avrebbe cambiato linea rispetto all’Isis in quanto un consolidamento del califfato sunnita potrebbe significare un’autentica minaccia per la stabilità di Riyad. La sua donazione di un miliardo di dollari all’esercito libanese per difendere le frontiere con la Siria dall’Isis espone chiaramente all’opinione pubblica araba il nuovo corso intrapreso dalla casa regnante. In questo quadro è difficile interpretare la posizione della Turchia, Paese NATO, ambivalente sul ruolo da tenere sia rispetto all’Isis e sia sulla questione curda, quest’ultima ormai unica vera opposizione sul campo contro il califfato. Bisogna infatti considerare che nell’Iraq di al-Maliki l’area autonoma curda si è trasformata nella primaria fonte di rifornimento petrolifero di Ankara, e ciò ha indotto la politica turca a rivalutare la sua linea neo-ottomanista. Proprio a tale riguardo secondo l’analista Thierry Meissan sarebbe prevista la nascita di un Kurdistan indipendente attorno al 2015, con Massoud Barzani presidente, il cui esercito sin da oggi verrebbe organizzato ed addestrato, ma non equipaggiato, da Israele. Essendo ampiamente nota la presenza del Mossad israeliano nel Kurdistan iracheno, anche la resistenza femminile curda contro l’Isis sarebbe organizzata secondo i medesimi standard dell’esercito popolare ebraico, con forte presenza femminile. Già da alcuni mesi, secondo quanto riportato dal Guardian britannico, Barzani starebbe sostenendo un modello di scissione basato sull’esperienza della ex Cecoslovacchia. Il presidente turco Erdogan ha tuttavia minacciato Barzani di porre fine ai suoi canali commerciali qualora si alleasse con i curdi presenti nell’area siriana e con il PKK di Ocalan, fortemente osteggiati da Ankara, mentre migliaia di sfollati del versante siriano si stanno riversando nel Kurdistan iracheno. Da parte sua il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è già espresso a favore di uno Stato curdo. Tel Aviv ne trarrebbe così diversi vantaggi: da una parte estenderebbe la sua influenza all’interno del mondo arabo e della componente laica mediorientale; dall’altra disporrebbe di un valido alleato in chiave anti-fondamentalista e mitigherebbe sia l’indeciso imperialismo turco che quello iraniano. Ed al contempo limiterebbe l’influenza dei protettori sunniti della Fratellanza Musulmana che attualmente foraggiano Hamas, la maggior componente palestinese che si oppone al riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele. Rimangono varie incognite, una su tutte quella della spartizione: l’Isis si consoliderà in parte dell’Iraq e della Siria o verrà distrutto dai suoi stessi protettori quando Iran, Turchia e Paesi del Golfo avranno deciso se difendere Baghdad?
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