Informazione è Democrazia [di Roberta Celot]

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I giornalisti italiani non sono i migliori del mondo. Ma nemmeno i peggiori. Alcuni fanno bene il loro lavoro, altri lo fanno in maniera eccellente e coraggiosa, altri ancora sono indegni della professione. Accade lo stesso fra i medici, fra i professori, fra i preti, fra gli operai…L’attacco ai giornalisti spesso è sinonimo di attacco all’informazione, al diritto a informare ed essere informati. Quando l’attacco all’informazione diventa sistematico e trasversale, però, bisogna alzare lo sguardo. In pericolo non c’è lo stipendio di un giornalista o di una testata ma un bene molto prezioso: quella democrazia che ci è stata data in dono dal sacrificio di uomini e donne e che tutti noi abbiamo il diritto di migliorare e il dovere di difendere.

 

L’informazione è da sempre un bene fondamentale. Ma la rivoluzione tecnologica ne ha potenziato la funzione fino al punto da trasformarla, soprattutto nelle società più industrializzate, in un bene vitale. In tutto il mondo l’informazione ha assunto la stessa funzione che il sangue assolve nei confronti del corpo o che la moneta assolve nei confronti dell’economia: garantisce che tutti gli organi funzionino correttamente e che abbiano anche il carburante per farlo. L’informazione “pulita” è diventata in questi anni, e lo sarà sempre di più, una pre-condizione della democrazia in una società tecnologicamente ed economicamente avanzata, in cui i tempi di decisione sono diventati brevissimi e l’opinione pubblica si forma  attraverso il rapido consumo di notiziari e dibattiti organizzati dai mezzi di informazione.

 

Perché abbiamo bisogno di informazione per vivere in democrazia? Proviamo a rispondere. Mentre noi siamo qui a discutere, o a chiacchierare con gli amici, a guardare una partita o ad ascoltare una canzone, qualcuno sta necessariamente decidendo per noi. Dico necessariamente, perché siamo un Paese di 60 milioni di abitanti, non possiamo vivere in un referendum continuo, non possiamo passare le nostre giornate chiusi in un seggio elettorale permanente, non possiamo trasformarci tutti in parlamentari-legislatori a tempo pieno: chi svolgerebbe nel frattempo le altre funzioni per mandare avanti il Paese? Dunque si è deciso che noi esprimiamo la nostra scelta di cittadini in occasione delle elezioni, quando nominiamo i nostri rappresentanti. Poi, per cinque anni, mentre noi svolgiamo il nostro lavoro, loro svolgono per conto di tutti noi il lavoro di chi deve fare le leggi.

 

E tuttavia, diciamo la verità, sentirci dire che mentre noi viviamo la nostra vita qualcuno sta decidendo per noi non ci piace. Non ci può piacere. Ci sentiamo esautorati, sostituiti. E inquieti. Analizziamo questa inquietudine: di che cosa è fatta? Per prima cosa, dello spaesamento di chi si accorge di non sapere, di non avere elementi di conoscenza, di aver perso terreno e di dover inseguire. E poi, immediatamente dopo, ecco il bisogno di capire, di far parte del circolo di chi conosce le cose, la necessità di essere informati.

 

L’informazione è esattamente questo: lo strumento che ci tiene dentro, o ci mette fuori. Dentro cosa, fuori da che cosa? Dalla vicenda collettiva, dal discorso pubblico, da ciò che riguarda tutti, la vita liberamente associata delle persone che si riconoscono, in una comunità di cittadini, dunque in uno Stato. Ecco, l’informazione è il mezzo che ci rende davvero cittadini. E chi sceglie consapevolmente, grazie appunto all’informazione, è più libero dei cittadini disinformati. Ecco che scopriamo l’esistenza di gradi diversi di democrazia. Uno studioso come Robert Dahl ha scritto che per la buona democrazia non è sufficiente la cittadinanza, ma è necessaria una “cittadinanza illuminata”.

 

Chi è il cittadino illuminato? È semplicemente, dice Dahl, un cittadino informato e dunque consapevole, consapevole perché informato. Perché solo se informato il cittadino prende coscienza e conoscenza dei temi su cui si deve pronunciare o su cui deve giudicare chi si pronuncia per lui, in suo nome. Dunque solo un cittadino informato diventa parte attiva di quel soggetto delicatissimo e decisivo di una moderna democrazia occidentale, la pubblica opinione. Solo attraverso l’informazione, dunque, il cittadino è davvero tale, e può esercitare a ragion veduta, consapevolmente e con cognizione di causa il suo diritto di cittadinanza.

 

Ma un mare d’informazione, un fiume di notizie, mi possono avvolgere fino a stordire, tuttavia non è detto che mi facciano capire. La quantità da sola è utilissima, perché favorisce la mia libertà e la mia comodità, ma non basta. Cosa mi serve, per penetrare davvero la conoscenza di un fenomeno, per comprendere fino in fondo una vicenda, per giungere a quella che potremmo chiamare l’intelligenza degli avvenimenti? È un tipo particolare di qualità dell’informazione, che aggiunta alla quantità rende intellegibile ciò di cui parla. Ciò che mi serve, in buona sostanza, è quel che potremmo chiamare l’informazione organizzata. Cioè un meccanismo informativo che metta una notizia, un fatto, un caso su una scala di riferimenti ampi e complessivi, che renda visibili non solo i protagonisti palesi o occulti ma anche gli interessi che li muovono, che metta questi interessi particolari in relazione o in contrasto con l’interesse generale, recuperi gli antecedenti e si proietti sulle conseguenze: restituendo a me lettore il contesto in cui la vicenda avviene, in modo cheio possa dare un giudizio complessivo, non epidermico, contingente, emotivo e parziale.

 

Oggi non c’è dubbio che internet ha cambiato la storia, perché tutto in rete è contemporaneo, ha cambiato al geografia perché tutto è ubiquo e non importa dove sei se sei connesso, ha cambiato l’economia e basta pensare alle quotazioni e ai valori di Google e Apple. Ha cambiato il costume, con un’inversione di conoscenza, perché i nostri figli ne sanno più di noi. Ma la forza della carta stampata resiste nel tempo. Tre volte nell’ultimo secolo i giornali sono stati dati per morti, quando è nato il telefono, quando è nata la radio, quando è arrivata la televisione. E sono ancora qui.

 

Internet è imbattibile come flusso d’informazione, come grande fiume che scorre per tutto il giorno e tutta la notte, sempre in piena. Ma come in ogni fiume, conta solo la velocità di percorrenza e la capacità di portata. Dentro c’è di tutto, il rifiuto e la bellezza, un saggio di Habermas e la pernacchia di un blogger, che viaggeranno incollati per l’eternità, con la stessa gerarchia. Il giornale non è flusso. Sta dentro il flusso, lascia scorrere migliaia di notizie, ne trattiene alcune e con questi pezzi d’informazione costruisce ogni sera una cattedrale, che ha l’ambizione titanica di ricreare e assomigliare alla giornata che abbiamo attraversato, alla fase che stiamo vivendo. 

 

Aggiungete l’esercizio della responsabilità, che non può essere disgiunto dalla ricerca del senso. Perché il diritto dei cittadini ad essere informati è un diritto primario, ma non un diritto cieco. E se entra in conflitto con altri diritti, quello delle persone terze coinvolte da un’informazione, persone deboli che devono essere tutelate? Pensate alla vittime di uno stupro. O se confligge con l’interesse generale, l’interesse supremo dello Stato? Pensate a un’operazione antiterrorismo che deve scattare questa notte, e se io pubblico la notizia faccio scappare un terrorista con i suoi piani di attentati. Ecco perché il giornale deve esercitare una responsabilità, deve ogni volta rispondere al diritto assoluto del cittadino a sapere e conoscere, tenendo però conto – quando è il caso – dei diritti concorrenti della collettività e della sua tutela, e dei soggetti deboli coinvolti ed esposti dall’informazione. L’informazione può fornire una cosa in più al cittadino: la sua capacità critica autonoma, rispetto al potere e ai poteri di vario tipo.

 

Dal punto di vista della libertà di opinione occorre ricordare l’articolo 21 della Costituzione italiana. Vi si sanciscono due diritti fondamentali, un dovere e le procedure per imporre eventuali limiti alla stampa: il diritto ad esprimere liberamente e con ogni mezzo la propria opinione; il diritto alla libertà di stampa; il dovere di non pubblicare cose contrarie al cosiddetto buon costume e i limiti che possono essere imposti per legge e dall’autorità giudiziaria nei casi di delitti a mezzo stampa. Un lavoro straordinario, se si pensa all’Italia degli anni Quaranta dello scorso secolo. Rispetto al mondo di oggi e al ruolo dell’informazione nel mondo di oggi manca però un tassello fondamentale: il diritto dei cittadini ad essere informati; anzi si potrebbe dire: ad essere correttamente informati.

 

Sul fronte dei diritti l’Italia stia iniziando a svegliarsi pretendendo che questi vengano riconosciuti, a prescindere che siano diritti per le donne, gli omosessuali o i lavoratori. C’è possibilità, dunque, che una donna sia considerata tale, non solo per la lunghezza della sua gonna o per la capienza del suo reggiseno? C’è speranza di progettualità per quelle coppie differenti dal solito cliché della famiglia modello eterosessuale del Mulino Bianco? Come definire uno Stato avverso al cittadino che sottrae diritti conquistati? Provando a dare una risposta a questi interrogativi, va ricordato che un Paese è considerato più o meno democratico e civile in base  ai diritti e alla tutela offerta alle minoranze della società.

 

Personalmente non mi piace pensare all’universo femminile come a una “minoranza”. Oggi mi piacerebbe sfatare una sorta di maledizione che incombe nei secoli: quella di essere nate donna. La diversità di genere è una ricchezza non un ghetto: l’eccellenza non si esprime con l’appartenenza al sesso maschile o femminile ma con le singole genialità e le competenze. Tuttavia è indubbio che in una società respingente occorra trovare dei correttivi per dare spazio e voce a chi non ne ha. Non una “riserva indiana” ma provvedimenti legislativi per riequilibrare una disparità evidente.

 

In Italia il binomio donne e giornalismo funziona alla base della professione, ma i vertici delle testate rimangono al maschile. Se da un lato le donne giornaliste aumentano di anno in anno, dall’altro faticano a conquistare i ruoli di responsabilità, hanno salari più bassi e carriere molto spesso congelate. In Germania una mobilitazione a favore delle quote rosa si sta attivando tra le giornaliste tedesche. 250 tra editori, direttori di testate ed emittenti televisive hanno ricevuto una lettera, firmata da 350 reporter e conduttrici, con la richiesta di garantire alle donne il 30% delle posizioni di responsabilità nel mondo dell’informazione.

 

L’auspicio è di raggiungere il traguardo in cinque anni, ma l’impresa sembra piuttosto difficile visto che oggi solo il 2% dei direttori sono donne tra gli oltre 360 quotidiani e settimanali. L’Italia, invece, punta al 50% di poltrone importanti sia all’interno delle aziende, sia negli organi di rappresentanza. Una battaglia che la Commissione Pari Opportunità della Federazione nazionale della stampa italiana sta combattendo dal 2009. Secondo dati del 2010 le donne giornaliste con contratto di lavoro subordinato iscritte all’Inpgi (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani) sono il 37,72%, ossia 11.016 su un totale di 26.552. Il numero è raddoppiato in termini assoluti rispetto a dieci anni fa, quando erano 5.592 e rappresentavano il 33,93% della professione. Nel lavoro autonomo i numeri sono lievitati di più. Le donne iscritte all’Inpgi2 (Gestione previdenziale separata per i liberi professionisti) sono 13.444, il 42% del totale, il 6% in più rispetto al 2000 quando erano appena 3.362.

 

Osservando i dati colpisce il netto squilibrio tra i direttori uomini e donne: 10 i quotidiani guidati da donne a fronte di ben 124 diretti da uomini. Comunque il trend è positivo: nel 2008 le sedie femminili erano 5, l’anno dopo 8. Alla vicedirezione troviamo 9 donne nel 2010, cinque in più rispetto al 2009. Le caporedattrici sono 80, numero esiguo rispetto ai 445 uomini. Diminuiscono le direzioni femminili dei periodici, dalle 82 del 2008 alle 67 di due anni dopo, stabili a 30 unità le vicedirettrici. Spulciando le struttura delle redazioni dei 10 principali quotidiani italiani (il Corriere della Sera, La Repubblica, il Sole 24 Ore, La Stampa, Il Messaggero, l’Unità, il Manifesto, il Giornale, il Riformista e Libero) spunta solo il nome di Norma Rangeri alla direzione del Manifesto. Dopo l’addio di Concita di Gregorio all’Unità, prima direzione femminine della storia del giornale, è tornato un uomo, Claudio Sardo, ad occupare la sedia. Tra i vicedirettori troviamo Barbara Stefanelli, una dei quattro vice del Corriere della Sera.

 

La Rai rimane un’azienda al maschile, e di questo vi parlerà la collega Susi Ronchi. Quanto ai settori di informazione, se prima le donne si occupavano quasi esclusivamente di costume e spettacolo o, nel migliore dei casi, di cronaca bianca, oggi l’ingiustamente detto ‘sesso debole’ offre validissime croniste di guerra, oltre che di giudiziaria e nera. Maria Francesca Chiappe ne è l’esempio e vi racconterà la sua esperienza. Per la prima volta inoltre , dallo scorso anno, una donna guida come presidente l’associazione Stampa Parlamentare: Alessandra Sardoni, di La7. Donna anche la vicepresidente: Barbara Tedaldi (Agi).

 

L’Italia può vantare una delle prime donne direttore. 1777 la veneziana Elisabetta Caminer Torre che prese le redini di una gazzetta, Il Giornale enciclopedico, fondata dal padre. Per prima si mette al servizio del lettore, firma gli articoli, cita le fonti (il viziaccio di usare la farina degli altrui sacchi senza dirlo non è mai stato perso dai giornalisti italiani),  trasforma il giornale del padre Domenico, che nasce nel 1768 come una rivista di letteratura, nel più importante strumento di diffusione dell’Illuminismo nell’Italia nordorientale, nel primo vero giornale moderno del Veneto. Elisabetta mai dimenticherà il suo essere donna e nelle colonne del giornale troveranno sempre spazio le opere femminili.

 

 La Caminer diventa il bersaglio di conservatori, clericali e maschilisti di ogni risma. «I preti in furia formarono lega per non cedermi più la mano quando m’incontravano per via; e un frate arrivò quasi a far sentire dal pergamo che era dubbio salvarsi per chi leggeva un giornale composto da una femminetta», scrive in una lettera. Il tumore al seno che la colpisce e la porterà alla morte è visto come una punizione divina. Il cancro le provoca dolori insopportabili, rimane per due mesi bloccata a letto, prima di morire, il 7 giugno 1796, a Orgiano, vicino a Vicenza. Viene sepolta nella chiesa vicentina di Santo Stefano, senza una lapide che ne indichi il luogo. E non sembra proprio un caso. Per tutto l’Ottocento, secolo più che mai bacchettone, verrà descritta come una specie di puttanella dalle strambe velleità intellettuali. Il giornale le sopravvive di poco: già ridotto a semplice bollettino bibliografico dopo la morte della direttrice, cessa le pubblicazioni quando cessa di vivere la repubblica veneta, uccisa il 12 maggio 1797 per mano napoleonica.

 

La nostra direttora più famosa, e fino a dieci anno fa unica, è ovviamente la napoletana Matilde Serao (suo Il Mattino). Piu’ famosa del marito Edoardo Scarfoglio, e di centiniaia di giornalisti del suo secolo di cui nessuno più si ricorda. Da non dimenticare Pia Luisa Bianco che raccattò  la guida dell’Indipendente.

 

Altro dato che può stupire è relativo alle retribuzioni. Le giornaliste percepiscono, in media, il 25-30 per cento in meno dei loro colleghi. Vale la pena ricordare l’mpegno in questa direzione dei presidenti della Repubblica, Ciampi ieri e Napolitano oggi, che hanno più volte auspicato il rispetto di due importanti principi costituzionali. L’articolo 3 che sancisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini e il 51 che, da poco riformato, promuove le pari opportunità.
*Direttrice ANSA Sardegna

Relazione tenuta nella Tavola Rotonda “Informazione è Democrazia”, il 3 Agosto 2013, nell’iniziativa “Ripartiamo dal lavoro delle donne” de “S’ischola de su trabagliu”, organizzata da Lamas a Pattada (SS), 1-4 Agosto 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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