Qui arrivarono. Piazza Martiri luogo di approdi e di congedi [di Giampaolo Salice]

12 10 2014 cagliari fai piazza - foto giuseppe ungari

Pubblichiamo l’intervento letto da Giampaolo Salice in piazza Martiri in occasione della FAIMARATHON Cagliari… tra bianchi colli e piazze svoltasi a Cagliari domenica 12 ottobre un percorso che ha coinvolto 10 piazze della città ed un centinaio di accademici, studiosi, professionisti, intellettuali, artisti, tra cui Lia Careddu, nella foto che si sono prestati a fare i “ciceroni speciali” per spiegare la bellezza della città del sole (NdR).

Piazza Martiri, insieme alla via Manno è un luogo densissimo di storia e di storie. Un luogo di approdi, di incontri, di mescolanza tra lingue, confessioni religiose, etnie e sensibilità diverse. Piazza Martiri, con la sua via Manno, è luogo di congedi anche: di quelli brevi, che per qualche mese separano la madre dal figlio studente, e di quelli eterni e definitivi, che consacrano gli uomini e ne fanno santi laici.

Qui arrivarono gli uomini e le donne della diaspora ligure. Si raccolsero intorno alla chiesa dei santi Giorgio e Caterina dei Genovesi, che stava proprio sull’attuale via Manno, prima che le bombe angloamericane la distruggessero nel 1943. Per tutta l’età moderna la comunità genovese a Cagliari ha cucito reti familiari, economiche, imprenditoriali e culturali, legando la capitale della Sardegna e i suoi entroterra alle genti e ai mercati di tutto il Mediterraneo. Fu quella una delle radici dell’anima commerciale e imprenditoriale di Sa Costa/Via Manno. Un formicolare di persone, merci, manufatti, idee che, tra Settecento e Ottocento, crebbe di intensità, dando forma a uno dei tanti modi di essere cagliaritani, di essere sardi e di essere mediterranei.

Emilio Bonfis, nome d’arte dietro il quale si cela Antonio Bacaredda, padre di Ottone, il sindaco di Cagliari, di quell’universo di commerci e scambi ha tracciato un profilo emozionato e molto efficace in un libretto intitolato Cagliari ai miei tempi.

Qui, accanto ai liguri e agli altri stranieri venuti dal mare in cerca d’affari, arrivarono i sardi. Giovani uomini e giovani donne nati nelle montagne nuoresi, nelle pianure del Campidano, tra le colline della Marmilla e della Trexenta. Così, questi luoghi divennero l’incubatrice di un nuovo ceto sociale, sospeso tra città e campagna, tra bisogno di conservare e urgenza di cambiare. Un’urgenza che trasformò figli di pastori e di contadini possidenti in insegnanti, avvocati, medici, magistrati.

Approdi di vita che erano il frutto di strategie familiari pluridecennali, pensate per portare in alto il proprio cognome e tenerlo agganciato ad un patrimonio da difendere e far fruttare. Quei ragazzi furono la radice della ventura nazione sarda e della prossima nazione italiana. Una radice etnicamente impura, frutto dell’ibridazione tra “nazioni”, tra culture, tra mentalità.

Perché qui, quelli che arrivarono dalle pianure e dalle montagne, si incontrarono con chi invece era giunto dal mare. Il quartiere della Marina fu testimone del matrimonio di Giovanni Maria Angioj, rampollo di una famiglia di possidenti del Goceano, con Annica, dei ricchissimi mercanti genovesi Belgrano. Senza quella donna, senza quel matrimonio, e senza quella miscela di mondi mediterranei, apparentemente così distanti e distinti, Angioj sarebbe stato molto diverso da quello che oggi conosciamo e celebriamo: forse non avrebbe avuto la forza economica per farsi imprenditore di cotone americano, fondatore di una manifattura per la trasformazione dei tessuti, creditore di centinaia di persone, finanziatore della resistenza dei sardi contro il tentativo di invasione francese del 1793 e poi, lo sapete, rivoluzionario, sovversivo e poi esule nella Francia della Rivoluzione.

E per un esule che fugge un altro ne arriva. Qui arrivò, nel primo Ottocento, Giorgio Sulliotti, nato ad Arta, nella Grecia settentrionale, da una famiglia originaria di Suli (da cui il cognome Sulliotti) nell’Epiro. Arrivò qui, col peso di una condanna a morte sulle spalle, per avere partecipato ad una delle tante rivolte anti-ottomane che di là a qualche anno avrebbero portato all’indipendenza della Grecia.

Qui, in Sa Costa/via Manno, Giorgio Sulliotti prese casa e aprì bottega di sarto e, insieme agli altri greci di Cagliari (gli Staico, i Giurti, i Guner), vestì i sardi con gli abiti “nazionali” che oggi sfilano in onore di Sant’Efisio e per celebrare l’identità dei sardi. Qui in Sa Costa crebbero i figli di Giorgio Sulliotti: Giovanni, Anastasio ed Efisio che, fin da quando erano studenti universitari, si gettarono nella battaglia politica locale per il Risorgimento, fondando giornali d’ispirazione liberale e anti-cavouriana e organizzando, nel 1860, un battaglione sardo poi schierato al fianco dei Mille di Garibaldi.

Anche così, qui arrivò l’Italia e il suo Risorgimento, con i suoi testi sacri, i suoi santi, i suoi martiri. Piazza Martiri deve il suo nome al desiderio di celebrare questa nuova religione civile della patria. Il monumento, inaugurato il 16 agosto 1886, onora la memoria dei sardi che morirono per “l’unità e l’indipendenza italiana”. La piramide commemorativa venne realizzata dallo scultore torinese Giuseppe Sartorio, incaricato da Luigi Salaris, capitano del 26° reggimento fanteria di stanza a Cagliari. Salaris si diede da fare per costituire un comitato promotore del monumento, al quale aderirono, tra gli altri, Francesco Salaris e Francesco Cocco Ortu, Pietro Ghiani Mameli, Giuseppe Todde, l’allora sindaco di Cagliari Edmondo Ravot.

Al monumento contribuirono anche i sottocomitati di Iglesias, Lanusei, Alghero, Nuoro, Oristano, perché ad essere celebrati non furono solo i santi cagliaritani, ma tutti i sardi morti per la causa italiana. La piramide di Piazza Martiri è però anche il simbolo di uno Stato laico che si impossessa della morte, dopo averla strappata alla Chiesa, e la mette, la morte, con i suoi culti e le sue reliquie, alle fondamenta di una nuova religione civile.

Qui, in questo luogo di libertà e di risorgimenti individuali e collettivi, di incontri e di mescole sociali e imprenditoriali, qui, arrivò anche la dittatura, la cancellazione del dissenso e della democrazia. Era un lunedì. Il 1 giorno del novembre 1926, un pugno di fascisti assalì la casa di Emilio Lussu, che si trova esattamente davanti a noi. Così, da questo luogo di congedi, la libertà se ne andava. Vi avrebbe fatto ritorno solo dopo una ventennale parentesi nutrita di arresti, di esili, di violenze e di partenze forzate.

Oggi, qui, la città è tornata ad essere luogo di confusione tra razze, lingue, fedi. E se per secoli è stato il Mediterraneo lo specchio nel quale si è riflessa l’identità di questo spazio, oggi è nel dialogo col mondo intero che esso ritrova quel carattere di imprendibilità, che ne ha fatto luogo così denso di significati, così universale e così necessario.

 

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