La leadership di Renzi come esito dei progetti di Craxi e Berlusconi [di Nadia Urbinati]

craxi - berlusconi

Ci si affatica a cercare paralleli tra la leadership di Matteo Renzi e il passato più o meno recente. Le comparazioni con Bettino Craxi e con Silvio Berlusconi sono consuete. Ma sono utili ad una condizione: che non si riducano a un parallelo statico tra personalità, ma mostrino come il successo di Renzi nell’Italia di oggi sia l’esito del lungo cammino cominciato da quei due leader. La forma plebiscitaria della leadership di Renzi sarebbe in questo modo studiata nel merito, non meramente criticata.

L’Italia democratica, cosi com’è, è stata modellata anche dalla politica di Craxi e di Berlusconi: questa mi sembra una base di partenza per incorniciare la leadership consensuale e plebiscitaria di Renzi, che vuole avere un partito a sua immagine e fa di tutto per riuscire in questo intento. In che cosa consiste questo nuovo partito funzionale al leader? La sua identità è l’esito di un’Italia segnata da due progetti tra loro correlati: l’affossamento definitivo del fattore K (ovvero della questione comunista) e il superamento della democrazia dei partiti (ovvero del sistema parlamentare come fu disegnato dai costituenti). Entrambi questi progetti devono per riuscire ad andare ai fondamenti della nostra democrazia uscita dalla guerra.

Cominciamo dal fattore K. Esso è rappresentato dalla cultura politica del Partito comunista, una cultura centrata sul coinvolgimento dei cittadini-via partito e su politiche di sociali centrate sul ruolo sociale del lavoro. Il fattore K corrispondeva quindi a una strategia politica che si innervava nella società con una rete organizzativa del mondo del lavoro nelle sue varie forme, autonome e salariate. Su questi corpi intermedi si è strutturata la democrazia parlamentare.

Come si è giunti alla erosione del fattore K? Le prime grandi sconfitte del fattore K sono state consumate negli anni ’80: la marcia dei quarantamila quadri della Fiat (ottobre 1980) e il referendum abrogativo della scala mobile (giugno 1985). Due sconfitte che misero in evidenza come la cultura liberale e liberista avesse fatto breccia nel mondo della sinistra (il Psi di Craxi) erodendo l’idea di una responsabilità collettiva rispetto ai problemi del lavoro. L’idea della fine del lavoro stabile cominciò allora. A partire da quelle sconfitte, il declino della cultura politica che sosteneva il fattore K fu segnato e fatale.

L’ideologia anti-comunista usata da Berlusconi fin dalla sua prima scesa in campo, nel 1994, che a molti sembrava anacronistica (non era forse finita la Guerra fredda?) era in effetti astuta, perché in Italia la cultura del partito comunista era molto radicata e la caduta del Muro di Berlino non bastava a seppellirla. Il ventennio berlusconiano rappresentò da questo punto di vista il completamento dell’erosione egemonica. Più che fatta di decisioni e momenti eclatanti – come i menzionati appuntamenti del anni ’80 – l’azione berlusconiana fu pervasiva e lenta. Certo, Berlusconi perse il referendum sulla riforma della Costituzione, ma vinse quello per la liberalizzazione della pubblicità e, soprattutto, consegnò ai cittadini un paese che avrebbe con facilità fatto la riforma della costituzione.

La leadership di Renzi giunge alla fine di un lavoro ai fianchi che ha atterrato il forte pugile: e si sta concretizzando proprio in quei due settori nei quali da Craxi a Berlusconi il fattore K è stato eroso: ovvero l’abolizione dell’articolo 18 e riforma in senso ‘esecutivista’ della Costituzione. Con la prima – che è tutta simbolica e con quasi nessuna ricaduta sulla situazione occupazionale, – ci dicono gli esperti – si mette fine alla filosofia della responsabilità sociale dell’economica, con la seconda alla pratica della rappresentanza politica fondata sul partito: liberismo e comitati elettorali (che si trovano non a caso a loro agio nello spazio della Leopolda), sono le due facce di una rivoluzione individualistica della società e personalistica della politica. In sostanza: Renzi ha messo una pietra tombale sul fattore K.

E questo spiega il suo consenso trasversale e anche nell’opinione intellettuale moderata, di coloro che hanno considerato il Pci e i suoi successori più o meno mascherati come il “problema italiano”, la non “normalità” del paese. Ora siamo normali: apatici (declino della partecipazione elettorale), indifferenti alle lealtà ideologiche (nonostante un’irrisoria resistenza, come si è visto con le recenti primarie in Emilia-Romagna dove molti sono andati al voto per ‘fedeltà’ alla sigla Pd), con una democrazia plebiscitaria gestita da un partito-macchina dell’opinione orchestrata. Ma siamo un paese normale anche sul fronte del pensiero sociale: il lavoro non è associato ai diritti sociali e alle garanzie ma alla monetizzazione e a un impiego qualunque. Non è associato soprattutto all’organizzazione che sola dà potere di trattativa a chi individualmente non ha forza, come i lavoratori dipendenti (tra i progetti di Renzi vi è il superamento del contratto nazionale, e la sua dura opposizione alla Cgil è coerente, non un incidente di percorso).

Se si dovesse riassumere con una frase l’Italia renziana si potrebbe dire che essa rappresenta la conclusione della lunga parabola che ha portato dalla socialdemocrazia-modello italiano (con il Pci a guidarla, nella pratica se non nella teoria) al liberismo umanizzato dalla solidarietà cristiana. Liberalismo economico e terzo settore o cattolicesimo sociale: questi i due pilastri dell’ideologia che meglio si accorda con la cultura dominante del nostro paese e che mette insieme un’audience molto larga che va dalla piccola e media impresa, ai professionisti, alla grande impresa. I lavoratori dipendenti non sono il gruppo determinante di questo Pd e Renzi è disposto a fare a meno dei loro consensi.

Il primo documento di Renzi il giorno stesso del suo insediamento a Palazzo Chigi conferma questa lettura: contro la distinzione tra Destra e Sinistra, egli propose il modello liberale caro alla cultura cattolica. Competizione individuale da un lato e solidarietà cristiana per chi resta indietro o cade dall’altro. Nessuna meraviglia che la leadership renziana goda di un tale consenso. E soprattutto che miri a ben più che una leadership di partito – egli vuole una leadership totale, plebiscitaria, e quindi deve fare del Pd il suo partito. Chi non ci sta è semplicemente irrilevante. Per questo restare dentro per fare testimonianza non ha senso, poiché le decisioni le prende la maggioranza in un modo che non solo non riflette le posizioni della minoranza ma le nega. Egli sta facendo del suo meglio (e a quanto pare bene) per rendere la coabitazione impossibile. Dopo di che potrà perfino dire che chi lascia se ne va di sua spontanea volontà.

*Huffington Post, 30 ottobre 2014.

One Comment

  1. michele

    il parallelo di Renzi e Berlusconi con Craxi è fuoriluogo: Craxi non fu il risultato di un voto plebiscitario (al massimo ottenne il 15% dei consensi, ma fu sostenuto da una DC che era più del doppio); le accuse di liberismo a Crsaxi e Renzi sono fuori luogo: il pensiero politico social democratico e liberal democratico (non le sue degenerazioni morali) del primo ha costituito il riferimento evolutivo che dal PCI portò al PDS e ai DS, applicato malamente da politici come D’Alema spesso alla ricerca di una captatio benevolentia e il definitivo sdoganamento dell’ex PCI nei confronti dei poteri finanziari e internazionali; definire Renzi liberista è restare ancorati a schemi settari del passato, liberista era la Tatcher, non Blair (ma se si è nostalgici del PCI e del PDS prima maniera, allora …).

Lascia un commento