Ricordati che devi morire! [di Carla Deplano]
“Ricordati che devi morire!” tuonava il frate francescano di Non ci resta che piangere contro un attonito Massimo Troisi, che rispondeva “sì sì… no, mo’ me lo segno proprio…”. Io fu’ già quel che voi sete, e quel ch’i’ son voi anco sarete: il memento mori del sarcofago di Adamo nella Trinità di Masaccio ricorda l’ora canonica. Nemini parco ribadisce la Signora con la falce nel Santo Sepolcro di Cagliari. Nella storia dell’arte non si contano le nature morte, metafore della caducità dell’esistenza che rimandano all’Ecclesiaste: vanitas vanitatum et omnia vanitas, ovvero nihil sub sole novum. Amen! Gli antichi ne avevano coscienza: la morte era un aspetto della vita e la si accettava. Cos’è cambiato nella percezione della morte? Oggi assistiamo alla degenerazione kitsch di una festa come Halloween, svilita tra quanti ci speculano e quanti invocano veglie notturne per cacciare diavoli e streghe. Ma forse All Hallows Eve, la notte prima di Ognissanti collegata con la festa dei Morti, potrebbe essere spiegata ai bambini con riferimento alle sue radici culturali, storiche e antropologiche invece di essere demonizzata. I bambini sono meno sciocchi di quanto si creda e hanno immaginazione. Ciò che terrorizza gli uomini, più della morte, è la paura dell’ignoto. Il timore delle anime che tornano ad infestare le dimore dei vivi accompagna tutte le culture. Da qui un’infinità di riti di propiziazione. Pensiamo all’obolo di Caronte che i Greci mettevano sotto la lingua dei defunti come viatico nell’Ade e alle tante feste con i morti del mondo romano. Il refrigerium – attestato a Cornus fino al VII secolo – rinsaldava il legame tra vivi e morti nel dies natalis, giorno della rinascita a nuova vita del defunto. Il cibo introdotto nelle tombe, attraverso condotti, aveva lo stesso valore dell’obolo di Caronte, mentre la libagione consumata nei cimiteri dalla famiglia e dalla comunità rivestiva un indubbio valore sociale. L’abitudine di riunirsi per la veglia funebre e consumare pasti comunitari nelle case – o addirittura nei cimiteri, come accade ancor oggi in Calabria nonostante la proibizione di un editto papale – non si discosta così tanto dal refrigerium pagano. I Romani commemoravano i morti il primo novembre con offerte di mele alla la dea Pomona per propiziarsi la fertilità. Durante i Parentalia, celebrati dal 13 al 21 febbraio in onore dei defunti della famiglia (parentes), si offrivano vivande alle anime degli antenati. L’ultimo giorno dei Parentalia corrispondeva ai Feralia. L’etimologia del nome di questa festa, che deriva dal latino ferre, “portare”, allude all’uso di portare doni ai morti introdotto, secondo Ovidio, nel Lazio da Enea, che avrebbe versato vino e violette sulla tomba di Anchise. Nella prima metà di maggio si celebravano le Lemuria per tenere buoni gli spiriti dei morti (lemuri) che perseguitavano i vivi. Il rituale introdotto, secondo Ovidio, da Romolo per placare lo spirito di Remo, prevedeva che il pater familias gettasse in casa per nove volte, alle proprie spalle, fave e recitasse formule propiziatorie. Nove giorni dopo il seppellimento o la cremazione i parenti del defunto davano una festa, la coena novendialis, in cui si versava vino sulla tomba del defunto. Divinità della bevanda fermentata è Dioniso, dio che risorge dopo la discesa negli Inferi, come Gesù. Nel mondo pagano bere vino significa ingerire il dio: rituale istituzionalizzato dal Cristianesimo nell’eucarestia. La tradizione del primo novembre, diffusasi durante la tardo-antichità ed il Medioevo, di girare per i centri abitati, mascherati o meno, e chiedere il “pane d’anima” in cambio di preghiere in suffragio dei defunti trova corrispondenze nell’attuale ritualità. Al di là del folklore celtico, della mutuazione cristiana, e della secolarizzazione americana, ancor oggi in Sardegna durante la ricorrenza di Santi e Morti (Su Prugatoriu, Is animeddas, Su mortu mortu ecc.), ai bambini che all’imbrunire si recano di casa in casa chiedendo dolci e soldi in cambio di preghiere per i morti vengono offerti pabassinas e pane ‘e saba. Oggi ci ritroviamo più che mai esposti alla morte (degli altri) senza pietà né filtri attraverso immagini macabre e cruente propinate da mass media e videogiochi, che offrono una spettacolarizzazione distorta e morbosa. Nell’epoca dei progressi della medicina e degli accanimenti terapeutici la durata media della vita si è allungata dilatando la vecchiaia. La rimozione della morte fa sì che vecchi e malati vengano confinati lontani dalla vista. Halloween, Ognissanti, Festa dei Morti e i lutti dovrebbero rappresentare l’occasione per insegnare ritualmente ai bambini a gestire la paura della morte cavalcando, in modo ludico e istruttivo, il retaggio di tradizioni millenarie legate al valore simbolico del cibo. Il superamento della soglia della paura del mondo dei morti attuabile con l’ esorcizzazione di un luogo come il cimitero, rivela la portata educativa fondamentale anche per il recupero di una dimensione identitaria familiare che si è sempre più affievolita. La riscoperta consapevole dell’es collettivo porta alla condivisione di valori etico-sociali archetipici che rappresentano le basi del miti e delle religioni, parte integrante del nostro inconscio collettivo. Si tratta delle radici comuni alle culture umane, che sarebbe bene non perdere perché l’esperienza concreta dell’antropologia insegna che negare la morte, in una continua fuga dal senso, genera un’altra morte. |
Nella mitopoiesi il processo di fermentazione sta alla base della creazione. La focaccia dolcificata con l’impasto di sapa, che è il mosto cotto, non può non ricordare il “pane d’anima” dei primi cristiani. Quando mangiamo il nostro pane ‘e saba non scordiamoci, quindi, il significato metaforico del mosto. Gli acini, simbolo di vita e fecondità, attraverso la spremitura che equivale alla morte, subiscono un processo chimico di trasformazione attraverso la fermentazione, che simboleggia a sua volta la resurrezione e la rinascita a nuova vita … quant’è vero che a tavola non s’invecchia.