Gli intellettuali, una vita difficile [di Giuseppe Pulina]

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Il pezzo di Silvano Tagliagambe –  pubblicato ieri in questa rivista-  come al solito ci ha azzeccato. Ha riscoperchiato la pentola in cui bolle da qualche millennio la questione del ruolo degli intellettuali nella società. Come ci ricorda Silvano, non è da oggi che i poteri si scagliano contro chi professa la libertà di vedere meglio le cose (in fondo a un pozzo o in cima a una montagna, o semplicemente dentro il silenzio di una grande biblioteca) e molte intelligenze hanno dovuto piegarsi, nascondersi o soccombere alla brutalità secolare dell’ignoranza.

Tuttavia, credo che rivendicare oggi agli intellettuali una voce nel capitolo della politica sia un ossimoro per almeno tre ragioni.

La prima è che la democrazia promuove la cultura, ma non é il “governo dei filosofi”. Anzi, maggiore democrazia, minore possibilità che la rappresentanza derivi verso una o più componenti della società: poiché in parlamento sono (o dovrebbero) essere presenti tutte le anime di una società, la maggiore diffusione dell’a-cultura si rispecchia perfettamente nella composizione delle nostre assemblee democratiche.

La seconda è che, anche nella migliore delle ipotesi, i poteri (quello accademico compreso) sono conservativi e contrastano con ogni mezzo, compreso il dileggio, la libertà di riflessione e di elaborazione che rappresenta l’unica modalità per distinguere un “intellettuale” da un “lavoratore dell’intelletto”.

La terza e la più importante è il predominio della τέχνη sulla ψυχή, della tecnica sull’anima, che ha reso inutile qualsiasi discorso non finalizzato al raggiungimento di un obiettivo valevole sul piano pratico. Pensare, generalizzare, utilizzare categorie astratte, faticare nello studio, assumere connotati scomodi sul piano del discorso, ebbene, tutto ciò non sembra servire, non è collocabile nella scala di valori della nostra società.

Eppure le idee, se belle ed eleganti, sono come i teoremi della matematica: riprendo il pensiero di Aldo Cappio-Borlino, caro amico scomparso, il quale, nel concludere un seminario che diversi anni fa organizzammo su “l’irragionevole utilità della matematica” (dal titolo del celebre lavoro pubblicato dal fisico Eugene Wigner nel 1960) affermava che “molti teoremi sono stati dimostrati senza avere la più pallida idea a che cosa servissero. E’ come se fossero dei bellissimi oggetti messi in una soffitta fra polvere e ragnatele. Noi, aggirandoci in questa soffitta, ogni tanto veniamo attratti da uno di questi oggetti. Lo osserviamo bene, lo spolveriamo e lo utilizziamo rendendoci conto della potenza insita in quanto stiamo maneggiando, che era stato costruito da un matematico per il semplice gusto di costruirlo”.

Il ruolo vero degli intellettuali è quello di produrre dei begli oggetti mentali, le idee, senza preoccuparsi del loro immediato uso pratico: se sono veramente “belli”, anche se non saranno utili (o lo saranno quando magari di noi si sarà persa memoria), non sarà stata tradita la missione dei Chierici del Pensiero.

 

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