Decisionismo ieri e oggi. Vizi e virtù del modello Craxi [di Gianfranco Pasquino]
Mondoperaio 9/2014. L’ultima cosa che farò consiste nell’andare alla ricerca affannata e affannosa del decisionismo dei contemporanei. Mi limiterò soltanto, ma mi pare moltissimo, a cogliere la struttura e gli aspetti qualificanti (successi e fallimenti) del decisionismo di Bettino Craxi, mettendoli nel contesto dei quindici ruggenti anni in cui il segretario socialista ebbe il potere di esplicarlo. Da subito, però prendo atto della ripartizione temporale in tre fasi opportunamente proposta e utilizzata da Luigi Scoppola Iacopini. Prima fase: dal 1976 alla conquista di Palazzo Chigi nel 1983, “di gran lunga la più felice e incisiva”; seconda fase: gli anni della guida del governo (1983-1987): “terminato lo slancio iniziale, cominciano ad affiorare alcuni preoccupanti segnali di involuzione”; terza fase che “abbraccia l’ultima stagione culminata poi nel crollo” (pp. 97-98). La panoramica di opinioni e di interpretazioni del decisionismo craxiano offerta in questo prezioso libro, arricchito da una importante documentazione con utilissimi testi di approfondimento, convergerebbe nell’individuarne la manifestazione più significativa e incisiva nel periodo di governo. A questo decisionismo si attaglia la definizione che Gennaro Acquaviva offre nella sua nota introduttiva, affermando che questa fu una dote particolarmente di Craxi: “Saper prendere decisioni politiche, anche serie e rischiose, con freddezza e al momento giusto, costruendosi contemporaneamente condizioni e forza sufficienti a fargli convogliare sulla decisione un consenso ampio e ben solido, in grado di portarlo alla realizzazione della decisione” (pp.9-10). Nella sua prefazione Piero Craveri amplia il discorso – come anch’io credo bisognerebbe fare – affermando reciso che “il decisionismo di un leader e di una classe dirigente politica si misura su quello che questa può decidere” (p. 18). Craveri lascia intendere che allora si potesse decidere molto e oggi poco, trovandomi in disaccordo. Mantengo alto il mio disaccordo anche con i molti che continuano a ritenere e sostenere che il famigerato complesso del tiranno abbia reso costituzionalmente debole il capo del governo italiano. La mia posizione è che il capo del governo può essere forte anche in Italia se ha autorevolezza personale, competenza, un progetto, e se fonda il suo potere sul sostegno convinto, ma non servile, di un partito maggioritario. Se qualcuno pensa che io intenda riferirmi a qualche situazione contemporanea, sono sue congetture: ma rilegga il mio sapiente uso delle parole di cui sopra. Per completare le opinioni sul decisionismo, è opportuno citare Giuseppe De Rita. Il vecchio sociologo specifica che “lo statista è decisionista giorno per giorno e nelle istituzioni. Craxi, invece, era un decisionista politico una tantum, e questo, alla fine, lo ha lasciato nudo: il Parlamento non lo ascoltava, il Csm neanche lo considerava, la Magistratura lo inseguiva. Era un uomo senza istituzioni, perché non era stato capace di trasformarsi da politico a statista, da politico a uomo delle istituzioni” (p. 37). De Rita offre anche la sua teoria sul decisionismo: “Per decidere, bisogna concentrare il potere, bisogna verticalizzare il potere. Per farlo, bisogna personalizzarlo. Per personalizzarlo, bisogna mediatizzarlo, cioè renderlo pubblico, e per fare tutto questo ci vogliono un sacco di soldi” (p. 36, tutti corsivi miei). Postilla: per mediatizzare è, con tutta probabilità, sufficiente “fare notizia” con proposte, comportamenti, soluzioni. Quanto alla concentrazione, alla verticalizzazione e alla personalizzazione, bisogna avere o volere costruire un partito e istituzioni apposite, come, ad esempio, il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica: Vive la France! Naturalmente esiste anche una concezione del modo di governare che è del tutto opposta al decisionismo: è la mediazione. Portata ai suoi livelli più raffinati da Aldo Moro, ma condivisa da tutti i democristiani ad eccezione di Amintore Fanfani, la mediazione respinge la concentrazione del potere, non lo verticalizza, si oppone alla personalizzazione preferendo le trattative con le associazioni. Alla fine del processo di mediazione (spesso definita “incessante”, spesso così voluta dai “mediatori”) non ci sarà una vera e propria decisione, ma la semplice accettazione di quanto è emerso nel corso della discussione, dei negoziati, degli scambi di ogni tipo. Persino Ciriaco De Mita – non a caso osteggiato, ricambiatissimo, da Craxi – nella sua esperienza di governo fu sostanzialmente moroteo, cioè interessato al “ragionamento”, una formula appena più intellettuale della mediazione. Ovviamente ai morotei (in politica, nelle redazioni dei quotidiani e nelle cattedre universitarie) il decisionismo craxiano apparve da subito e per sempre scandaloso. Per quel che ne so, Craxi fu sempre pienamente consapevole delle costrizioni che il sistema politico italiano poneva a quella che per lui era una assoluta necessità: prendere decisioni molto incisive proprio per cambiare il sistema, per rompere il bipolarismo Dc/Pci, per dare un ruolo più importante all’Italia in Europa. La sua riluttanza per tre mesi a nominare il capo di gabinetto alla Presidenza del Consiglio fu assolutamente indicativa del tentativo di sfuggire alle reti di rapporti che gli alti burocrati romani hanno da tempo intessuto e alimentato e grazie ai quali, muovendosi da gabinetto a gabinetto e da ministro a ministro, ingabbiano l’azione e contengono la (eventuale) vivacità dei governi. Neanche le numerose crisi dei governi democristiani incidevano sul potere dei burocrati, sempre disponibili, sempre pronti a costruire chiavi in mano le segreterie di qualsiasi ministro arrivasse (meglio se non già “romano”). Naturalmente, chiunque avesse potuto contare su Giuliano Amato come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, avrebbe potuto fare a meno di un apparato costitutivamente frenante. Nel riflettere sulla sua esperienza (forse non soltanto di sottosegretario, ma di ministro e di Presidente del Consiglio), Amato sottolinea che in Italia il potere non è né del Parlamento né del governo: “È un potere di quei pochi grands commis d’apparato che dominano le tecniche attraverso le quali queste regole vengono messe insieme”. Rilevo che il politologo che è in me da diversi decenni pensa che l’alternanza fra partiti e coalizioni e la facoltà di creare gabinetti politici dovrebbero servire a fare “circolare” e, quando necessario, emarginare i grands commis. Peraltro, in pratica, la traiettoria decisionista craxiana non fu eccessivamente intralciata dalla burocrazia. Da un lato, si esplicò con vigore; dall’altro, cadde prigioniera delle contraddizioni e degli errori dello stesso Craxi. Nei saggi di questo ben costruito e utile volume, colgo tre esempi importanti di decisionismo che ebbe successo: il decreto di San Valentino, Sigonella, l’Atto Unico. In tutt’e tre i casi il decisionismo di Craxi rompe lentezze, titubanze, incrostazioni di potere, interessi costituiti. Credo che dei tre il più importante sia stato il decreto di San Valentino, per diverse ragioni che spiego. La prima ragione è che questa fu la vera sfida a un doppio tabù: concertare sempre con i sindacati, accordarsi previamente con il Pci. Purtroppo, i successivi governanti non hanno imparato la lezione cosicché l’Italia ha continuato a soffocare fra accordi e concertazioni. La seconda ragione è che Craxi, insieme in modo speciale a Pierre Carniti, costruì davvero quella decisione. Dunque non si trattò di un decisionismo brutale e senza fondamento, ma di una decisione meditata. Infine, seppure dopo qualche tentennamento, Craxi accettò anche la sfida referendaria del 1985. Non ho dubbi (e i sondaggi di quei tempi mi confortano) sul fatto che la vittoria nel referendum arrise a Craxi quando divenne chiara a tutti la sua sfida con piena assunzione di responsabilità: “Un minuto dopo l’eventuale sconfitta, il Presidente del Consiglio darà le dimissioni”. Un milione e più di elettori valutò che la stabilità del governo e del capo di quel governo fosse molto più importante di due punti di scala mobile. Craxi non giocò d’azzardo, ma si espresse come uno statista che mette in gioco la sua carica per tutelare gli interessi del paese. Qui, però, sta il punto critico. In un’occasione non dissimile, il referendum sulla preferenza unica del giugno 1991 (sì, lo so che può apparire di importanza nettamente inferiore alla scala mobile, ma Craxi aveva scommesso molto anche sulla Grande Riforma, alzando quindi la posta), il suo comportamento contraddisse appieno la mission di uno statista. Craxi valutò esclusivamente l’eventuale impatto dell’esito del referendum sul Psi. Sbagliando, anzitutto, poiché la più danneggiata sarebbe stata, e fu, la Democrazia cristiana, per la quale le preferenze multiple erano simili a reti a strascico che raccoglievano e trascinavano elettori del più vario tipo. Sbagliando in secondo luogo perché quel referendum apriva la strada proprio ad altre più incisive riforme istituzionali. Sbagliando, infine, perché con il suo invito ad andare al mare appariva come il perno della conservazione di un sistema che da più di un decennio lui stesso sosteneva (sempre più vagamente) di volere cambiare. Questa torsione straordinariamente conservatrice non fu contrastata da nessuno nel suo partito, un’organizzazione che era oramai una palla al piede del segretario, che l’aveva lasciata in mano a ras locali che facevano il bello e il cattivo tempo nei comuni, nelle provincie, nelle regioni, dimostrando una disinvoltura coalizionale senza precedenti (ma con gravi conseguenze sull’immagine del partito). Nessuna sorpresa che la popolarità e il grado di apprezzamento di Craxi siano fino all’inizio degli anni Novanta rimasti di gran lunga più elevati di quelli del Psi. Sia Covatta sia Spini (citato da Scoppola Iacopini) hanno parole dure nei confronti dell’organizzazione. Covatta ritiene che il progetto di tagliare le unghie ai “signori delle tessere” e di ridimensionare il ruolo del partito degli assessori non fu neppure iniziato perché, se ho capito bene, Craxi ritenne “americanate” le proposte di riforma pubblicate, fra l’altro, anche sulle pagine di Mondoperaio (dev’esserci anche qualche mio articolo in materia). Spini sottolinea che la concezione del partito adottata o intrattenuta da Craxi non fu “né fisiologica né feconda perché divideva il partito in tanti potentati, fino appunto, a perderne il controllo” (p. 109). Insomma, il decisionista aveva deciso di librarsi alto lasciando le mani troppo libere a un ceto di opportunisti. La spiegazione mi pare semplicistica. Si vorrebbe saperne di più. La conseguenza, invece, è chiarissima. Quel partito non era in grado di capire che cosa succedeva nell’elettorato. Quei dirigenti erano troppo preoccupati dalle loro carriere e prospettive di carriera. Non avevano nessuna voglia di interloquire con Craxi (certo, poco disposto a tollerare il dissenso aperto). Con il referendum del 1991 venne la rivelazione che il leader non era più in grado di cogliere e interpretare l’umore dell’elettorato. L’inatteso – ma in buona misura prevedibile – consenso referendario travolse Craxi e con lui il Psi senza che quell’organizzazione feudalizzata riuscisse a opporre resistenza alcuna. Il resto, nel migliore dei casi (ma quale?), è tardiva recriminazione. Per qualcuno dei decisionisti contemporanei potrebbe anche essere una lezione. Un’organizzazione di donne e uomini disposti a fare politica sul territorio serve anche a raccogliere informazioni e a diffondere comunicazioni più e meglio di qualsiasi scarica di tweet. Titolo: Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983-1987)
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